il manifesto 18.1.19
Gli strafalcioni dell’accecante odio anticomunista
Le "verità" sui comunisti e sul manifesto. Il tono di Veneziani è assunto ormai da molti altri, compresi i ministri del governo del nostro paese, e porta il timbro della cultura fascisteggiante
di Luciana Castellina
Ricordate la famosa frase di Alfred Rosenberg, teorico hitleriano: «Quando vedo un intellettuale tiro fuori la pistola»? Attaccare gli intellettuali è una costante dei fascismi ed è allarmante che la pratica stia dilagando a ritmi sempre più intensi, coinvolgendo nella valanga di calunnie e strafalcioni storici persino moderati organi di stampa.
Il culmine si è avuto ieri con La Verità – ma questo non meraviglia – che ha pubblicato una isterica invettiva di Marcello Veneziani (di intellettuali ce ne sono di tutti i tipi, naturalmente) in cui se la prende con tutta la cultura italiana e francese, ma, con particolare accanimento con il sessantotto e, segnatamente, con il manifesto.
SUI TERMINI il Veneziani non fa sconti: fra i «criminali ideologici» e «cani morti del comunismo» che non si sarebbero mossi per Jan Palach o, se lo hanno fatto, è solo per amore di quell’altro criminale di Mao Tse Tung, vengono annoverati: Moravia, Macciocchi, Collotti Pischel, Pisu, Sanguineti, Fo, Jacoviello, Basaglia, Cavallari, Colombo (Furio e Vittorino), Bellocchio, La Valle, Zaccagnini, Sartre, de Beauvoir, Goddard, Althusser, Garaudy, più, naturalmente, l’intero manifesto, il Movimento studentesco con Capanna e Michele Santoro.
L’occasione dello sfogo è, per l’appunto, la commemorazione di Jan Palack che i fascisti avrebbero il diritto di ricordare, in quanto notoriamente paladini della libertà – gruppi nazirock e fascisti lo vogliono fare domani a Verona con l’avallo di molte istituzioni pubbliche.
L’odio anticomunista è così accecante che fra chi avrebbe sostenuto quelli che l’eroe cecoslovacco intendeva denunciare dandosi fuoco a Praga, ci saremmo anche noi, che – come è superfluo ricordare perché fin troppo noto – fummo radiati dal Pci proprio perché ritenevamo troppo debole la condanna che dell’invasione dei carri armati sovietici era stata pronunciata da quel partito.
Veneziani peraltro, come del resto moti altri, dimentica che quei carri armati inviati da Mosca non si erano mossi per rovesciare un governo di destra, ma il governo comunista di Dubcek; e che il Partito comunista cecoslovacco (allora la Cecoslovacchia era, anche per le leggi della Primavera 1968, paese federato e unitario) fu vittima di quell’attacco e costretto a tenere un congresso straordinario in clandestinità in una fabbrica in periferia, protetto da picchetti di operai comunisti armati; e che le Tesi di quel congresso proprio da il manifesto furono in seguito pubblicate.
E CHE JAN PALACH, che amava definirsi «comunista luterano», vedeva la «speranza» nel socialismo dal volto umano di Dubcek del quale era sostenitore. È comunque sulla Cina che Veneziani soprattutto si dilunga mostrando di non sapere nulla di quanto accadde in quel paese e di quali furono le origini della rivoluzione culturale.
Se il Sessantotto incluse Mao Tse Tung fra i suoi punti di riferimento è perché pur agli apici del suo potere ebbe il coraggio di denunciare la burocratizzazione crescente del regime, i privilegi che la «casta» andava accaparrando, la distanza che si stava scavando fra le istituzioni e il popolo.
IL SESSANTOTTO LO AMÒ perché aveva osato denunciare la pericolosa involuzione del suo stesso partito e per aver incitato i militanti comunisti a reagire prima che fosse troppo tardi, attaccando, fra l’altro, alla porta del proprio comitato centrale, il famoso dazibao con su scritto: «Bombardate il quartier generale», una indicazione indispensabile anche fuori dalla Cina.
Mao fu sconfitto, e le cose presero un altro corso, ciecamente sostenuto dai tanti gruppetti Ml (marxisti-leninisti) che pullularono in quegli anni, tristemente sostenuti dall’Ambasciata cinese in Italia che, da quando noi del manifesto avanzammo critiche sul corso degli accadimenti in Cina, troncò ogni contatto con noi.
Quanto alla destra, e alla sinistra ormai burocratizzata, furono contente che i loro quartier generali si fossero salvati per via della disgraziata degenerazione di quella rivoluzione.
L’ARTICOLO DI VENEZIANI, e il tono assunto ormai da molti altri, innanzitutto dai ministri del governo del nostro paese, porta il timbro della stessa cultura fascisteggiante: odio bieco, insulti, calunnie nei confronti dei comunisti e più in generale della sinistra e tanta, ma tanta ignoranza fino all’oscurantismo.
Il tutto serve a occultare il fatto che nonostante le roboanti dichiarazioni iniziali il potere vero, quello responsabile della miseria crescente degli italiani, delle pensioni di fame di tanti e della disperazione dei giovani senza lavoro, quel potere economico, la vera élite, quella non intendono toccarla. A copertura ci si inventa che responsabili di tutto sono i comunisti, e in primis, il manifesto attuale nonché la sua storia! Per fortuna, ora – proclamano – li abbiamo ammazzati: sono ormai solo «cani morti». Adesso, ne sono certi, tutto andrà per il meglio. Auguri !
Repubblica 18.1.19
Il racconto
Un giorno di ordinario estremismo
Il raduno neofascista di Latina ”Salvini ha spostato l’Italia verso le nostre idee"
Il leader Fiore: "Quello che dicono Lega e in parte i 5Stelle è il nostro programma, ma loro non hanno le camicie nere"
I complimenti a Fontana
di Clemente Pistilli
LATINA «Salvini è una persona che ha portato la Lega a un alto livello.
Ritengo che quello che sta facendo contribuisca a spostare gli italiani verso posizioni buone.
Ma quando si arriva allo scontro col sistema o hai una classe pretoriana, le camicie nere insomma, o sei destinato a perdere. L’unica idea che resta in piedi è così la nostra». E giù applausi.
A parlare, in una stanza della Casa del combattente di Latina, un edificio di fondazione ora sede delle associazioni combattentistiche, è Roberto Fiore, estremista di destra, tra i fondatori di Terza Posizione, condannato per banda armata e associazione sovversiva e da oltre un ventennio segretario nazionale di Forza Nuova.
Mercoledì sera è giunto nel capoluogo pontino, o come dice lui Littoria, con tutto lo stato maggiore del partito, per una conferenza dal tema "Dal populismo alla rivoluzione". Per dire via tutti gli stranieri, stampiamo moneta nostra e puntiamo tutto sulla famiglia.
Una conferenza come quella che potrebbe fare qualsiasi partito, nonostante membri di Forza Nuova siano stati nel tempo al centro di numerose inchieste, a partire da quelle per istigazione all’odio razziale, e in soli cinque anni, dal 2011 al 2016, abbiano collezionato 240 denunce e 10 arresti. Nessun cenno alle violenze. Nell’Italia di oggi, con un governo «del cambiamento» che secondo la stessa FN si trova sulle posizioni che il gruppo di estrema destra ha da sempre, accade anche questo.
Ad ascoltare Fiore e a farsi dare la carica ci sono una trentina di militanti. Comprese mamme con adolescenti al seguito. Tutti ad ascoltare il capo, che annuncia di voler ripartire da Latina per avviare una nuova bonifica. Un legame forte del resto quello tra la terra pontina e le destre, a partire da FN. Quattro anni fa a Forza Nuova a Latina aveva aderito persino Angelo Tripodi, attuale capogruppo nel consiglio regionale del Lazio della Lega di Matteo Salvini. «Se andiamo a vedere il programma della Lega di cinque anni fa – afferma del resto sempre Fiore – e quello di FN e poi vediamo cosa dicono oggi Salvini e in parte i 5 Stelle si nota subito che quello che ora dicono si identifica totalmente col nostro programma di sempre, mentre era molto diverso cinque anni fa il programma di Bossi». Il segretario nazionale aggiunge poi, rispondendo così anche a chi gli chiede di eventuali accordi, che «determinate idee sono entrate nel cuore degli italiani», ma i giallo-verdi sarebbero il modo che «il sistema» ha trovato per gestire quelle idee. Salvini inoltre, secondo Fiore, ha a cuore temi sociali, però «non ha una formazione» e non ha una «classe politica sua».
Tanto che anche i "migliori" dell’attuale governo, sempre secondo il capo di FN, verrebbero bloccati dai poteri forti: "Abbiamo un ministro, Fontana, che è sicuramente su posizioni nostre. Un cattolico, contro il gender nelle scuole, contro la 194, ma quello che è riuscito a far passare nella manovra finanziaria è pari a zero". Il "deep state" è troppo forte. E per Fiore, bontà sua, ne sono una delle più robuste espressioni "Repubblica" e "l’Espresso": "Attaccano noi più di Lega e 5Stelle perché sanno che in questo momento possiamo trasformare il mondo". L’aggressione al cimitero del Verano? "Ho presentato un esposto. Verranno indagati per calunnia. Non c’è stata aggressione, secondo la loro versione, ed è stato solo chiesto loro di cancellare delle foto che avevano fatto a dei bambini".
Parole che galvanizzano i presenti.
«Ci autoproclamiamo come un’aristocrazia rivoluzionaria che porterà l’Italia e poi il mondo verso una nuova luce. Dobbiamo iniziare dalle scuole, andremo a battere i pugni come nel 1922, come Codreanu», tuona Francesco Mastrobattista, coordinatore provinciale di Lotta Studentesca. Basta «aderire alla volontà di rivoluzione», di cui parla il coordinatore di FN nel centro Italia, Leonardo Cabras, lo stesso che alla trasmissione "La Zanzara" negò l’Olocausto e sostenne che nei campi di concentramento c’erano cinema e piscina. I tempi per Fiore sono maturi: «È arrivato il momento che aspettiamo da 50 anni. Il ciclo dell’antifascismo si è chiuso». Mercoledì Littoria e poi l’Italia. In quella del 2019 ormai si può.
il manifesto 18.1.19
A Latina il mondo di sopra del caporalato
di Marco Omizzolo
Una gerarchia chiara e consolidata, dall’ultimo anello della catena – i braccianti migranti sfruttati – fino ai colletti bianchi dell’Ispettorato del lavoro e del sindacato. Pezzi deviati dello Stato, che agiscono per i loro interessi a discapito dei diritti e la dignità di centinaia di braccianti.
A Latina e dintorni, come ha confermato l’operazione dello Sco della Polizia condotta dalla Questura di Latina e della Procura della Repubblica, la macchina era ben oliata e funzionava perfettamente: almeno 500 persone reclutate e portate a lavorare nei campi con l’ausilio di autisti e capisquadra romeni. Una finta cooperativa agricola, Agriamici, faceva da agenzia di somministrazione di lavoro, ovviamente senza essere iscritta nell’apposito albo, e riforniva le aziende agricole locali di braccia per la raccolta.
A fornire i mezzi di trasporto era un’altra società, la Ellebi. Insomma, ad essere stato scoperto, finalmente, è il mondo di sopra del caporalato, ossia quell’insieme di professonisti e funzionari pubblici che da decenni consentono a padroni, padroni, caporali e sfruttatori vari della provincia di Latina di agire nella piena illegalità, fino a ridurre in schiavitù i lavoratori e tra questi, soprattutto migranti rumeni e richiedenti asilo subsahariani.
Un dipendente dell’Ispettorato nazionale del lavoro e il segretario della Fai Cisl della provincia di Latina fornivano le coperture necessarie e inoltre fornivano le necessarie informazioni agli sfruttatori per evitare controlli di ogni genere. Per la precisione, recita l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Latina, Gaetano Negro, su richiesta del Procuratore Carlo Lasperanza e del sostituto Luigia Spinelli, «consentivano la sopravvivenza della organizzazione ai controlli ispettivi e alle denunce-querele nel tempo inoltrate, tramite vantaggi patrimoniali quali l’adesione forzata della manodopera al sindacato e/o il lucro derivante dalla organizzazione di corsi sulla sicurezza sul lavoro per opera della pseudo-cooperativa indicata». Insomma, colletti bianchi del caporalato che agivano per interesse proprio e dei padroni.
I nomi e i cognomi dei sei arrestati di ieri e dei 50 indagati – imprenditori agricoli, commercialisti, altri sindacalisti a piede libero raccontano di un pezzo di territorio dedito allo sfruttamento, alla produzione di buste paga finte, alla riduzione al minimo di ogni costo per massimizzare i profitti.
A conferma delle denunce che per anni hanno fatto realtà come In Migrazione, Flai Cgil e la stessa comunità degli indiani del Lazio e soprattutto i sikh, che proprio a Latina organizzarono uno dei maggiori scioperi degli ultimi decenni, con oltre quattromila braccainti indiani che il 18 aprile del 2016 manifestarono nel capoluogo pontino reclamando diritti, giustizia e il rispetto del loro contratto di lavoro. Alcuni dei braccianti erano richiedenti asilo che uscivano ogni mattina dai centri di accoglienza e soprattutto da alcuni Cas locali, nei quali attendevano il riconoscimento della protezione internazionale. Anche in questo caso la peggior prima accoglienza che si associa criminalmente al caporalato e allo sfruttamento lavorativo. Stipati in venti in un pullmino, pagati un terzo rispetto alle ore di lavoro effettive, almeno 12 al giorno, sottoposti a una vera e propria estorsione con l’obbligo di iscriversi al sindacato Cisl per garantire a questo i ritorni economici necessari in termini di domande di disoccupazione che lo Stato avrebbe garantito.
La Stampa 18.1.19
Latina
I caporali e la legge della schiavitù
“Quei migranti sono roba nostra”
di Andrea Palladino
Appaiono come ombre, alle 5 del mattino. Tra Sezze e Latina, sui lati della via Appia, cinquanta chilometri da Roma. Passano pochi minuti ed ecco i furgoni dei caporali: via, stipati, seduti uno sopra l’altro, ammassati come una merce qualsiasi. In fila i mezzi si avviano verso i campi, dal litorale romano di Anzio, fino al sud Pontino. Sono rumeni, spesso con il ruolo di caposquadra, presenza storica nella zona. E poi africani, ultimi arrivati seguendo il passa parola. Paghe da fame, poco più di 4 euro l’ora, la metà di quanto prevedono i contratti per l’agricoltura. Piegati sulla terra fino a 10, 12 ore al giorno, senza pause, appena una mezz’ora – non pagata – per consumare il pranzo. E poi il silenzio, la testa bassa e nessuna protesta. Il padrone è tutto, ti dice a quale sindacato è meglio iscriversi se vuoi mantenere il posto, se vuoi continuare a raccogliere frutta e verdura, a potare, a dissodare la terra. Decide della tua vita: se protesti sei fuori.
L’inchiesta
L’ultima inchiesta sul caporalato della Procura di Latina dipinge la normalità dello sfruttamento in terra pontina. Cifre pesanti, che fanno capire come l’assenza di diritti e l’abbattimento brutale dei costi del lavoro sia la prassi quotidiana. Le chiamano cooperative senza terra. Poco più di una partita Iva creata solo per coprire, con una parvenza di normalità, quello che per gli inquirenti è l’antica piaga del lavoro nero.
La cooperativa AgriAmici di Sezze, colpita ieri dalle indagini, non aveva mai chiesto le autorizzazioni per l’intermediazione della mano d’opera; forniva i servizi «a corpo» alle aziende agricole, anche se in realtà l’unico business erano quei furgoni stracolmi di migranti con paga da fame. Gli investigatori della Squadra mobile e del Servizio centrale operativo hanno contestato un illecito guadagno da 4 milioni di euro in appena tre anni, con la gestione di oltre 400 lavoratori irregolari forniti a decine di aziende. Tutti italiani i sei arrestati: gli imprenditori Luigi Battisti e Daniela Cerroni, della provincia di Latina, ritenuti i capi dell’organizzazione; Luca Di Pietro, formalmente il presidente della cooperativa; il segretario della Fai Cisl di Latina Marco Vaccaro, accusato di fornire la giusta copertura, e Nicola Spognardi, un ispettore del lavoro accusato di corruzione.
Le intercettazioni
Quando Luca Battisti, ritenuto il dominus del sistema di sfruttamento, parlava al telefono con un dipendente delle paghe il volto del caporale diventava feroce: «Questi cazzo di africani hanno rotto i coglioni», sbottava. Chi protestava veniva buttato fuori, per sempre: «Ha visto la busta (paga) e l’ha rilanciata sul tavolo (…) reagiscono così perché vedono a zero la busta (…) mo’ lo volevo licenzia’», commenta una dipendente in una intercettazione citata nell’ordinanza di custodia cautelare. La stessa sorte poi toccava ai lavoratori migranti che non si iscrivevano alla sigla del sindacalista amico: «Se non firmano non gli rinnovo il contratto», erano le parole dell’imprenditore Luigi Battisti al segretario della Fai Cisl Marco Vaccaro. I lavoratori per l’organizzazione erano alla fine poco meno che merce: «Quelli so’ nostri», era il commento sui lavoratori africani portati nei campi.
Quando cala il sole sulla via Appia i migranti riappaiono, in centinaia, per poche ore. I gilet gialli che indossano, mentre tornano verso le abitazioni sparse nelle campagne in bicicletta, qui sono il segno dello sfruttamento. Italianissimo. Spariscono tra i casolari, tra indifferenza e malcelato razzismo: «Sono ovunque, come la gramigna», commenta una negoziante in uno dei tanti borghi di Latina. È buio, tra qualche ora ripartono i pulmini dei caporali.
il manifesto 18.1.19
La coop dei caporali, migranti nei campi per 12 ore al giorno
Roma. Sei arresti e 50 indagati. In manette anche un sindacalista e un ispettore del lavoro. I braccianti venivano pagati solo 4 euro l’ora
di Marina Della Croce
L’organizzazione l’avevano pensata bene: una cooperativa che raccoglieva all’alba i lavoratori da sfruttare nei campi, affiancata da un sindacalista e da un ispettore del lavoro che coprivano tutto, aggiustavano i problemi e alla fine passavano all’incasso. Un meccanismo ben oliato e funzionante sul quale però dalla fine del 2017 avevano messo gli occhi sopra gli uomini della squadra mobile di Latina e del Servizio centrale operativo che ieri mattina sono passati all’azione. Sei le persone finite in manette, tra le quali i titolari della cooperativa Agri Amici, L. B. e D. C., con sede a Sezze, in provincia di Latina, ai quali spettava il compito di reclutare e sfruttare i lavoratori, soprattutto migranti centrafricani e rumeni, il segretario generale provinciale della Fai-Cisl, la Federazione agricola, alimentare e industriale, M.V., che avrebbe garantito protezione alla cooperativa estorcendo per di più l’iscrizione dei braccianti al sindacato, e un ispettore del lavoro, dipendente dell’Ispettorato territoriale di Latina, N.S., che avrebbe avuto il compito di garantire anche lui sicurezza alla coop elargendo , in cambio di utilità economiche, consigli su come fare per evitare controlli e contestazioni. Oltre a loro risultano indagate altre 50 persone, mentre sarebbe diverse centinaia i migranti sfruttati.
Gli appostamenti eseguiti dagli agenti hanno permesso di riprendere numerosi furgoni che all’alba si fermavano alla periferia di Latina per raccogliere i braccianti. Decine di persone stipate all’interno di ogni mezzo senza il minimo rispetto per le misure di sicurezza e trasportate nel campi di quasi tutto il Lazio. Gli inquirenti hanno infatti accertato che gli imprenditori che usufruivano dei «servizi» offerti dalla coop si trovavano nelle provincie di Latina, Roma, Frosinone e Viterbo. A dir poco disumane le condizioni di lavoro dei braccanti costretti a restare nei campi fino a dodici ore al giorno pagate 4 ore l’una, la metà di quanto previsto dal contratto. E non si trattava dell’unica forma di sfruttamento: i braccianti venivano infatti obbligati sotto la minaccia di licenziamento a iscriversi al sindacato, che in questo modo riusciva a trarre profitti, oltre che dalle quote di iscrizione, anche dalle pratiche necessarie per ottenere l’indennità di licenziamento. Un business a quanto pare parecchio redditizio. In un sms inviato sotto le feste natalizie a un altro segretario dello suo stesso sindacato, e intercettato dagli inquirenti, il sindacalista finito in manetta scriveva infatti: «… a Babbo Natale ho chiesto … 4000 disoccupazioni e un gatto…!». Le indagini hanno inoltre permesso di accertare che alcuni dei migranti provenivano anche dai Centri di accoglienza straordinaria della zona ed erano in attesa del riconoscimento della protezione internazionale. Numerosi i reati contestati alle persone arrestate: si va dall’associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento del lavoro, all’estorsione, all’autoriciclaggio, alla corruzione, ai reati tributari.Gli inquirenti hanno infine sequestrato36 tra furgoni e camion, cinque abitazioni, tre depositi, tre appezzamenti di terreno, nove autovetture, una società cooperativa, quattro quote societarie e numerosi conti bancari, per un valore complessivo di 4 milioni di euro.
«Questa vicenda dimostra, ancora una volta, che finché i migranti vivranno condizioni di privazione di diritti e di ricattabilità saranno sempre vittime del malaffare», ha commentato il segretario confederale della Cgil Giuseppe Massafra. «Per uscire da questa morsa è necessario avere la consapevolezza dell’importanza che i lavoratori immigrati rappresentano per l’economia del Paese, e vanno riconosciuti loro tutti i diritti, a partire da quelli del lavoro». Il sindacato Usb ha invece ricordato al ministro del lavoro Luigi Di Maio l’impegno assunto « per un intervento articolato su tutta la filiera agricola e della necessità di rafforzare i centri per l’impiego, unici strumenti reali ed efficaci contro il sistema marcio dell’intermediazione agricola».
il manifesto 18.1.19
Un sussidio moralistico e poliziesco
Ma quale reddito. Se la partita del reddito di cittadinanza intendeva giocarsi, guardando al futuro, con i padroni dei robot e la rendita finanziaria, il reddito dei 5 stelle guarda al passato, coltivando un’idea di occupazione e disoccupazione completamente superata e degradante
di Marco Bascetta
È bene che disoccupati, sottoccupati, precari, giovani impegnati nelle più diverse attività non contemplate dal mercato del lavoro, poveri assoluti e relativi di ogni provenienza se ne rendano fin da subito conto.
In Italia non sarà introdotto alcun reddito di cittadinanza, ma un sussidio temporaneo, da spartire con le aziende, tra i più condizionati e punitivi d’Occidente.
Il penoso dibattito e la schermaglia tra le forze politiche che da mesi e mesi occupano quotidianamente la scena pubblica evidenzia soprattutto che i nostri riformatori ritengono di avere a che fare con un popolo di truffatori e di fannulloni.
Non si spiegherebbe altrimenti l’enorme sproporzione tra le energie spese nel prevenire gli abusi e quelle impiegate nel rendere disponibile l’uso di questo ammortizzatore sociale.
L’impianto pedagogico – poliziesco del sussidio targato 5 stelle ripartisce infatti la popolazione «inoccupata» in due categorie.
La prima comprende degli sprovveduti esclusi senza colpa o mai entrati nel mercato del lavoro, bisognosi di essere condotti per mano da un piccolo esercito di burocrati a rendersi appetibili per le aziende (ovverosia docili ed economici).
Alla seconda appartengono gli scansafatiche, stravaccati con soddisfazione sul mitico divano, da dare in pasto alla guardia di finanza e alla galera. L’una e l’altra figura non sono che proiezioni ideologiche senza relazione alcuna con la realtà, almeno con quella statisticamente rilevante. Al mercato il diritto di stabilire condizioni, valore, durata e riconoscimento del lavoro, alla burocrazia statale quello di definire l’«utilità sociale» dei compiti assegnati e la moralità degli assistiti.
Il sussidio previsto nel «contratto» di governo risponde a una logica diametralmente opposta a quella che sottende il reddito di base come è stato pensato e argomentato, sia pure in forme e proporzioni diverse, da tutti i suoi sostenitori: in un mondo in cui l’intermittenza del lavoro umano e la sua diminuzione quantitativa espongono gli esclusi a una permanente condizione di ricatto, il reddito di base avrebbe dovuto permettere di difendersene e di esercitare una qualche libertà di scelta.
Nella versione pentastellata, invece, la ricattabilità è gestita direttamente dallo stato e la libertà di scelta completamente cancellata all’interno di un dispositivo di controllo e disciplinamento della povertà che di precisazione in precisazione si fa sempre più punitivo.
Se la partita del reddito di cittadinanza intendeva giocarsi, guardando al futuro, con i padroni dei robot e la rendita finanziaria, il reddito dei 5 stelle guarda al passato, coltivando un’idea di occupazione e disoccupazione completamente superata e degradante.
In Germania dove il governo della disoccupazione di lungo corso è da anni affidato al sistema di sussidi e controlli denominato Hartz IV, i socialdemocratici che lo hanno inventato (ai tempi del Cancelliere Schroeder) e difeso, hanno avuto tempo di pentirsi, dopo averne pesantemente pagato il costo politico, degli aspetti umilianti e vessatori che ne hanno fatto un vero e proprio stigma sociale.
E oggi, per la prima volta, nonostante l’economia tedesca non volga al sereno, le domande di sussidio diminuiscono. Mentre la corte costituzionale di Karlsruhe sta esaminando la liceità delle sanzioni previste per chi non rispettasse gli obblighi imposti ai beneficiari. Quel sistema, converrà comunque sottolinearlo, è assai meno coercitivo e moralistico del cosiddetto reddito di cittadinanza escogitato dal vertice pentastellato in Italia.
Tuttavia molti sostenitori del reddito di base, pur consapevoli del fatto che il sussidio denominato Rdc si trova agli antipodi dell’obiettivo che si proponevano, aggiungono che in ogni caso «è meglio di niente». Ed effettivamente se tanti lo richiedono vuol dire che il disagio sociale e l’esclusione hanno ormai raggiunto un livello tale da aggrapparsi a qualunque appiglio. Meglio suddito che indigente, meglio umiliato che affamato. C’è poco da eccepire.
Ma a patto di continuare a battersi contro l’impianto disciplinare di questo provvedimento, di denunciarne la natura poliziesca e ricattatoria, di sgomberare il campo dalle finzioni, di difendere con ogni mezzo i diritti calpestati e quella libera produzione sociale di ricchezza che alcuni vogliono accaparrarsi ma nessuno intende riconoscere.
Insomma, la battaglia per il reddito universale è ancora tutta da combattere.
il manifesto 18.1.19
M5S cambia la riforma, il Pd ora può votarla
Riforma costituzionale. La relatrice alla camera accoglie tutte le osservazioni critiche sul referendum propositivo. Introdotto un controllo preventivo di costituzionalità e scompare il ballottaggio tra parlamento e popolo
di Andrea Fabozzi
Per la prima volta si ribalta il copione della legislatura. Sulla riforma costituzionale sono i 5 Stelle a dimostrare capacità di movimento e a mettere in difficoltà il Pd. La difficoltà di trovarsi, adesso, di fronte a un testo sul referendum propositivo dove sono stati corretti quasi tutti gli aspetti critici e che è venuto incontro alle richieste delle opposizioni (non solo Pd ma anche Leu e +Europa). Adesso il Pd dovrebbe votarlo, in questo caso non ci sarebbe nemmeno il referendum confermativo al termine delle quattro letture parlamentari. Ma così facendo andrebbe in crisi il tema stesso della legislatura, l’opposizione dura al governo giallobruno. Proprio sulla riforma costituzionale bandiera dei grillini. Da qui l’imbarazzo del partito, ieri un’assemblea dei deputati si attestata sulla linea del «bene, ma ancora non basta». C’è tempo fino a martedì, quando cominceranno le prime votazioni e bisognerà uscire allo scoperto. Nel gruppo parlamentare sono al lavoro i sostenitori della collaborazione, tecnica che fino a qui ha pagato. Merito anche di una relatrice, la 5 Stelle Dadone, capace di convincere i suoi a non percorrere la strada della riforma a colpi di maggioranza (fatale per Renzi) e dei consiglieri del ministro Fraccaro.
Le novità rispetto al testo originario sono tante, è quasi un’altra riforma dopo che era già stata accolta in commissione l’introduzione di un quorum di favorevoli (almeno il 25% del corpo elettorale, valido d’ora in poi anche per il vecchio referendum abrogativo). Con gli emendamenti presentati ieri da Dadone salta il ballottaggio tra le due proposte di legge, quella di iniziativa popolare e quella eventualmente approvata dal parlamento. Adesso se le camere approveranno un testo sullo stesso oggetto, il referendum si terrà solo sul testo sul quale erano state raccolte le 500mila firme dei cittadini. Se il referendum non passa sarà promulgata la legge approvata dalle camere, un risultato comunque apprezzabile per i promotori. La sostanza cambia poco, salta però quella sfida all’ultima scheda tra il parlamento e il «popolo» che faceva temere ulteriori fiammate di anti parlamentarismo. «La nostra idea non era mettere in contrapposizione il parlamento e le istanze dei cittadini, ma cercare soluzioni che abbiano il consenso popolare», ha spiegato la relatrice.
Non solo, adesso è previsto che se le modifiche introdotte dalle camere saranno «meramente formali» non si procederà comunque al referendum; la legge di attuazione (che introdurrà anche un numero massimo di referendum propositivi) affiderà questo controllo all’ufficio centrale per il referendum della Cassazione. Che già lo svolge con pochi scrupoli per il referendum abrogativo, ad esempio ha bloccato il voto per l’abolizione dei voucher dopo un decreto Gentiloni.
Dal punto di vista politico le novità si giustificano con la consapevolezza dei 5 Stelle che avere contro sulla riforma costituzionale tutta l’opposizione (Forza Italia resta contraria e strilla contro il collateralismo del Pd) sarebbe stato un pessimo biglietto da visita. E avrebbe significato settimane di battaglia ostruzionistica e tempi lunghi. Così invece c’è la possibilità di incassare due letture prima delle europee. Dal punto di vista pratico l’originale doppio e triplo voto previsto prima nel ballottaggio referendario tra proposte di legge alternative avrebbe comportato enormi problemi di attuazione ed era in ogni caso da correggere.
La seconda grande novità riguarda i limiti di ammissibilità della proposta di legge di iniziativa popolare: adesso il testo che si vuole portare a referendum propositivo deve rispettare «la Costituzione» nella sua interezza. Confermati gli altri limiti già previsti: non sono ammessi referendum propositivi sulle leggi di spesa se non è prevista la copertura e sulle leggi a iniziativa riservata (bilancio) e che richiedono maggioranza speciali. Sull’ammissibilità deciderà la Corte costituzionale quando saranno state raccolte almeno 200mila firme (novità positiva finalmente estesa al referendum abrogativo, eviterà ai comitati promotori di raccogliere firme inutili). «Di fatto è un controllo di costituzionalità preventivo», si rallegra il deputato di +Europa Magi, «i passi in avanti onorano il dibattito parlamentare». Il Pd che chiedeva di escludere le leggi di spesa e le leggi penali è parzialmente soddisfatto. «Le leggi di spesa subiscono adesso tutti i limiti dell’articolo 81 della Costituzione, le leggi penali i vincoli derivanti da varie norme costituzionali e più in generale dal principio di ragionevolezza», spiega il deputato dem Ceccanti. E anche il capogruppo del Pd Delrio riconosce: «Salutiamo una novità nel rapporto tra maggioranza e opposizione. Se accolgono tutte le nostre proposte voteremo convintamente a favore». Può succedere davvero.
il manifesto 18.1.19
Democrazia rappresentativa malata, difenderla così com’è non ha senso
di Massimo Villone
La riforma dell’articolo 71 della Costituzione introduce un’iniziativa popolare rafforzata, legata a un referendum eventuale, nel caso di inerzia delle camere o di approvazione di un testo diverso. In campo le tifoserie della democrazia rappresentativa e di quella diretta.
Sappiamo della diffidenza dei costituenti verso la democrazia diretta. Ma quello era il tempo di assemblee elette con il proporzionale e popolate da forti e radicati partiti di massa. Ciò non è più. In molti paesi, inclusi quelli che ne hanno fatto la storia, la salute della democrazia rappresentativa è precaria. È un paradosso volerla curare chiudendo la porta al popolo sovrano. Se i rappresentanti non parlano o balbettano, che tacciano anche i rappresentati.
Nella nostra esperienza recente, la democrazia rappresentativa ha prodotto la truffa dei voucher e la cancellazione dell’articolo 18. Ha reso irrilevante il milione e passa di firme che la Cgil ha raccolto sulla carta dei diritti del lavoro. Ha disatteso completamente il referendum sull’acqua pubblica, pure stravinto. È probabile che la disponibilità di uno strumento quale quello che si sta discutendo avrebbe prodotto o favorito – o potrebbe domani favorire – un risultato diverso, quanto meno per il timore del ceto politico parlamentare di un voto popolare di condanna senza appello.
Rispetto al referendum propositivo, fa più danno alla democrazia rappresentativa una cattiva legge elettorale che per il totem della governabilità toglie voce a pezzi del paese e distorce la rappresentatività, e imbottisce le assemblee di peones asserviti al capo. Fa più danno lo sfascio dei partiti che ne erano la vera forza. Ancor peggio, poi, i kit informativi di Casaleggio-Casalino.
La proposta presentava difetti, esposti – anche da me – nelle audizioni svolte in commissione, ora in parte corretti. La mancanza del quorum strutturale è stata superata, prevedendo il voto favorevole del 25% degli aventi diritto. Con gli ultimi emendamenti della relatrice un voto sulla sola proposta dei promotori si sostituisce al barocco meccanismo del ballottaggio tra testi. Con la legge di attuazione sarà possibile evitare il referendum nel caso di modifiche puramente formali. Sono novità da valutare positivamente. Forse si poteva andare oltre.
Due domande: ha senso che l’iniziativa legislativa sostenuta da mezzo milione di elettori incontri più limiti di quella sostenuta da 50mila, o di quella dell’ultimo dei parlamentari? Ha senso che una legge votata da quasi 13 milioni di elettori sia gravata da limiti maggiori di quelli applicabili a qualunque legge approvata dal parlamento? Chi ha paura del lupo cattivo?
Forse, sarebbe meglio assimilare il più possibile l’iniziativa popolare rafforzata a ogni altra iniziativa, e la legge eventualmente approvata a ogni altra legge. Magari con la applicazione dei soli limiti testualmente desumibili dall’articolo 75 per il referendum abrogativo. La Corte costituzionale potrebbe essere chiamata a svolgere un controllo generale di legittimità, su ricorso diretto del governo o di un quorum di parlamentari, dopo l’eventuale approvazione con voto popolare, con sospensiva della promulgazione e dell’entrata in vigore fino alla sentenza.
Per qualche verso, la proposta in campo è un’occasione perduta. Ad esempio, un’iniziativa popolare rafforzata poteva essere la via per temperare i rischi all’unità del paese che vengono dalla smodata fame di maggiore autonomia del governatore Zaia. Se tutti gli italiani salvo i veneti volessero correggere squilibri inaccettabili, non potrebbero farlo con questo nuovo strumento. È comparso nel testo per l’aula un divieto esplicito che non c’era nella proposta originaria. Una manina leghista?
Negli ultimi giorni si è aperto un dibattito sulle élites. In rete circola un manifesto, firmato da Piketty e altri, che vede uno snodo centrale di crisi nelle crescenti diseguaglianze non tra paesi, ma all’interno dei paesi. Sembra proprio il nostro caso. Pensiamo di poter affrontare il problema con la democrazia rappresentativa che abbiamo, e che lo ha generato? Dove sono le truppe per una inversione di rotta?
Nel buon tempo antico la democrazia rappresentativa era tutto quel che serviva. Ma il passato non ritorna. Di linfa nuova c’è bisogno, e non viene certo da una esangue battaglia di ceto politico.
Il Fatto 18.1.19
Quel moderato buonsenso che servirebbe ai 5 Stelle
di Antonio Padellaro
Sere fa, al termine della puntata di Otto e mezzo (post cattura di Cesare Battisti), nella quale Alfonso Bonafede si era mostrato misurato e istituzionale, come si deve al ministro di Giustizia, con lui abbiamo condiviso la stessa idea sullo stile comunicativo dei Cinquestelle. Che, più si fosse distinto da quello di Matteo Salvini e più ne avrebbe guadagnato, in termini di serietà e forse anche di consenso.
Il giorno dopo, purtroppo, il triste e deprimente video del Guardasigilli, “celebrativo” dello sbarco a Ciampino dell’ex latitante pluriomicida ci ha convinti una volta di più che, in assenza di un’opposizione, i peggiori nemici dei grillini di show e di governo sono i grillini medesimi. Specialisti nell’arte di spararsi sui piedi. Non soltanto per le reazioni indignate che lo spot ha sollevato ma per una banale ragione di propaganda elettorale. Ovvero: come vendere male un pessimo prodotto al pubblico sbagliato. Un rapido passo indietro. Tutte le analisi sulla composizione e natura del grande successo del 4 marzo concordano sull’avvenuta saldatura nel M5S di due blocchi distinti. Al centro, il cuore “militante” del consenso, quello generato nell’alveo social del movimento poi consolidatosi attraverso i Vaffa day nelle battaglie contro la casta e a favore della legalità e i beni comuni. Intanto, intorno a questo nucleo cresceva la massa dei nuovi arrivati, provenienti da ogni dove ma soprattutto dal Pd. Coloro che potremmo definire con antica terminologia: il voto d’opinione. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che non hanno mai frequentato la piattaforma Rousseau, che hanno apprezzato l’esplosività di Beppe Grillo nel mettere alla berlina l’ancien régime anche se non capiscono granché di certe sue “elevate” elucubrazioni. Gente che si era stufata delle solite facce e dell’arroganza della cosiddetta vecchia politica, incuriositi dall’irrompere della generazione pentastellata, e dalla sfacciata trasparenza con la quale i nuovi si mostravano al popolo, perfino nell’esibire acerbe inesperienze. Ora, quando Bonafede divulga quei video, quando Di Maio annuncia la fine della povertà o che, in piena stagnazione, siamo alla vigilia di un altro boom digitale, oppure quando on the road verso Strasburgo, con Di Battista accanto, il vicepremier definisce il Parlamento europeo “una marchetta francese che dobbiamo chiudere il prima possibile”, più di una domande sorge spontanea. Quel linguaggio così crudo, minaccioso (a volte truculento) a chi è rivolto? Chi intendono convincere? Il popolo dei Vaffa day? Non avrebbe molto senso visto che la base grillina è già ampiamente motivata di suo per abboccare a forme discutibili di autopropaganda. E se anche fosse un tentativo di corteggiare gli elettori di Matteo Salvini, chi mai preferirebbe la (brutta) copia all’originale? Restano quegli svariati milioni di elettori approdati al M5S da lontano, forse non molto politicizzati ma che al posto dei megafoni stentorei gradirebbero un messaggio di concretezza, di moderato buon senso, di stabilità. Tanto per capirci, il linguaggio che sta dando popolarità al premier Giuseppe Conte.
In questa ancora vasta “opinione”, ci creda ministro Bonafede, i filmini Luce creano soprattutto imbarazzo. Così come la comunicazione mirabolante o sotto vuoto spinto. Bisognerebbe convincersi una buona volta che gli elettori con l’anello al naso non esistono. Mentre se si sentono presi per il naso magari da lezioncine prefabbricate recitate a menadito da giovani promesse del cambiamento (c’è anche un kit 5S per indottrinare i parlamentari), prima o poi quelli salutano e se ne vanno.
Repubblica 18.1.19
Il debito pubblico
La nostalgia del 1789
di Thomas Piketty
Thomas Piketty, economista francese, studia la disuguaglianza e la distribuzione della ricchezza. Tra i suoi libri “Il capitale nel XXI secolo” (Bompiani, 2014) e “Capitale e disuguaglianza.
Cronache dal mondo” (Bompiani, 2017)
Con i gilet gialli, abbiamo visto sbocciare l’idea di un referendum sull’annullamento del debito pubblico. Per alcuni, discorsi di questo tipo, già sentiti in Italia, sono la dimostrazione dell’estensione del pericolo «populista»: come si può immaginare di non rimborsare un debito? In realtà la storia mostra che è abituale far ricorso a soluzioni eccezionali quando il debito raggiunge livelli simili. Tuttavia, un referendum non consente di regolare un problema tanto complesso. Esistono tanti modi per annullare un debito, con effetti sociali molto diversi. Fornirò qui due serie di informazioni, prima di tutto sulle regole europee attuali e poi sul modo in cui debiti di questa entità sono stati trattati nella storia.
Cominciamo dalle regole europee, che suscitano confusione. Molti continuano a citare la « regola del 3 per cento » e non capiscono perché l’Italia, che aveva prefigurato un disavanzo del 2,5% del Pil prima di scendere a patti e attestarsi sul 2%, si ritrovi messa all’indice. La spiegazione è che il trattato di Maastricht (1992) è stato emendato dal nuovo trattato di bilancio adottato nel 2012, il fiscal compact. Il trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria (questo il suo nome completo) prevede ormai che il disavanzo non debba superare lo 0,5% del Pil (articolo 3), fatta eccezione, tuttavia, per quei Paesi dove il debito è «significativamente inferiore al 60%» del Pil, che sono autorizzati a far crescere il disavanzo fino all’1 per cento. Salvo «circostanze eccezionali», il mancato rispetto di queste regole comporta automaticamente penali. Precisiamo che il disavanzo di cui si parla in questi testi è sempre il disavanzo secondario, vale a dire dopo il pagamento degli interessi sul debito. Se un Paese ha un debito pari al 100% del Pil, e il tasso di interesse è del 4%, allora gli interessi saranno del 4% del Pil. Per realizzare un disavanzo secondario limitato allo 0,5% bisognerà avere dunque un’eccedenza primaria del 3,5% del Pil. Detta in altri termini, i contribuenti dovranno pagare tasse più alte delle spese di cui beneficiano, con uno scarto del 3,5% del Pil, forse per decenni. L’approccio del trattato non è illogico: se si parte dal principio che non si vuole procedere a un annullamento del debito, se l’inflazione è quasi a zero e la crescita è limitata, allora solo eccedenze primarie enormi possono ridurre debiti dell’ordine del 100% del Pil. Però bisogna misurare le conseguenze sociali e politiche di una scelta del genere. Anche se tenuti giù da tassi insolitamente bassi, gli interessi attualmente sono del 2% del Pil nella zona euro: ossia più di 200 miliardi di euro l’anno, da confrontare, per esempio, con i miseri 2 miliardi l’anno destinati al programma Erasmus. È una scelta possibile, ma siamo sicuri che sia la migliore per preparare il futuro?
Quel che è certo è che la storia dimostra che esistono altri modi di procedere. Viene citato spesso l’esempio dei grandi debiti del XX secolo. La Germania, la Francia e il Regno Unito si ritrovarono con un debito pubblico fra il 200 e il 300% del Pil nel Dopoguerra, che non fu mai rimborsato. Venne eliminato nel giro di qualche anno con una combinazione di annullamenti puri e semplici, inflazione e prelievi una tantum sui patrimoni privati. La comparazione più pertinente è quella che riguarda la Rivoluzione francese del 1789. Incapace di far pagare le tasse ai suoi privilegiati, l’ancien régime aveva accumulato un debito pari a circa un anno di reddito nazionale, addirittura un anno e mezzo se si includevano le vendite di cariche e funzioni (che erano un modo, per lo Stato, di ottenere denaro subito in cambio di redditi futuri prelevati dalla popolazione). Nel 1790 l’Assemblea ottenne la pubblicazione nominativa del Gran libro delle pensioni, che conteneva sia rendite a cortigiani che pagamenti a ex dignitari, con versamenti dieci o venti volte più alti del reddito medio, che fecero scandalo ( il confronto con il salario della presidente della Commissione nazionale del dibattito pubblico, che fa polemica in questi giorni in Francia, salta agli occhi). Tutto si concluse con l’introduzione di una fiscalità un po’ più equa, e soprattutto con la «bancarotta dei due terzi» e la grande inflazione degli assegnati (la cartamoneta emessa dal Governo rivoluzionario). Al confronto, la situazione attuale è più complessa (ogni Paese detiene una parte del debito degli altri) e al tempo stesso più semplice: disponiamo, con la Bce, di un’istituzione che consente di congelare i debiti e si potrebbe adottare una fiscalità europea più equa istituendo finalmente un’Assemblea sovrana. Ma se continuiamo a spiegare che è impossibile far pagare gli europei più ricchi, e che solo le classi immobili devono pagare, allora ci esponiamo inevitabilmente a un futuro di rivolte gravi.
Traduzione di Fabio Galimberti
Il Fatto 18.1.19
Relazione sulla 194. La Grillo è in ritardo di undici mesi
di Natascia Ronchetti
Siamo fermi al 2016 Ciò che sappiamo sull’applicazione della legge 194 risale a più di due anni fa: all’ultima relazione presentata al Parlamento, il 22 dicembre 2017, dall’allora ministro Beatrice Lorenzin (con un ritardo di 10 mesi rispetto a quanto previsto dalla legge stessa). Un ritardo che ha riguardato tutti i ministri che si sono succeduti dal 2000 in poi, ma che adesso, ha rilevato Emma Bonino con una interrogazione parlamentare urgente al ministro della Salute Giulia Grillo, ha raggiunto il record di 11 mesi. “C’è il vuoto – dice Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni – e questo impedisce di capire come prevenire e intervenire per la mancata applicazione della legge”. Lo staff della Grillo rassicura: la relazione sarà depositata a breve. E dice che il ritardo è dovuto alle scarse pressioni fatte a suo tempo dalla Lorenzin sulle Regioni, a loro volta costrette a fare i conti con la disorganizzazione dei consultori nella raccolta dei dati. Proprio questi ultimi rappresentano una criticità: ce ne dovrebbe essere uno ogni 20mila abitanti, ma sono 0,6. L’ultima relazione ha confermato una diminuzione degli aborti e l’alto numero di medici obiettori (7 su 10).
La Stampa 18.1.19
Il sistema sanitario
La ricetta di una nuova equita’
di Linda laura Sabbadini
Il nostro sistema sanitario ha da poco compiuto 40 anni e ce lo dobbiamo tenere stretto. Sì, perché in termini di risultati, abbiamo valori indiscussi di alto livello, con una speranza di vita tra le più elevate al mondo.
è un sistema universalistico il nostro e, in quanto tale, rappresenta una risorsa preziosa per i cittadini, perché promuove l’equità.
Ma attenzione, ciò non può semplicemente rimanere sulla carta, sulla sanità dobbiamo investire, non possiamo permetterci di disinvestire, perché anche nella sanità si rispecchiano le disuguaglianze del Paese e anche se minori rispetto agli altri Paesi europei non vanno assolutamente sottovalutate.
Le persone delle classi sociali più alte stanno meglio delle altre, e vivono più a lungo. Gli uomini con al massimo la licenza media inferiore presentano secondo l’Istat 3 anni di svantaggio di speranza di vita rispetto a quelli con la laurea. Tra le donne le disuguaglianze sono meno pronunciate (1,5 anni) ma emergono comunque. La forte carenza di risorse e competenze agisce in negativo sulla salute, indipendentemente dalla zona del Paese.
Ma a ciò va aggiunto che il Sud e le Isole presentano comunque una speranza di vita più sfavorevole in tutte le fasce di istruzione, esiste cioè anche una differenza territoriale che incide di per sé. La Campania si caratterizza per una forte diseguaglianza nella mortalità per titolo di studio e al contempo per i valori più bassi d’Italia nelle speranze di vita per tutti i livelli di istruzione, con 2,5 anni in meno di speranza di vita rispetto a molte regioni del Nord .
Un interessante studio sulle disuguaglianze sociali è stato condotto su Torino dall’epidemiologo Giuseppe Costa particolarmente attento a queste tematiche: ebbene un uomo che attraversa la città, dalla collina alto borghese, dove si concentrano le persone con più alto reddito alla barriera operaia nel Nord-Ovest dove vivono quelle a più basso reddito vede ridursi la speranza di vita di 6 mesi per ogni chilometro percorso. Più di 4 anni di speranza di vita separano i benestanti della collina dagli abitanti più poveri del quartiere Vallette.
Le evidenze statistiche sono forti, vanno abbattute le barriere all’equità nella salute. Se le differenze sono socialmente determinate, ciò vuol dire che si può agire per modificarle e soprattutto per evitarle. E per farlo servono politiche sanitarie e non sanitarie.
Le politiche di inclusione sociale sono certamente fondamentali, la riduzione della povertà porta ad un miglioramento anche dell’equità nella salute. Ma non sono sufficienti. Bisogna dotarsi di un nuovo approccio strategico in sanità.
Una riflessione va fatta sul finanziamento del nostro sistema sanitario e sulla crescita della spesa sanitaria a carico dei cittadini, accanto alla diminuzione di quella pubblica. Il disagio nelle spese sanitarie raggiunge il 12% dei cittadini in alcune regioni meridionali.
Dobbiamo reinvertire la rotta e ricordarci che il diritto alla salute è un diritto costituzionale. Prolungare una situazione di scarso finanziamento del sistema pubblico non può che portare all’incremento delle disuguaglianze in sanità. Abbiamo un sistema sanitario che ha dato grandi esiti in tutto il Paese anche grazie a molte eccellenze nel personale sanitario. Ma non si può più continuare senza un forte ricambio generazionale ben transitato, e una forte spinta all’innovazione. Dobbiamo reinvestirci. La povertà di risorse per il settore pubblico danneggerà tutti, ma soprattutto i poveri e ci renderà più disuguali.
La Stampa 18.1.19
La salute è un lusso per molti
C’è chi s’impoverisce per curarsi
di Paolo Russo
Di fronte alla salute gli italiani sono sempre più poveri e diseguali. Sono oltre un milione le famiglie in difficoltà economiche per le spese sanitarie. Mentre l’aspettativa di vita in salute al Sud e tra i redditi bassi è sempre più distante da quella di chi vive al Nord o che se la passa meglio. Effetto di una politica di definanziamento della sanità pubblica che ci accomuna più ai Paesi dell’Est Europa che al blocco di quelli occidentali. Anche se per qualità delle cure restiamo ai vertici europei.
A tastare il posto del sistema sanitario italiano è il 13° Rapporto del Crea sanità, l’istituto di ricerca dell’Università Tor Vergata di Roma. Dal 2009 a oggi la spesa pubblica per la sanità è scivolata progressivamente verso Est. Spendiamo il 31,3% in meno di quanto non facciano i Paesi del blocco occidentale. Una forbice che è raddoppiata dal 2000, perché se da noi il finanziamento pubblico ha marciato a un passo di lumaca inferiore all’1% di incremento annuo, tra le nazioni fondatrici dell’Ue il passo è stato del 3,6% l’anno. E così è continuata a lievitare la spesa privata, arrivata a lambire oramai i 40 miliardi di euro. Tutto questo con conseguenze spesso drammatiche per i bilanci familiari e sul piano delle diseguaglianze, sociali e territoriali.
In tutto, tra chi ha avuto difficoltà economiche e chi è addirittura scivolato al di sotto della soglia di povertà per aggirare liste di attesa e superticket, il problema dei costi sanitari è stato accusato da quasi un milione e centomila famiglie.
La quota di queste che ha avuto problemi economici, senza però dover dichiarare bancarotta, è circa il 6%. Ma se in Piemonte sono meno del 3% e in Trentino Alto Adige appena sopra al 2%, in Calabria ad aver avuto problemi sono oltre il 12% delle famiglie, in Sicilia il 10% e in Sardegna il 9%. Il Sud è più in difficoltà, ma problemi ne hanno avuti anche in Umbria, con poco meno del 10% e in Liguria con oltre il 7% di famiglie costrette a subire disagi economici. Stesso discorso vale per chi è addirittura scivolato al di sotto della soglia di povertà per curarsi attingendo alle proprie tasche, fenomeno che riguarda oltre 350 mila nuclei familiari. Un dramma che impatta solo sullo 0,5% delle famiglie piemontesi e nell’ancor più insignificante quota di nuclei lombardi. Mentre basta scendere lungo lo stivale per trovare il 4% e più della Basilicata o il 3,6% della Calabria.
Ci si impoverisce o, in alternativa, si rinuncia alle cure. Circa il 17% delle famiglie, poco meno di 4 milioni e mezzo, ha cercato di risparmiare rinviando a tempi migliori una visita o un accertamento. Ma in questi numeri ci sono anche oltre un milione e centomila nuclei che hanno annullato qualsiasi appuntamento sanitario.
Gli effetti di questo disagio economico e delle diseguaglianze si riflettono poi sullo stato di salute degli italiani, cha varia in rapporto a dove si risiede. Così, svela il rapporto, nel Sud a 65 anni di età si hanno davanti a sè tre anni di vita in meno che nel resto d’Italia. E se al Nord in media si può sperare di vivere in buona salute fino a 60 anni, nel meridione l’aspettativa scende a 55 anni, toccando il minimo di 52 in Calabria. Altri dati dell’Osservatorio italiano della salute rilevano del resto che al Sud l’aspettativa di vita è tornata ai livelli del dopoguerra, con Campania e Sicilia su valori uguali a Bulgaria e Romania, mentre nelle Marche e a Trento si hanno davanti gli stessi anni di vita degli svedesi.
Aver stretto sempre più i cordoni della borsa quando si è trattato di investire sul nostro servizio sanitario nazionale ha generato però diseguaglianze anche sociali, perché se la coperta del pubblico si ritira non tutti possono rivolgersi al privato.
Uno studio condotto un anno fa da Istituto superiore di sanità, Aifa, Agenas e Istituto per il contrasto delle malattie nella povertà, ha evidenziato che con un reddito superiore alla media si cominciano ad accusare i primi acciacchi a 70 anni. Mentre chi ha bassi redditi inizia a stare meno bene tra i 60 e i 64 anni. Colpa anche dei super-ticket, gli italiani meno istruiti ricorrono meno spesso a visite specialistiche ed esami diagnostici.
Insomma di fronte alla malattia non siamo affatto tutti uguali. Eppure la nostra sanità pubblica con quelle poche risorse che ha riesce a fare bene. Anzi, a dirla tutta il servizio sanitario nazionale è ancora un’eccellenza europea. Pur con le marcate differenze territoriali e sociali, in fatto di aspettativa di vita siamo secondi solo alla Spagna. Per quella senza disabilità ci sopravanza solo la Svezia. Da noi a 65 anni si può sperare di vivere quasi altri 10 anni senza avere limitazioni nelle attività quotidiane.
Un dato che è tra i migliori in Europa. Per i tumori l’Italia ha una mortalità inferiore alla media europea e andiamo meglio anche in fatto di mortalità evitabile, mentre in caso di infarto i nostri tassi di sopravvivenza sono i migliori del mondo occidentale. Forse con queste performance varrebbe la pena tornare a investire nella nostra sanità pubblica, mettendo gli italiani sullo stesso piano quando si tratta di salute.
Corriere 18.1.19
Pensioni, l’allarme dei chirurghi
«In 1.500 diranno addio agli ospedali»
L’appello dei medici: va sbloccato il turn over. In piazza il sit in per il rinnovo del contratto
di Margherita De Bac
Roma Sono circa 1.500 sui 7.500 dipendenti del servizio pubblico sanitario i chirurghi che potrebbero decidere di uscire dagli ospedali approfittando del «quota 100». Significherebbe «la morte della professione oltreché la chiusura di diversi centri», vede nero Piero Marini, presidente dell’associazione Acoi che rappresenta gli specialisti del bisturi, capo dipartimento al San Camillo, il maggiore polo chirurgico romano.
L’intera categoria dei camici bianchi é in allarme per il presente e il futuro. Ieri medici, veterinari e dirigenti sanitari a nome di tutti i sindacati hanno di nuovo manifestato davanti al ministero della Pubblica amministrazione per chiedere il rinnovo del contratto di lavoro, bloccato da 10 anni, oltre a un piano di assunzioni necessarie «a garantire la sopravvivenza del sistema» e a riconquistare la dignità. Sui cartelli, descritta una situazione al collasso: «No ad orari di lavoro senza limite, milioni di giovani senza futuro, 15 ore di straordinari non pagate».
La giornata si é chiusa con la promessa di un emendamento al decreto sulle semplificazioni che permetterà di far ripartire il contratto. Per il 25 é intanto in calendario uno sciopero nazionale.
I chirurghi sono tra i professionisti più sofferenti. Marini basa la stima dei 1500 addii all’ospedale anche sulle testimonianze raccolte tra i colleghi: «Le do per certo che centinaia lasceranno se la scelta non sarà penalizzante ai fini dell’assegno pensionistico. Non se ne può più».
Marini chiede che il vuoto lasciato dall’esodo venga colmato dallo sblocco del turn over, con nuove assunzioni. Altrimenti si rischia di grosso. In due grossi ospedali della Calabria «due primari sono costretti a sostenere 15 ore di reperibilità notturna a settimana. Non si trova personale per la chirurgia d’urgenza».
La crisi é legata al problema dei contenziosi. Il rischio di incorrere in una denuncia da parte dei pazienti, spiega Marini, «é insostenibile, una ghigliottina sospesa sul collo. L’ 80% di noi hanno dichiarato di essere molto preoccupati quando entrano in sala operatoria e ammettono di interrompere l’intervento se si presentano imprevisti cui dover far fronte con manovre pericolose. Oppure di non operare affatto».
Il 95% dei procedimenti si risolvono con un nulla di fatto ma nel frattempo il chirurgo ha sostenuto il peso anche morale di una causa e di spese legali. Il fenomeno rende meno appetibile la specializzazione in chirurgia. Nell’ultimo concorso, su 16 mila neolaureati le richieste per ottenere una borsa di studio sono state appena 90 sulle 350 disponibili. Quelle non assegnate sono così andate perdute.
Il timore di finire sul banco degli imputati non é l’unico deterrente. Marini continua: «Si aggiunge l’insoddisfazione per i programmi formativi. Gli specializzandi all’interno delle scuole non vengono messi in condizione di operare il numero di ore necessarie per essere preparati. Quando terminano il corso nessuno di loro é in grado di entrare nel mondo del lavoro e di sentirsi sicuri nell’affrontare un intervento».
La Stampa 18.1.19
Il racket dei funerali
Anche infermieri tra i 27 arrestati
di Franco Giubilei
Le camere ardenti dei principali ospedali bolognesi, il Maggiore e il Policlinico Sant’Orsola Malpighi, erano cosa loro: due gruppi di agenzie si sono spartiti per anni il business dei servizi funebri, corrompendo gli infermieri perché portassero da loro i familiari dei defunti a prezzi variabili fra i 200 e i 350 euro per ogni funerale andato in porto. I carabinieri di Bologna hanno messo fine a questo mercato delle salme, un vero e proprio cartello organizzato in modo che i protagonisti non si pestassero i piedi negli affari, con un’operazione dai numeri imponenti: 27 persone agli arresti (9 in carcere e 18 ai domiciliari) fra dirigenti e personale delle pompe funebri e addetti dell’Asl, 3 divieti di esercizio d’impresa, 43 perquisizioni e il sequestro di beni per 13 milioni di euro.
L’inchiesta, coordinata dalla procura, ha smantellato un’associazione a delinquere finalizzata a corruzione e riciclaggio. Ai vertici delle due organizzazioni, secondo le accuse, due società e i rispettivi titolari, la Rip Service Srl di Giancarlo Armaroli e la Cif Srl di Massimo Benetti, entrambi arrestati. Per loro agivano amministratori e personale di varie agenzie di pompe funebri (sei le società messe sotto sequestro, ndr) che si aggiravano nelle camere mortuarie nonostante il divieto, pronti a materializzarsi quando alcuni dipendenti Asl segnalavano e indirizzavano loro i parenti delle persone decedute. Sette gli arresti fra questi ultimi, più altri denunciati, tutta gente per cui le aziende sanitarie hanno avviato la procedura di sospensione. Dalle intercettazioni emergono anche frasi odiose pronunciate dagli indagati: «Se dopo vent’anni che lavori nella sala mortuaria hai ancora da pagare il mutuo, vuol dire che non hai capito niente», dice un infermiere.
Le intercettazioni
Neanche i morti sono stati risparmiati: «Ho un filmato dove lui mette una buccia di banana in mano a un morto», racconta un intercettato, che si sente rispondere «Il morto, aspettando la barella, ha avuto fame». Davide Bultrini, un altro infermiere arrestato, descrive il quadro così: «Qui in questo ambiente non sei pulito tu, non sono pulito io, non è pulito nessuno, E quelli che fanno più casino sono i più sporchi». E poi naturalmente ci sono i soldi che facevano muovere tutto: sistematiche operazioni di riciclaggio con cui il denaro in nero, ottenuto con la mancata fatturazione di parte dei servizi funebri, veniva gestito in contabilità parallele per poi essere destinato anche alla corruzione del personale Asl. Centinaia di migliaia di euro provenienti da una cassa occulta e transitati su un conto corrente ad hoc.
Repubblica 18.1.19
L’inchiesta sugli scontri
Il professionista della violenza ultrà "Vado allo stadio solo per picchiare"
Arrestato Ciccarelli, capo dei Viking interisti. " Con Piovella tese l’agguato ai napoletani"
Sandro De Riccardis
MILANO Ha tatuate sulle braccia dodici foglie, tante quanti gli anni che ha trascorso dietro le sbarre, tra una condanna e l’altra per aggressioni da stadio, risse e pestaggi sfociati in accuse di tentato omicidio. Alla soglia dei cinquant’anni, Nino Ciccarelli si racconta come un « sopravvissuto » . Agli scontri di strada, alle inchieste e ai processi, agli anni dei Daspo, alle relazioni pericolose con uomini della curva e della criminalità. « Vado allo stadio per picchiare — ha raccontato di recente a una tv russa — . Devi essere pronto a tutto: pronto ad andare in galera, pronto allo scontro, a tirare le coltellate e a prenderle. E non devi scappare. Sono quello che ha pagato più di tutti».
Fondatore dei Viking della curva Nord dell’Inter nel 1984, a quindici anni, Ciccarelli ne ha trascorsi trentacinque in curva. E nonostante l’ennesimo Daspo, che avrebbe dovuto tenerlo lontano da stadi e tifoserie fino al 2021, Nino è in via Novara prima di Inter- Napoli, la sera di Santo Stefano. Regista insieme al capo dei Boys, il creatore delle coreografie della curva Marco Piovella, dell’agguato ai tifosi napoletani, durante i quali muore l’ultrà " Dede" Belardinelli. Per il gip Guido Salvini, che ieri ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare che l’ha riportato a San Vittore insieme a Alessandro Martinoli, ultrà varesino dei neonazisti di Blood Honor, Ciccarelli è soggetto di « particolare pericolosità » , capace di « condizionare facilmente altri tifosi», dato che è « conosciuto in tutto l’ambiente ultrà». Interrogato dalla Digos, dice però di essersi trovato nel cuore della rissa coi napoletani « per caso, dopo aver visto da lontano gli scontri e essersi unito ai suoi amici». Nelle telecamere di via Novara, Ciccarelli appare «claudicante». Ferito alla gamba destra, in faccia e sul naso, « appoggiato a un cestino dell’immondizia ». Ultima rappresentazione di una biografia di guerriglia e violenze, inaugurata in una delle giornate peggiori del calcio italiano, il 9 ottobre 1988, quando. alla fine di Ascoli-Inter, Nazzareno Filippini viene massacrato di botte e muore dopo otto giorni di coma. Ciccarelli è lì. Prosciolto per omicidio, viene condannato per rissa. «Nino non c’entra, mi dice sempre " meglio lo stadio della droga" » , lo difese allora sua madre, dopo che la Digos se lo venne a prendere tra i casermoni di Quarto Oggiaro, estrema periferia nord di Milano. Eppure in una storia di spaccio a San Siro, Ciccarelli viene coinvolto negli anni ’ 90 insieme a un altro volto storico della curva, Vittorio Boiocchi, poi finito in inchieste di criminalità organizzata. Entrambi assolti, ma Ciccarelli torna di nuovo in carcere nel febbraio del ‘ 90, quando è arrestato per il tentato omicidio di un pusher liberiano, che finisce in ospedale con un polmone perforato.
Coltellate date, coltellate prese. Se, venticinque anni fa, l’allora 26enne Ciccarelli viene bloccato vicino al Meazza mentre si lancia con un coltello in mano contro gli juventini, a fine ‘ 94 è lui a restare ferito davanti a una discoteca milanese. Quattro fendenti nella pancia, cicatrici di guerra che mostra con orgoglio: «Vado allo stadio per picchiare — dice in tv — . Se picchiamo l’altra tifoseria, abbiamo vinto la partita anche se l’Inter perde».
La Stampa 18.1.19
Putin in Serbia sfida la Nato
“Non vi lasceremo i Balcani”
Il leader del Cremlino dall’alleato Vucic: firmati accordi energetici e militari
di Giuseppe Agliastro
La Serbia punta all’ingresso nell’Unione Europea, ma intanto srotola il tappeto rosso ai piedi di Vladimir Putin. Il leader del Cremlino è stato accolto come un divo a Belgrado.
A fargli da ospite e allo stesso tempo da cerimoniere è stato il presidente serbo Aleksandar Vucic, che per il suo potente alleato ha preparato un bagno di folla con tanto di campane a festa e colpi di cannone. La visita di Putin in Serbia serve a rafforzare il già solido asse Mosca-Belgrado, ma rappresenta anche un avvertimento all’Occidente sulla questione del Kosovo e sull’espansione della Nato nei Balcani.
Russi e serbi hanno siglato 21 accordi di collaborazione che spaziano dal settore militare a quello energetico, ma hanno anche discusso delle trattative in corso per un compromesso tra Belgrado e Pristina che potrebbe portare a una revisione dei confini, e soprattutto hanno confermato la loro volontà di portare il gasdotto TurkStream fino in Serbia.
Mosca non digerisce l’ingresso del Montenegro nella Nato e i recenti passi della Macedonia per entrare sia nell’Ue sia nell’Alleanza Atlantica. Ecco perché, proprio alla vigilia della trasferta, Putin ha denunciato che gli Usa e «certi Paesi occidentali» stanno perseguendo una politica «destabilizzante» nei Balcani nel tentativo di «promuovere il proprio dominio sulla regione». Ma in realtà la Russia è a sua volta accusata di un tentativo di golpe in Montenegro nel 2016 e di appoggiare il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik per impedire l’integrazione euro-atlantica della Bosnia.
Belgrado invece corteggia Bruxelles, ma non è interessata a entrare nella Nato che vent’anni fa la bombardò, senza un mandato Onu, per indurre Milosevic a porre fine alla pulizia etnica della popolazione kosovara albanese.
Il nodo del Kosovo
La Serbia resta uno dei principali partner della Russia in Europa e l’unica alleata di Mosca nei Balcani. Non per niente l’aereo di Putin è atterrato a Belgrado scortato da quegli stessi Mig-29 che il Cremlino ha recentemente regalato alla Serbia. Putin qui è molto popolare: innanzitutto per il rifiuto della Russia di riconoscere l’indipendenza del Kosovo e poi perché Mosca, così come Pechino, ha finora opposto un muro invalicabile contro l’ingresso di Pristina nelle Nazioni Unite. Anche ieri Putin non ha risparmiato critiche al Kosovo e ha definito «provocatoria» la creazione di un esercito regolare a Pristina. Ma ha soprattutto puntato il dito contro l’Ue sostenendo che la sua mediazione in Kosovo non abbia ottenuto i risultati sperati e accusando Bruxelles di voler mettere Belgrado davanti a un bivio obbligandola a «una scelta artificiale» tra Russia e Occidente.
Gli investimenti
L’amicizia con la Russia può certo portare dei vantaggi a Belgrado. Putin si è detto pronto a investire 1,4 miliardi di dollari per estendere fino alla Serbia il possibile prolungamento europeo del gasdotto TurkStream che porta il metano russo in Turchia attraversando le acque del Mar Nero. Ma l’Ue resta per la Serbia un partner fondamentale: oltre il 70% degli investimenti stranieri nel Paese arriva infatti dall’Unione Europea e solo il 10% da Mosca.
La visita di Putin è utile a Vucic anche in politica interna. Il presidente serbo è stato insignito di un’importante onorificenza dal leader del Cremlino, a cui ha a sua volta donato un cucciolo di cane. Uno show che serve a strizzare l’occhio ai conservatori e ai nazionalisti. Ma anche a tentare di dare il benservito agli oppositori che da oltre un mese scendono in piazza a migliaia accusandolo di imbavagliare i media e di essere ogni giorno più autoritario.
La Stampa 18.1.19
Bagni di folla e ovazioni
Belgrado accoglie Vladimir come una rock star
di Stefano Giantin
Ogni Paese ha tante facce. E la Serbia non fa eccezione. Una è quella delle migliaia di «indignados» che da settimane scendono in piazza in manifestazioni anti-governative e contro il presidente Aleksandar Vucic, accusato di essere un autocrate. Ma ce n’è un’altra, contrapposta e dissonante. È quella dei tanti che hanno nel presidente russo Vladimir Putin – e in Vucic – i loro idoli.
Ed è stata la seconda Serbia a dominare la scena ieri, in occasione della visita a Belgrado del leader del Cremlino, accolto in città da eroe, tra mega-poster per il «caro amico» e sventolio di bandiere russe.
E soprattutto da un bagno di folla enorme, scenario inedito per la capitale di un Paese che ha fra le sue priorità l’ingresso nella Ue. Belgrado però non rinnega gli storici legami con l’amica Mosca, anzi li esalta. Lo ha dimostrato con le decine di migliaia di persone affluite nel cuore della metropoli, tra cui tanti sinceri filorussi, moltissima gente dalla provincia profonda - arrivata anche con autobus messi a disposizione dal Partito progressista di Vucic, hanno segnalato vari media locali - per poi marciare verso la cattedrale di San Sava, dov’erano attesi Putin, Vucic e il patriarca Irinej. Alla fine, secondo stime della polizia, in piazza erano 120 mila.
Tra di loro, la belgradese Marija Ilic. «Sono qui perché la Russia difende gli interessi serbi contro le mosse aggressive e secessionistiche» del Kosovo, racconta, riassumendo una delle ragioni principali che rendono filorussi tanti serbi. Le fa eco l’anziano Djuro, originario della Krajina, che assicura che «noi non possiamo essere amici di chi ci ha bombardato, Usa e Nato, ma di Putin sì che possiamo». Ma ci sono anche coloro che ammettono di essere scesi in strada «per entrambi». «Vucic l’ho votato e lo sostengo ancora», confida una donna, originaria di Zrenjanin.
In bilico tra Mosca e Ue
C’è però anche chi ha visto nel meeting pro-Putin una «glorificazione del regime autoritario» di Mosca, hanno denunciato varie Ong. E tanti critici del governo hanno sollevato sospetti sulla «volontarietà» della partecipazione al raduno, suggerendo l’ipotesi di una sorta di contro-manifestazione organizzata con il duplice strumento della persuasione e dell’imposizione. Obiettivo, dimostrare che Mosca rimane fondamentale per Belgrado. E che Vucic gode ancora di un fortissimo sostegno, malgrado le proteste. «Neppure un bambino crederebbe che qualche Ong» - come l’oscuro Centro per lo sviluppo di Belgrado, ufficialmente organizzatore del raduno di ieri - «abbia i mezzi per portare così tanti bus in città», ha suggerito alla Tv N1 l’intellettuale Srbijanka Turajlic, un’opinione rigettata dall’esecutivo. Concorda il politologo Dejan Vuk Stankovic. «Penso sia solo una manifestazione per Putin» e per celebrare «le relazioni tra Serbia e Russia», storicamente Paesi affini. Anche se negli ultimi 15 anni a pompare 3,6 miliardi euro in Serbia è stata l’Ue, non Mosca. Ma i soldi non sono bastati a «comprare» i favori di molti e Belgrado rimane l’ultimo baluardo fedele al Cremlino nei Balcani. Visita che è importante anche per Vucic, osserva il politologo Florian Bieber. Che potrà «giocare la carta filorussa in patria e avere un argomento credibile» con Bruxelles. E cioè «che sta mediando tra Russia e Ue», un bilanciamento tra Est e Ovest importante per Belgrado. Soprattutto sulla questione Kosovo.
Il Fatto 18.1.19
“Odio e razzismo, la Polonia come un romanzo di Orwell”
Dopo Danzica. L’omicidio del sindaco Adamowicz ha smascherato la crisi dei diritti civili. I redattori del giornale Wyborca Gazeta: “Sono tornati gli incubi peggiori”
di Michela A.G. Iaccarino
“Parole di odio: è quello che ha ucciso Pawel, questo omicidio è nato dalla cattiveria. Vi dico cosa era più importante per lui: che a prescindere dal colore della pelle, del credo religioso, un cittadino si sentisse bene e accolto qui a Danzica. Ero convinto che scene così non ne avrei viste più, ma le peggiori memorie sono tornate, le persone sono sempre più divise, e la colpa è da attribuire solo alla classe politica”.
Così si esprime Grzegorz Kubicki, da 20 anni caporedattore a Gdansk della leggendaria Gazeta Wyborcza, giornale aperto nel 1989 con il motto Nie ma wolnosci bez Solidarnosci (Non c’è libertà senza Solidarietà). Nelle strade intanto, continua la mobilitazione. Cuori disegnati, cuori di lampadine e sui cartelloni con solo due parole sopra: stop nienawisci, basta odio, una parola che in polacco si dice letteralmente “non vedere”.
La cecità della Polonia xenofoba e destrorsa, che predica valori da Europa bianca, cattolica e sovranista, ha svegliato quel lato del paese che rimaneva sopito, che ritiene che la guerra adesso non è ai confini della patria o intorno alle trincate basi Nato, ma all’interno. I campi di battaglia del passato si sono trasferiti nelle case degli scontenti, ostaggio di propaganda e informazioni false.
La Polonia senza Pawel sta zitta. Nessuno si interroga su Stefan, il ragazzo che ha accoltellato il sindaco per una vendetta, come ha dichiarato: è uno spettro di disperazione da reparto psichiatrico. Quello che invece non è più un fantasma nel paese è l’odio. Ola Ptak, giornalista di Rzeczpospolita, ha scritto: “Finalmente hanno capito che le parole sono reali e possono uccidere le persone”.
La paura c’è ed è palpabile, tanto che se chiedi in giro i ragazzi ti rispondono, ma a patto dell’anonimato: “Le città sono cresciute, nelle campagne sono rimasti i poveri, quello è il bastione elettorale di Kazynsky (il fondatore del Pis, il partito della legge e dell’ordine, ndr) non hanno soldi per comprare giornali, sono incazzati, non sanno neppure che il governo gli sta lavando il cervello. Le nostre tv sono come i mass media di 1984 di Orwell: creano un nemico, poi gli scatenano contro l’odio. Contro la carriera, la famiglia, la vita di Adamovicz hanno gettato odio. Rendono il popolo stupido facendosi pagare il canone. Le provocazioni hanno funzionato: il presidente è morto. Al potere ci sono i fascisti, ma se scrivi che l’ho detto, non scrivere il mio nome”.
Conferma queste parole lo storico redattore politico della Wyborcza, dall’ufficio di Varsavia, Roman Imelski: “La nostra tv è in stile Cremlino, è a rischio l’indipendenza del nostro sistema giudiziario, vogliono renderci una seconda Ungheria. Nel 2014, quando il Pis è arrivato al potere, tutto è cambiato. Mentre il governo faceva propaganda contro i migranti che ci chiedeva di prendere l’Europa, in Gran Bretagna facevano propaganda contro i migranti polacchi per la Brexit. Il nostro governo che sulla carta è russofobico, ha come primo alleato il più putiniano dei politici d’Europa: il primo ministro dell’Ungheria, Orban. Qui tutto ormai è tutto un paradosso”.
La Varsavia del Sejm, il Parlamento, si dichiara ufficialmente affranta. Il leader de facto della Polonia, Jaroslaw Kaczynski, presidente del partito Pis, parla di “grande dolore” per la morte del primo cittadino di Danzica che fino a ieri aveva denigrato per le sue aperture sociali.
Ora calerà il silenzio, fino al giorno dei funerali del sindaco di Danzica, domenica prossima. Wojtek Szczucki si definisce figlio d’Europa e vive a Berlino. All’amico che sta per arrivare dalla Polonia ha chiesto di portargli i quotidiani da conservare, perché questi sono giorni storici.
“Due cose possono succedere adesso: i nostri politici realizzano che questo gioco dell’odio è pericoloso e il delitto sarà l’ultimo tragico capitolo che ha provocato la morte di Pawel. O non lo capiranno, e delle tragedie successive, questo lo ricorderemo come il primo passo”.
Il Fatto 18.1.19
Brexit, il muro di Corbyn: non si tratta sul ‘no deal’
Il leader laburista apre all’ipotesi di un secondo referendum e avvisa i suoi: dialogo con May solo se rinuncia al divorzio senza accordo dall’Ue
di Sabrina Provenzani
“Se il governo rimane intransigente, bloccando il supporto all’alternativa del Labour per calcoli elettorali, e il Paese si trova di fronte al potenziale disastro di un ‘no deal’, è nostro dovere prendere in considerazione le altre opzioni uscite dal nostro congresso, inclusa quella di una votazione popolare”.
Ieri per la prima volta il segretario laburista Jeremy Corbyn, durante un atteso discorso nella cittadina costiera di Hastings, ha aperto pubblicamente all’ipotesi di sostenere un secondo referendum, come richiesto da circa il 70% dei membri del suo partito e da 71 su 256 deputati laburisti.
Un’apertura dovuta forse anche alla minaccia dei Lib-Dem, il cui segretario Vince Cable ha dichiarato che appoggerà una nuova mozione di sfiducia laburista solo in cambio dell’impegno a sostenere un People’s Vote. E andare a elezioni è ancora il primo obiettivo del segretario. Corbyn comunque non ha chiarito quale sarebbe la posizione del suo partito, se in una eventuale campagna referendaria sceglierebbe il campo del Remain, preferito dagli iscritti, o quello del Leave, che nel referendum del giugno 2016 aveva raccolto tre milioni di voti rossi. Lo deciderà il partito a tempo debito, ha spiegato.
Sono passate meno di 24 ore dal fallito tentativo di far cadere il primo ministro May, mercoledì sera, con una mozione di sfiducia bocciata per 19 voti. Corbyn riparte subito all’attacco della linea dell’esecutivo. L’offerta di dialogare, dice, “è solo di facciata, non un serio impegno ad affrontare la nuova realtà” di un ‘deal’ morto e sepolto dopo la rovinosa bocciatura di martedì scorso alla House of Commons. Per questo, Corbyn rifiuta, finché il governo non abbia tolto dal tavolo la “disastrosa” opzione di un ‘no deal’, di partecipare alle consultazioni avviate ieri mattina dalla premier con tutte le forze politiche per uscire dall’impasse.
Malgrado il veto di Corbyn, esplicitato in una lettera ai suoi parlamentari, i deputati si parlano eccome. Il ministro ombra per la Brexit, Keir Starmer, non ha mai interrotto il dialogo con i Tory Remainers: un rapporto che potrebbe rivelarsi decisivo per orientare la Brexit verso una versione morbida. E nel pomeriggio, in un colloquio a quattro, i laburisti Hilary Benn e Yvette Cooper hanno fatto arrivare a David Lidington, vice di fatto della May, e al potente ministro per l’Ambiente Michael Gove il messaggio del segretario: il primo passo è scongiurare un ‘no deal’.
Theresa May non può farlo, almeno apertamente, perché questo alienerebbe i falchi Brexiteers e gli unionisti irlandesi di cui ha ancora bisogno per restare in sella.
Ma uno scoop del Telegraph ieri ha rivelato un fondamentale retroscena. In una conference call con 330 imprenditori importanti, subito dopo la bocciatura dell’intesa con l’Ue, il ministro del Tesoro li ha rassicurati sul fatto che il ‘no deal’ possa essere fermato grazie a una mozione parlamentare che sarà presentata lunedì dal deputato conservatore Nick Boles e che, garantisce Hammond, può ottenere la maggioranza parlamentare. Colpo basso, da cui Downing street ha dovuto prendere le distanze.
Sempre lunedì, al termine di un fine settimana di colloqui, May dovrà presentare la bozza del suo piano B, che il Parlamento voterà il 29 gennaio. A due mesi esatti dal Brexit Day.
La Stampa 18.1.19
Nasce la Grande coalizione svedese
“Alleanza per fermare i populisti”
Dopo 130 giorni di negoziati il socialdemocratico Löfven confermato premier: qui non vogliamo razzisti
di Monica Perosino
Quattro mesi fa, quando l’esito delle elezioni aveva spinto la Svezia nello smarrimento politico, con nessuna delle forze in grado di formare una maggioranza, in pochi avrebbero scommesso sulla promessa che, mai, per nessuna ragione, sarebbe nata un’alleanza di governo con i Democratici svedesi, il partito sovranista di ultra-destra anti migranti.
Il 9 settembre il blocco di centrosinistra aveva conquistato 144 seggi (Socialdemocratici, Verdi, Sinistra), il centro 143 (Moderati, Liberali, Centro, Democristiani), 62 i Democratici svedesi. Eppure, nonostante l’allettante bottino e 130 giorni di trattative, che solo nelle ultime ore hanno scongiurato il rischio di elezioni anticipate, con i Democratici svedesi completamente isolati.
L’ex sindacalista Stefan Löfven è riuscito nella grande impresa solo nelle ultime ore, convincendo prima gli storici alleati Verdi, e poi il Partito di Centro e i Liberali riunendoli in un’alleanza che, in Svezia, non si era mai vista. Soprattutto è riuscito a portare dalla sua - o almeno a evitare di avercelo contro - il leader degli ex comunisti (Vänsterpartiet) Jonas Sjöstedt: «L’ho fatto per fermare i sovranisti, per questo combatterò dalle file dell’opposizione qualsiasi misura che porti la Svezia a destra», ha spiegato ai suoi elettori.
Una batosta per l’aspirante premier Ulf Kristersson, leader dei Moderati battuto ancora una volta da «Stefan il rosso» che non solo gli ha portato via il posto sfiorato da primo ministro, ma anche i suoi alleati storici, Annie Lööf (Centro) e Jan Björklund (Liberali) che l’hanno mollato per sostenere il governo di Löfven.
La Svezia, con questa alleanza a guida socialdemocratica, un po’ più a destra scivolerà: Löfven governerà sulla base di un documento di 16 pagine, e 73 punti stilati dalle quattro parti. Una sorta di miscellanea confusa che tenta di tenere insieme idee socialiste, ambientaliste e conservatrici e in cui sembra esservi un punto di incontro solo nel piano di tagli alle tasse, maggior attenzione ai cambiamenti climatici, una migliore assistenza sociale e un approccio «più pragmatico» all’«integrazione dei migranti».
Una cosa è certa: la strada scelta per mettere in un angolo i Democratici svedesi non piace a molti. Il leader moderato Ulf Kristersson l’ha definita «un’assurda formazione governativa», mentre Ebba Busch-Thor dei Democratici cristiani ha detto che l’accordo è «un’alleanza diabolica». Anche Annie Lööf, leader del Partito di Centro, è stata costretta al compromesso, per lei storico, dopo che aveva giurato che «piuttosto di stare al governo con Löfven mi mangio una scarpa». Neanche agli svedesi la soluzione a quattro piace granché: secondo gli ultimi sondaggi solo l’11% l’ha accolta come molto buona, la maggioranza (70%) se la prende perché la vede come un’alleanza pessima. Divisi su tutto, uniti solo sulla «necessità di fermare un partito populista, sovranista e razzista» ha ribadito Löfven, forte anche di un balzo in avanti dei socialdemocratici che in poche settimane hanno raccolto un +3,5% dei consensi.
Da lunedì, quando la Svezia avrà di nuovo un governo, si vedrà se le coalizioni costruite sui numeri e non sulla politica possono guidare un Paese.
Repubblica 18.1.19
Il reportage
La Tunisia a sette anni dalla Primavera
Nella città ribelle Kasserine dove l’ombra della jihad oscura la voglia di riforme
di Giampaolo Cadalanu
Di che cosa stiamo parlando
Le speranze suscitate dalla Rivoluzione del 2011 sono ormai scomparse: in Tunisia la delusione è diffusa. I sindacati, che ieri hanno paralizzato il Paese con uno sciopero, ormai rappresentano solo una fetta della popolazione. E fra i giovani, con la disoccupazione alle stelle, si fa largo la tentazione di gesti disperati
Nell’anniversario del sacrificio di Bouazizi si è dato fuoco un reporter. " La gente è stanca e disillusa"
Rabbia e sospetti
Qui
accanto, Abderrazek Zorgui, il giovane giornalista di Kasserine sul cui
suicidio ci sono dubbi. Nella foto a sinistra lo sciopero generale
indetto dai sindacati Ugtt che ieri ha paralizzato la Tunisia
KASSERINE Avevano promesso che la piazza del Municipio sarebbe stata trasformata in un salotto e dedicata ai Martiri della Rivoluzione. E che magari si sarebbe riaperta anche la vicina stazione ferroviaria, togliendo Kasserine dall’isolamento. Ma non è successo. Alla fermata del bus i ragazzi rabbrividiscono nell’aria gelida: «Qualcuno si è mangiato i soldi. Nulla è cambiato». Così lo slargo dove il 24 dicembre Abderrazek Zorgui ha fatto gli ultimi passi della sua vita, avvolto dalle fiamme, è ancora il luogo trascurato di sempre. Neanche i festoni di bandierine rosse con la stella e la mezzaluna, esposte per l’anniversario della Rivoluzione, riescono a rallegrarlo. E se a Tunisi le celebrazioni sono poco seguite, a Kasserine gli entusiasmi sono scomparsi del tutto.
Sette anni dopo il sacrificio di Mohamed Bouazizi, che fece partire la rivolta in tutto il mondo arabo, giovani tunisini brandiscono ancora la bottiglia di benzina per esprimere la rabbia.
Con i prezzi in crescita rapida, il dinaro in caduta e la disoccupazione reale stimata al 40 per cento, delle speranze suscitate nel 2011 resta ben poco. E questa non è solo una delle zone più depresse, è anche quella dove la percezione di abbandono è più forte. «Fra venti minuti mi immolerò nel fuoco. Se solo un disoccupato di Kasserine troverà lavoro, il mio sacrificio non sarà stato vano», proclamava Abderrazek in video.
Un anziano avvolto nel burnus accelera il passo davanti al monumento per i cinquant’anni dell’indipendenza nazionale, che il giornalista 32enne ha usato come sfondo nel videomessaggio di addio alla vita. «Chiediamo lavoro, e ci sentiamo rispondere che c’è il terrorismo. È come dire: tacete e crepate di fame», diceva fra l’altro. Basta guardare i due blindati "Kirpi", con tanto di soldato alla mitragliatrice, che avanzano lenti fra le auto, per ricordarlo: a Kasserine l’ombra dei jihadisti blocca ogni possibile ripresa. Siamo fra il monte Chambi e il Sammema, roccaforte di gruppi come Okba ibn Nafaa, affiliata ad Al Qaeda nel Maghreb islamico, o Jund al Khilafah, che fa riferimento all’Isis.
Ma sulle reali intenzioni di Zorgui ci sono molti dubbi. Il giovane era tranquillo, fumava, addirittura sembrava ripetere parole imbeccate da qualcuno vicino a lui. «Al telefono mi ha detto: forse se mi do fuoco qualcuno ci darà lavoro», racconta Safwa Guermazi, la collega precaria di Telvza tv con cui Zorgui lavorava.
«Io non ci credevo, sapevo che era una persona solare, sempre allegra. Per tutti noi era "Rzouga"’. Aveva tanti progetti, amava il suo mestiere. Sul telefono mi ha scritto: ho il cuore colmo, non ne posso più. L’ho richiamato, e mi ha detto: è un gesto dimostrativo, non voglio andare fino in fondo».
Che cosa è successo veramente, a Kasserine? Il suicidio simbolico, che subito ha spinto altri giovani a darsi fuoco, e che poteva far ripartire la rivolta, sembra non essere stato un suicidio, ma la fine sfortunata di una messa in scena, o forse un atto preordinato, per riaccendere la rivolta. Ma contro chi, se Ben Ali è in esilio e la Tunisia, fra passi falsi e problemi degli inizi, è una democrazia?
Nel video girato da un passante a piazza Municipio si vede il giovane versarsi la benzina addosso ma poi sembra che sia qualcun altro a far scattare la scintilla. Hamma, fratello maggiore di Abderrazek, rallenta il filmato e indica un ragazzo che tiene ancora l’accendino in mano quando Rzouga, coperto dal fuoco, corre verso di lui. La stampa tunisina lo identifica come Youssef, un "rappeur" diciottenne. Ha confessato, dice la polizia: volevamo fare una provocazione, ho fatto scattare l’accendino per seguire la messa in scena, ma il fuoco è partito all’improvviso… All’idea del suicidio, gli amici del bar Panorama non hanno creduto un momento: «Rzouga era un’anima leggera, sempre allegro.
Una volta ha preso in prestito la mia moto e poi mi ha chiamato: senti, la polizia mi ha fermato, non avevo documenti, si sono tenuti la tua moto. Era contento di lavorare. Se qualcosa si rompeva, lui aggiustava tutto con cacciavite e fil di ferro: lo chiamavamo Rzouga made in China », racconta con gli occhi lucidi Anis. Anche il lavoro con la tv, pagato poco e non sempre, lo entusiasmava.
«Quando dalla sede centrale gli dicevano: non ci sono soldi per questo servizio, lui partiva lo stesso, anche con mezzi di fortuna, dicendo: i soldi si troveranno», insiste Safwa.
Aveva tanti progetti: servizi non finiti per la tv, un viaggio in Francia. E un altro figlio in vista.
La seconda moglie di Rzouga, Hedia, al settimo mese di gravidanza, non crede ancora che Abderrazek l’abbia lasciata sola.
«Nell’ultimo periodo usciva con amici nuovi. Lui si fidava di tutti.
La sera del 24 è rientrato dopo le 4 del mattino. Parlava in modo strano, sembrava un robot. Gli ho chiesto: che hai? Mi ha risposto: sono stufo, forse non mi vedrai più. Io: guarda che c’è un bambino in arrivo. E lui: ci penserà Dio. Poi si è alzato, aveva sete, beveva e non riusciva a placarla».
L’arsura incontenibile, dicono gli esperti, fa pensare che Rzouga abbia assunto, forse senza saperlo, oppiacei o ansiolitici forti.
Molecole che influiscono sul comportamento, fino a spingere persone equilibrate ad atteggiamenti maniacali. Ma la polizia di Kasserine non lo sa, perché stranamente non ha interrogato la donna. Il fratello Bahri aggiunge altri elementi di dubbio, raccontando che l’autopsia non è stata fatta perché le autorità mediche hanno accelerato la sepoltura, dopo che i presunti amici di Rzouga avevano montato una finta protesta all’ospedale, distruggendo i macchinari con il pretesto — falso — che l’amico si era dato fuoco perché malmenato dalla polizia.
Un suicidio che non è un suicidio: la passione tunisina per le teorie complottiste suggerisce mille scenari più o meno plausibili, nella guerra per bande che caratterizza la politica locale, a suon di dossier e minacce, fra la scoperta di squadre armate di partito e il ritorno delle bandiere salafite sull’avenue Bourghiba. «In Europa pensate che non sia possibile bruciare vivo un giovane per poi strumentalizzare la sua morte? Ma qui c’è gente pronta a dar fuoco al Paese», dice Zied el Heni, commentatore di La Presse.
Chokri Baccouche, direttore di Le Quotidien, spiega che c’è un solo motivo per cui, nonostante la delusione per la scomparsa dei sogni del 2011, l’incendio di Kasserine non è divampato in tutto il Paese: «Se il fuoco non si è diffuso, è solo perché la gente è stanca e disillusa. Ma qui la fiamma cova sotto la cenere».
La Stampa 18.1.19
L’Italia che non è stata
Nei programmi di don Sturzo una diagnosi dei mali che ci affliggono ancora oggi
di Alberto Mingardi
Il 18 gennaio di cent’anni fa, con l’appello ai «liberi e forti», nasceva il Partito popolare. Nasceva nell’albergo Santa Chiara a Roma grazie agli sforzi di un sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo. Per anni all’evento si è ripensato come fosse il primo passo della futura Democrazia cristiana. Per poco meno di cinquant’anni pilastro del governo nel nostro Paese, è difficile dire che la Dc non sia stato un partito di straordinario successo. Ma l’eredità sturziana nella Dc è stata in larga misura una questione cerimoniale. La politica di massa, in un Paese in turbinoso sviluppo ma ancora diviso, scisso da fratture economiche, politiche, geografiche, esigeva un conservatorismo pragmatico, a suo agio con l’arte del compromesso.
Nell’appello del 1919, don Luigi Sturzo parte invece dalla necessità di trovare nientemeno che l’«equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società». Il dodicesimo punto del programma del partito chiama addirittura in causa la Società delle Nazioni e tratteggia relazioni internazionali in cui alla forza si sostituisce il solo diritto: «arbitrato, abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria, disarmo universale».
Violenza nera e violenza rossa
La Prima guerra mondiale è appena finita, sfila il feretro delle annichilite dinastie europee, il mondo del Congresso di Vienna sembra lontanissimo e la sfida per tutti è quella di trovare una formula politica all’altezza dei tempi della democrazia sulla cui forza travolgente, dopo l’intervento statunitense, non ci sono dubbi.
In Italia le cose andranno diversamente, il reducismo travolgerà le forme della democrazia borghese, lo scontro tra violenza «nera» e violenza «rossa» finirà con la vittoria del demagogo con maggior istinto politico. L’appello ai liberi e forti è stata un’altra delle occasioni perse della nostra storia, una porta che non si è mai aperta su un Paese diverso.
Anche il suo promotore era un grande eccentrico: nato a Caltagirone in una famiglia dell’aristocrazia locale, la vocazione di Sturzo era stata l’abito talare e, con esso, la filosofia e l’insegnamento. Con la lettura dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII aveva scoperto i temi sociali e politici. Ci si immerse con dedizione totale: le esperienze nell’associazionismo (fondò una Cassa Rurale e una mutua, partecipò all’Opera dei Congressi e all’Azione cattolica) e nell’amministrazione (fu consigliere provinciale e pro-sindaco di Caltagirone) gli consentirono una conoscenza di prima mano dell’economia e della società meridionale, che ne ispirarono l’azione politica.
Libertà e autonomia
Nel 1919 provò a costruire un partito aconfessionale, per «rappresentare laicamente gli interessi ed i valori dei cattolici», come ha scritto Flavio Felice. L’essenza dell’appello e del programma del Partito popolare è un rovesciamento della piramide dello Stato. Non erano le istituzioni pubbliche a dover «fare gli italiani»: semmai erano questi ultimi a dover imparare a farsi carico dei bisogni sociali, organizzando liberamente i propri sindacati, le proprie iniziative di beneficenza e assistenza, riconoscendo la libertà dell’insegnamento e spezzando il monopolio educativo.
Soprattutto, però, gli enti locali dovevano trovare «libertà e autonomia», con un «largo decentramento amministrativo» che affonda le sue ragioni nella storia dei territori italiani e nella «necessità di sviluppo della vita locale». Ciò soprattutto in quel Mezzogiorno che era al centro delle preoccupazioni, e delle riflessioni, di Sturzo. L’Italia unita aveva preso a modello la Francia, dove «le leggi scritte, stilizzate fino all’ultima virgola, i regolamenti di esecuzione sino ai più minuti dettagli, partono dal centro, dall’unità di dominio e di interessi» (così in un discorso del 1923). Ma un Paese plurale per geografia e economia era federalista per vocazione, e non poteva che sentirsi soffocare in una rigida armatura centralistica.
A tre anni dalla fondazione del Partito popolare, in un discorso su «Crisi e rinnovamento dello Stato» Sturzo ci consegna un’analisi che sembra strappata alla più stringente attualità. L’aumento «esagerato, ipertrofico delle funzioni degli enti pubblici» ha fatto del ceto burocratico «il vero e reale detentore del potere e dell’amministrazione». Il potere è spartito e diviso tra «l’elemento formalista, analitico, pedante dei ministeri e quello faccendiere, procacciante, parassitario dei trafficanti sul pubblico denaro». Si era compiuto «il fatale passaggio del potere legislativo e politico dal parlamento al governo e dal governo alla burocrazia». Nel 1924 prende la via dell’esilio: da una frequentazione di prima mano del mondo anglosassone, il sacerdote cattolico trarrà conferma delle proprie intuizioni.
Dopo la guerra, Sturzo parla delle tre «male bestie»: la partitocrazia, lo statalismo e l’abuso del denaro pubblico. Da senatore a vita siede nel gruppo misto, e non in quello della Dc.
L’appello ai liberi e forti, dunque, e in generale l’opera di Sturzo, ci appaiono oggi come una reliquia di un’altra Italia, un’Italia che non è esistita. La diagnosi dei problemi dell’Italia esistente è valida oggi come cent’anni fa, e oggi come cent’anni fa prevale il desiderio di non trarne le conseguenze.
Corriere 18.1.19
Cento anni dopo
I cattolici e gli spazi in politica
di Ernesto Galli della Loggia
Chi oggi legge l’«Appello al Paese» con cui esattamente cento anni fa, il 18 gennaio 1919, don Luigi Sturzo gettò le fondamenta del Partito popolare, dando così avvio al pieno protagonismo nella vita politica italiana da parte dei cattolici, che fino allora se n’erano tenuti fuori a causa dell’antico contrasto risorgimentale tra la Chiesa e lo Stato unitario, è colpito soprattutto da un aspetto: dal carattere intrinsecamente politico di quel testo, tutto calato nell’immediatezza dei problemi del momento.
Sul piano generale ad esempio nessun accenno all’antico contrasto suddetto, nessuna evocazione di un qualche non meglio precisato «bene comune» da perseguire e, nonostante che fossimo a poco più di un mese dalla fine della guerra, nessun accenno neppure al tema dell’«inutile strage» (saggiamente lasciato al disfattismo suicida dei socialisti). Piuttosto, invece, la rivendicazione dei «vantaggi della vittoria conquistata», un’identificazione sottolineata nella «nostra Italia che per virtù dei suoi figli, nei sacrifici della guerra ha con la vittoria compiuta la sua unità e rinsaldata la coscienza nazionale», e poi una lunga serie di punti concreti: dall’appoggio all’internazionalismo di Wilson in politica estera alla richiesta di una legge elettorale proporzionale, «non escluso il voto alle donne» (allora non voluto da alcuna forza politica).
A ncora: dalla rivendicazione della libertà religiosa e d’insegnamento alla lotta contro l’analfabetismo, dalla difesa della famiglia all’abolizione della coscrizione obbligatoria, dall’istituzione delle regioni alla richiesta di una vasta legislazione sociale, dalla libertà per «le organizzazioni di classe» alla tutela della piccola proprietà.
Naturalmente non venivano certo taciute le radici dell’appello nei «saldi princìpi del cristianesimo che consacrò la grande missione civilizzatrice dell’Italia» (si noti l’insistenza sul tema nazionale presente nel testo), ma esso, com’è noto, era rivolto «a tutti gli uomini liberi e forti (…) senza pregiudizi né preconcetti, perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà». In quanto tale il programma poi non aveva nulla di specificamente cattolico (tranne forse per la «difesa della famiglia» che sottintendeva un no al divorzio, allora del resto di là da venire). Il suo, in definitiva, era un contenuto schiettamente democratico-liberale. E chi si trova oggi a ripensare la vicenda politica dei cattolici che cominciò un secolo fa, e che li vide per circa mezzo secolo al governo con un loro partito dal 1945 al 1992, deve riconoscere che in tale vicenda questa matrice si è conservata fondamentalmente inalterata.
Nella sostanza, insomma, l’esperienza del cattolicesimo politico italiano e del suo partito è stata un’esperienza democratico-liberale: che peraltro si è trovata collocata storicamente in una posizione marcatamente di centro per effetto della forte radicalizzazione ideologica delle due ali estreme che ha caratterizzato tradizionalmente lo schieramento politico italiano fin dall’indomani della Grande guerra. Collocazione al centro rivelatasi decisiva sotto due aspetti importanti: per l’autorappresentazione del partito stesso, per la sua immagine, e perché proprio questo trovarsi schiacciato così a lungo tra due estreme radicali, per giunta istituzionalmente delegittimate come i neofascisti e i comunisti, ha consentito, anzi ha reso in un certo senso obbligata, la convivenza nel partito cattolico di posizioni che si volevano più o meno lontane dall’ispirazione di fondo democratico-liberale, contribuendo quindi a confonderne in parte l’apparenza.
È stato proprio il venir meno di tale collocazione centrista, in seguito all’avvento della cosiddetta seconda Repubblica e del suo tendenziale bipolarismo, che ha reso impossibile la prosecuzione dell’esperienza politica cattolica in Italia. È accaduto infatti come se l’ispirazione largamente democratico-liberale che stava dietro il cattolicesimo politico e ne aveva accompagnato l’intera vicenda non se la sentisse di sopravvivere alla perdita del «centro» dove la storia l’aveva così a lungo collocata e dove essa stessa si era così a lungo autorappresentata. Come se per molte ragioni essa non se la sentisse, non potesse decidere di essere «di destra» o «di sinistra», come invece le novità dei tempi esigevano.
Da queste concrete considerazioni storiche più che da alati auspici credo che dovrebbe partire la discussione riaccesasi di recente su un nuovo impegno politico dei cattolici italiani: proprio perché oggi la situazione è mutata. Oggi la morte delle antiche culture politiche di destra e di sinistra, la crisi evidente del bipolarismo, l’emergere prepotente di un orizzonte confusamente nazionalista-identitario dai tratti populisti, mentre ancora sopravvive una Sinistra senz’anima e senza idee, oggi, dicevo, tutto ciò apre nuovi spazi, ridà una nuova prospettiva strategica e sembra riattualizzare in misura decisa l’ispirazione democratico-liberale propria del cattolicesimo politico italiano. Aggiungendovi un fondo di «popolarismo» il quale può ben rappresentare il germe potenziale di un populismo «buono» da opporre a quello cattivo del plebiscitarismo «russoiano» e della ruspa salviniana.
Senza contare una speranza non irrilevante: che forse l’ambiente cattolico ancora rappresenta strati della società italiana che per qualità e preparazione personali, per cultura civica, sono in grado di dare ai gruppi dirigenti politici del Paese un personale alquanto diverso dai nani, dalle ballerine e dai capataz che oggi affollano le stanze del potere.
Corriere 18.1.19
Shlomo nel Sonderkommando
Il destino che Primo Levi non capì
Auschwitz Addetto al trasporto dei corpi ai forni, testimone assoluto della Shoah. Sbagliato parlare di «zona grigia»
di Donatella Di Cesare
Svastiche nere, impudenti e minacciose, erano comparse d’un tratto a segnare i negozi degli ebrei lungo viale Libia e nelle strade attigue del quartiere romano. Di là Shlomo ci passava ogni giorno per tornare a casa. La vista di quelle croci uncinate lo straziò, lo afflisse. Era all’inizio degli anni Novanta. Non voleva, non poteva crederci. Ma qualche tempo dopo, mentre camminava, si trovò faccia a faccia con alcuni fascisti che volantinavano sbraitando. La tensione era forte. Qualche passante rifiutava il volantino, rispondeva per le rime. I fascisti erano pronti alla violenza. Per un attimo ebbe l’impulso di intervenire. Poi pensò che la risposta sarebbe stata un’altra. Nel 1992 Shlomo Venezia cominciò a parlare.
Dunque esisteva un membro del Sonderkommando, di quelle Squadre speciali, costrette a operare tra la camera a gas e il forno crematorio! Era, anzi, un ebreo italiano. Quel nome, «Venezia», rievocava il tempo in cui i suoi antenati, espulsi dalla Spagna nel 1492, si erano fermati nella città della laguna, prima di proseguire per le coste greche. Shlomo era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923. Il padre aveva trasmesso ai figli la cittadinanza italiana, quasi fosse una difesa che avrebbe dovuto proteggerli. In casa si parlava ladino, o meglio, giudeo-spagnolo, ricordo di quel leggendario passato perduto. La famiglia tentò di fuggire durante l’occupazione nazista; furono, però, catturati e deportati ad Auschwitz, dove giunsero l’11 aprile 1944. A Shlomo fu «iniettato» il numero 182727. Passate le prime selezioni, gli fu proposto un «lavoro supplementare» per una doppia razione di cibo. «Se avessi saputo che quel lavoro consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame; (…) quando compresi era troppo tardi». Così ha confessato nel libro Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 in Italia da Rizzoli e tradotto in moltissime lingue.
Impossibile immaginare che cosa dovette provare un ventenne costretto a vivere per mesi accanto ai forni crematori. Quando scrive Shlomo non indugia su di sé, sulle sue emozioni, sul suo dolore. Con «onestà irreprensibile» — come ha notato Simone Veil nelle pagine introduttive dell’edizione francese — ricostruisce la catena dell’annientamento: dalla discesa negli spogliatoi all’avvio nelle camere spacciate per «docce», dal trasporto nei forni fino all’incinerazione. Chi voglia capire che cos’è stata davvero la Shoah, questa ignominiosa fabbricazione di cadaveri, questa degradazione della morte, deve leggere la sua testimonianza che non può essere paragonata ad altre.
Shlomo lo sapeva. Perciò aveva taciuto così a lungo. I nazisti avrebbero voluto eliminare l’ebreo e il testimone. Lui invece era sopravvissuto non solo per raccontare la rivolta del Sonderkommando, la marcia attraverso la neve, la liberazione, ma anche per dire quel che nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Era consapevole di essere il superstite assoluto. Perché era stato in quel luogo, tra la camera a gas e il forno crematorio, peculiarità dello sterminio hitleriano, che sarebbe stato sempre decisamente negato. Shlomo Venezia è il superstite, non nel senso del testimone terzo, bensì in quello del superteste, in grado di parlare, per sé e per gli annientati, perché è sopra-vissuto, rimasto oltre — oltre la camera a gas, il crematorio, lo sterminio. Unica e preziosa, la sua testimonianza sarebbe stata perciò la più temuta dai negazionisti.
È tempo, però, anche di sollevare una questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto» solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l’indice contro i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva coniato l’espressione «zona grigia» con cui rinviava alla «complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa.
Aveva ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo». Ma per il resto lui, che parlava da Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio, avrebbe forse dovuto rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonianza di Shlomo Venezia. Quell’industrializzazione della morte, che nelle officine hitleriane ha evitato il faccia a faccia con le vittime, è stato il sapiente trionfo dell’anonimato e l’intenzionale frantumazione della responsabilità. Così i criminali tentarono in seguito di definirsi innocenti. E oggi sappiamo che, se c’è stata resistenza, se c’è stata rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sonderkommando.
Chi l’ha conosciuto, sa quanto soffrisse di un’angoscia tetra, di una disperazione sorda, che rischiavano di logorarlo. Dopo il filo spinato del lager, il pericolo era il silenzio in cui avrebbero potuto spegnersi le sue parole. Eppure Shlomo, combattente instancabile, ha vinto la sua battaglia.
Repubblica 18.1.19
Cronache del Muro Gennaio 1989 e Honecker disse: "Durerà un secolo"
Berlino, trent’anni fa, è ancora una capitale divisa in due. Inizia da qui il viaggio in dodici tappe nell’evento che ha cambiato la storia del Novecento, ponendo fine alla Guerra fredda
di Ezio Mauro
Finì il brusio. Lui portava la camicia bianca anche quel giorno, e una cravatta di nomenklatura larga con le righe sottili, sotto il vestito scuro con lo stemma del partito all’occhiello: due mani robuste da lavoratore che si stringono davanti alla bandiera rossa. Ma quando si alzò dal tavolo d’onore, inclinando verso il pubblico in sala i suoi 77 anni, Erich Honecker sembrò soprattutto un vecchio, coi suoi capelli bianchi che testimoniavano il tempo passato dal 1971, quando aveva conquistato il partito, il potere, lo Stato e l’intera Ddr, tenendo tutto in pugno per 18 anni. Si aggiustò gli occhiali davanti alla tribuna, senza sapere che avrebbe ripetuto lo stesso gesto, meccanicamente, tre anni dopo di fronte al tribunale tedesco che lo accusava di omicidio criminale e abuso di potere, quindi pronunciò davanti ai tre microfoni, scandendola, la sua ultima profezia sovrana, che voleva essere un atto di fede ma risuonò piuttosto come un esorcismo: «Il muro esisterà ancora, anche fra cinquanta o cent’anni, finché non verranno meno le premesse che lo hanno reso necessario».
Intorno a lui, tutto sembrò per un attimo immutabile, come sempre: la tribuna di legno chiaro, i fregi a far da cornice, l’applauso dei dirigenti. Ma era un sabato ingannevole quel 18 gennaio, come la temperatura insolita che segnava 7,3 gradi a Berlino. Lentamente, l’anno era appena incominciato. E l’anno era l’incredibile 1989.
Nessuno sapeva che sarebbe stato l’anno dei miracoli. Gennaio era arrivato anonimo, dopo una vacanza ordinaria, con qualche merce in più (soprattutto salumi) nei negozi per le feste, e addirittura — raccontava qualcuno — introvabili bottiglie di vino georgiano. Certo, l’anno vecchio era finito con qualche fuoco artificiale nel cielo disabitato del comunismo europeo. In Jugoslavia per la prima volta la crisi economica a dicembre aveva fatto cadere il governo, costringendo Branko Mikulic alle dimissioni; in Ungheria il parlamento aveva accettato di discutere un progetto per introdurre il pluralismo con partiti indipendenti e non comunisti; in Polonia Lech Walesa aveva addirittura costituito un governo ombra; e infine Mikhail Gorbaciov aveva appena annunciato nel suo discorso all’Onu il ritiro unilaterale e senza condizioni di 500 mila soldati sovietici, 10 mila carri armati e 800 aerei dall’Europa. «Quest’uomo è sincero», aveva commentato il segretario di Stato americano George Shultz, dopo l’inconsueto incontro a tre a New York del leader dell’Urss coi presidenti entrante e uscente degli Stati Uniti, George Bush e Ronald Reagan.
Ma erano altri i segni, bizzarri, minimi, e tuttavia trasgressivi e insistenti, che a Berlino Est si osservavano con inquietudine. Come mai sull’aereo al seguito di Gorbaciov (battezzato sottovoce nientemeno che "Glasnost one") erano stati fatti salire per la prima volta registi, scrittori, artisti, disseminandoli poi nei talk show americani a parlare a qualsiasi ora di pace e riforme?
Com’era possibile che un accademico come Gheorghi Arbatov, presidente dell’istituto sovietico per gli Stati Uniti e il Canada, si presentasse in televisione a sostenere il dialogo tra Mosca e il capitalismo, arrivando a dire che «in fondo quando vado da Bloomingdale’s o da Macy’s nessun commesso mi chiede se sono comunista, piuttosto mi chiedono la carta di credito»? Bloomingdale’s? Carta di credito? Roba mai vista. Come gli invitati alla cena newyorchese in onore di Raissa Gorbaciova a South Place, dove con i diplomatici dell’Onu e le signore Reagan e Bush sedevano a tavola la moglie dell’editore del Carol Sulzberger, la conduttrice dell’Abc Barbara Walters, la star del gossip Andrea Mehle, in arte Suzy, e infine la regina americana dei cosmetici e dei profumi Estée Lauder.
Tra cipria e pettegolezzi, cosa stava capitando al vecchio blocco comunista, che aveva incatenato mezza Europa per quasi cinquant’anni senza badare all’estetica, tanto meno alle maniere e ancor più ai giudizi altrui, autocentrato per metodo, autosufficiente ad ogni costo, comunque impermeabile? Come se Woland coi suoi sortilegi diabolici capaci di rovesciare il mondo fosse tornato a camminare per i viali di Mosca, ora dal Cremlino arrivava la notizia del genero di Breznev — onnipotente padrone dell’impero comunista per 18 anni — condannato ai lavori forzati, mentre il nome del predecessore di Gorbaciov, Konstantin Cernenko, veniva cancellato per decreto dalle aziende e dalle scuole che gli erano state intitolate. Non solo: il giorno di Natale durante la messa cantata nell’unica chiesa cattolica di Mosca, San Luigi dei Francesi, don Stanislaus Mazeika annunciò a sorpresa che papa Karol Wojtyla mandava in regalo ai fedeli di Russia la Bibbia tradotta in cirillico, che per decenni aveva circolato solo clandestinamente come un samizdat:
e adesso usciva rilegata da trentadue scatole che contenevano ognuna 66 volumi, di fianco all’altare dove passarono in coda per giorni 2.112 persone a ricevere il sacro dono, mentre si chinavano a baciare la mano del vecchio parroco, facendo tre volte il segno della croce.
Giovanni Paolo II si era anche affacciato in diretta per la prima volta della storia dalla televisione di Stato sovietica pregando per l’Armenia terremotata nella benedizione di Natale, ora davvero "urbi et orbi" grazie all’eresia gorbacioviana che mostrava agli spettatori sovietici di un Paese ufficialmente ateo il Papa di Roma, per di più slavo dopo duemila anni, dunque ex suddito ribelle rivestito dei paramenti sacri, regali e universali. Quasi contemporaneamente, in una sorta di compensazione pagana, sulla Moskovskaya Pravda
Era comparso all’improvviso un intruso inconcepibile per un giornale sovietico fin dal 1917, l’inizio di tutto: impaginato su tre colonne, illustrato con una candela e un corvo, firmato da Eremel Parnov specialista nelle arti della magia bianca e nera, era l’oroscopo, che con Saturno dominante nell’anno del Serpente, garantiva un ’89 benevolo per i Pesci, per i Gemelli, per la glasnost
e per l’ambiente.
Il cielo, sacro e profano, sapeva quanto il nuovo anno avesse bisogno di buoni auspici.
L’Armata Rossa si preparava a portar via tutti i suoi uomini dall’Afghanistan entro il 31 gennaio, a Varsavia Jozef Czyrek a nome del generale Jaruzelski proponeva a Solidarnosc "un socialismo senza Lenin", a Mosca gli scrittori chiedevano la riabilitazione di Solgenitsyn, negli Urali tre inviati americani venivano ammessi per la prima volta a visitare il gulag "Perm 35", un campo di lavoro per detenuti colpevoli di reati d’opinione, mentre a Praga il 16 gennaio il potere non riusciva più a impedire — nonostante 1300 arresti — una grande manifestazione non autorizzata in piazza San Venceslao in memoria di Jan Palach, che vent’anni prima su quella piazza si era bruciato vivo per protestare contro l’invasione sovietica e contro la censura.
Soltanto nei 108 mila chilometri quadrati della Ddr, la Repubblica Democratica Tedesca, il vento dell’89 faticava ad entrare, nemmeno col soffio controllato della perestrojka. Anzi, quel tentativo dei partiti comunisti al potere nell’Est europeo di aprire confusamente alle riforme per dar respiro alla dittatura, controllando i segnali di dissenso da popolazioni soffocate dalla penuria e dal peso del regime, spaventava la Sed, il partito-Stato tedesco orientale. Stretta tra la potenza risorgente della Repubblica Federale Tedesca e l’indebolimento crescente dei sistemi comunisti fratelli, la Germania dell’Est si rinserrava davanti all’urto dell’89, domandandosi quando mai fosse incominciato davvero: nell’autunno 1985, con l’ingresso di Gorbaciov al Cremlino? O prima, nell’inverno del 1981, con l’arrivo di Reagan alla Casa Bianca? O addirittura nell’agosto 1980, con il primo sciopero di Solidarnosc nei cantieri navali "Lenin" di Danzica? Resta il fatto che il cancello di ferro davanti al comunismo europeo adesso cigolava sui suoi cardini arrugginiti, e Berlino est con la sua chiusura impaurita e paurosa diventava improvvisamente il luogo di custodia dell’ortodossia ormai sotto minaccia ovunque, e soprattutto senza più fede.
Incredibilmente, i capi del partito e del Paese pensavano di poter continuare così, mentre il mondo stava facendo un giro e il loro stesso universo di riferimento barcollava. Un segno di sclerosi politica più che di fiducia. Perché tutto intorno a loro si stava rovesciando. Erano costretti a limitare i viaggi di scambio universitari nei Paesi fratelli e le delegazioni accademiche all’Est, perché i tedeschi orientali tornavano contagiati e storditi dalla febbre dissidente e dall’ansia di cambiamento che si percepiva a Varsavia, a Budapest, a San Pietroburgo e a Praga. Non solo la grammatica comunista impazziva, ma la logica dell’impero si ribaltava. Fino all’impensabile, quando la Ddr cominciò a censurare tutto ciò che arrivava da Mosca, togliendo dalla circolazione cinque film sovietici, cancellando dalla tv di Stato le dichiarazioni più radicali di Gorbaciov, fino a far sparire la rivista Sputnik, che portava in tedesco il verbo della perestroika a 180 mila abbonati, e per questo fu messa al bando un giorno di novembre, come si faceva con i newsmagazine dell’Occidente capitalista e nemico, e pudicamente con Playboy.
In un paradosso comunista, tuttavia, la popolazione di Berlino Est era contemporaneamente la più sorvegliata (insieme coi sudditi romeni di Ceausescu) e la più informata. Per anni all’asilo e nelle elementari i maestri avevano chiesto ai bambini di disegnare in classe i loghi dei canali televisivi che i genitori guardavano in casa, per scoprire le trasgressioni al divieto di seguire programmi occidentali, peraltro già boicottati dal regime nell’etere, prima che scendessero clandestinamente nelle case. Ma la battaglia era ormai perduta. La sera del discorso di Honecker il primo canale tv tedesco-orientale trasmetteva pattinaggio, pallavolo e un documentario sui "40 anni della Ddr", ma con qualche fatica — e a basso volume, con i figli a letto — si poteva raggiungere Yves Montand in Garçon sulla rete della Germania occidentale ARD, il documentario sui gas tossici in Libia sulla ZDF, su N3 Roma città aperta di Rossellini, e sulla Pro7, quando arrivava il segnale, persino Starsky & Hutch.
I sudditi sapevano. Così, accadde. Di notte a Lipsia l’11 gennaio qualcuno infila i primi volantini del dissenso nelle cassette per la posta delle famiglie che dormono. Sono firmati da "Iniziativa democratica per il rinnovamento della nostra società", e invitano tutti a una manifestazione nel settantesimo anniversario dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, fondatori della Lega di Spartaco. Per tutta la mattina si vedono falsi operai che infilano pinze lunghe e sottili nelle buche delle lettere alla caccia dei volantini, quattro attivisti vengono arrestati, ma il giorno dell’appuntamento, il 15, ci sono 800 persone in piazza nel pieno centro di Lipsia, sfilano fino alla casa di Liebknecht, arrivano davanti al civico 15 di Branstrasse, dove i Vopos, la "Polizia Popolare", ferma i primi 190 dissidenti dell’89.
Ecco perché tre giorni dopo Honecker giura sull’eternità del Muro, ottenendo una immediata e singolare eco dal ministro degli Esteri sovietico a Vienna per la Conferenza e la cooperazione in Europa: «Io non credo che il muro di Berlino sia argomento di negoziato — risponde infatti Eduard Shevardnadze a George Shultz che lo aveva appena invitato ad abbattere la barriera —. D’altra parte ciascuno ha il diritto di munire le proprie frontiere nel modo che ritiene più opportuno». Divisi ormai su quasi tutto, Mosca e Berlino est si trovano fianco a fianco solo davanti alla potenza del muro e al suo mito simbolico, uniti infine proprio da ciò che è nato per dividere.
È come se fosse l’ultima garanzia, la suprema cauzione, il tabù finale di ogni superstizione comunista. Quasi che il regime — in ogni lingua dell’Est, in qualunque Paese — avesse sacralizzato la propria insicurezza costruendo nella pietra del cemento e nel ferro del filo spinato il monumento fisico alla propria eternità metafisica. Un santuario del presente immutabile, dunque un altare del terrore della fine, la prova evidente dell’onnipotenza di un regime, e la conferma del suo limite. Qui più che dovunque nel mondo l’ideologia trovava la sua materialità, si faceva sostanza delle cose, inanimata ma perenne. Qui e sulla Piazza Rossa di Mosca, nel granito di Lenin. Il comunismo di pietra. Una pietra rossa per l’inizio, una pietra bianca per l’epilogo.
Il mostro vive in mezzo alla città, attraversa l’Europa, separa il mondo correndo per 156,4 chilometri, innalzandosi per tre metri e sessanta centimetri, affondando nel terreno per altri due metri e dieci, con il corpo composto da 45 mila sezioni di cemento. Vigila con 302 torri di sorveglianza. Si avvolge in 127 chilometri di filo spinato. Si protegge con 105 chilometri di fossato. Si rinchiude in 20 bunker. Si circonda con la "striscia della morte" coperta di sabbia ogni mattina rastrellata, in modo che se qualcuno la calpesta restino le impronte. Minaccia con tre brigate di frontiera munite di pistole, carabine, mitra, bombe a mano, Panzer russi T 34/85 e SU76, cannoni e contraerea. Dissuade con 18.300 reticolati, trappole anticarro, barriere con denti metallici, sirene d’allarme e riflettori. Spaventa con cinquemila cani pastore addestrati, i cani di confine con i denti rastremati dalla fresatrice, pronti all’impiego.
Era dunque un’arma, non soltanto una barriera, un simbolo dell’assolutismo e non solo una trincea, una prigione ben più che una separazione. Riuscirono a superare il muro cinquemila tedeschi orientali con imprese folli, fantasiose, disperate. Morirono cercando di farlo 86 persone, più 27 guardie di frontiera dell’Est coinvolte in scontri davanti allo sbarramento, ma seguendo altri calcoli le vittime furono molte di più, 115 secondo una statistica, 227 se si contano tutte le morti collegate in qualche modo al muro. Un cimitero: come quello degli Invalidi dove arrivò il muro, sventrando tombe e memorie nelle sezioni G e H, passando tra i cippi e i monumenti nei campi E ed F, sfiorando giù in fondo la lapide grigia di Manfred von Richthofen, il "Barone Rosso".
Sono andato a vedere ciò che resta del muro, camminando per quel chilometro di persistenza testimoniale lungo la M?hlenstrasse, vicino alla vecchia stazione centrale della Ddr. Un simulacro del Novecento che testimonia il primitivismo del secolo, e restituisce intatta l’ossessione del comunismo per il dominio dello spazio come controllo del corpo, l’interdetto costruito nella pietra perché durasse per sempre, e la pietra che diventa norma per un altro ratto d’Europa, permanente. Oggi il cemento è vinto, il muro picconato e distrutto ha subito persino l’onta finale dei suoi reperti venduti all’incanto a Montecarlo, in un’asta per collezionisti e contesse. Ciò che resta a Berlino è ridotto ad archeologia politica spezzata, e tuttavia conserva nella sua misura minima la traccia perpetua dell’ottusità tragica del titanismo totalitario. Solo chi si sente come Dio padrone dei destini può decidere il perimetro delle vite altrui, richiudendo e aprendo i percorsi, credendo di separare il dentro dal fuori, mentre intanto nella vita di dentro separa i dominanti dai dominati. Tutto questo fino a trent’anni fa, dopo la danza macabra di Hitler, nel cuore moderno della cultura occidentale, che evidentemente come la bellezza non immunizza e non ripara: in fondo nel Doktor Faustus, quando cede al Maligno che appare sul divano accanto per proporgli il patto scellerato, Adrian Leverk?hn sta leggendo Kierkegaard.
Poi si alza lo sguardo oltre il conto dei morti e dei prigionieri e spunta finalmente la città,
Repubblica 18.1.19
Lo storico Andreas Roedder
"Ma la Ddr intuì la debolezza di Gorbaciov"
intervistadi Tonia Mastrobuoni
BERLINO Dieci anni fa lo storico Andreas Roedder ha scritto la più documentata storia della caduta del muro di Berlino e della riunificazione tedesca. Deutschland einig Vaterland ("Germania patria unita", C. H.
Beck) si legge ancora oggi come una cronaca viva di quei mesi che chiusero il "secolo breve". In questa intervista, mentre lo studioso di Magonza sta ultimando un libro sul conservatorismo — Roedder è membro della Cdu — ci racconta cosa significò l’89.
Professore, a partire dai primi mesi del 1989, in Germania Est nacquero sempre più movimenti pronti a sfidare apertamente il regime di Erich Honecker.
Quell’accelerazione si spiega con la perestroika che Michail Gorbaciov aveva avviato in Unione sovietica?
«Fu il combinato disposto di tre cose. Primo, la perestroika. Che significò anche che l’Urss rinunciò al suo potere sui Paesi satelliti.
Secondo, una leadership nella Ddr che non si mostrò più in grado di mantenere credibilmente il potere. Terzo, i movimenti di opposizione che accelerarono grazie alle prime due premesse».
Come mai Honecker fu l’ultimo - forse con l’unica eccezione del romeno Ceausescu - a capire la portata della rivoluzione di Gorbaciov? Perché si irrigidì fino alla fine?
«Penso che Honecker sia stato invece il primo a capire la perestroika, a comprendere che non sarebbe andata da nessuna parte. Ciò a cui aspirava Gorbaciov fallì: Honecker capì per primo che quel tipo di riforme liberali non erano compatibili con quel tipo di comunismo».
Ma se avesse capito le conseguenze politiche della perestroika non avrebbe dovuto aprirsi prima, come fecero ad esempio gli ungheresi?
«Honecker sapeva benissimo che la Ddr era un caso a parte. Con la caduta dei regimi in Polonia o in Ungheria, i Paesi sopravvissero. Le Germanie, all’epoca, erano due. La fine del regime avrebbe messo a rischio la sovranità della Ddr».
Ecco, la crudeltà del regime tedesco e la pervasività dei suoi famigerati servizi segreti, la Stasi, si spiegano anche col fatto che di là del muro c’era un altro pezzo di Germania?
«Esatto. Era l’eterna ipoteca sull’esistenza della Ddr».
A proposito di due Germanie. Facciamo un salto in avanti. Neanche tre settimane dopo la caduta del Muro, il 28 novembre, Helmut Kohl va al Bundestag e vagheggia una Germania unificata. Mezzo mondo cade dalla sedia. Cosa lo portò a quel colpo di genio?
«Kohl non è mai stato un intellettuale. Ma aveva istinto politico. Anche sull’Europa. Quando cadde il Muro, lui capì immediatamente che l’elefante nella stanza era quello: la riunificazione. Agì per non perdere il controllo.
Si mise a capo della rivoluzione. Altrettanto importante come il 28 novembre fu la sua visita a Dresda il 19 dicembre: i cittadini che lo acclamarono lì rafforzarono la spinta che portò alla rapida riunificazione».
Pensa che la cautela della Spd in quei mesi cruciali – dopo decenni di ostentata Ostpolitik – abbia contribuito al fatto che a Est non sia mai diventato un partito forte?
«Assolutamente. Non è mai riuscita a "scaldarsi" all’idea della riunificazione. Ma la Spd è anche stata "catturata" dai movimenti di opposizione.
E si è totalmente chiusa — come i Verdi — rispetto ai membri della Sed, del partito del regime. La Cdu di Kohl si è mostrata più flessibile. E le elezioni di marzo del 1990 hanno dimostrato che aveva ragione lui e che i movimenti di opposizione che tanto avevano fatto per buttare giù il Muro, non avevano la maggioranza nel Paese».
Ci sono decisioni di quei mesi - ad esempio il cambio 1:1 del marco dell’Est e dell’Ovest o l’adeguamento dei salari - che sembravano economicamente folli ma si sono rivelate politicamente inevitabili. O no?
«Sì, furono inevitabili. Sul mercato nero il marco dell’Ovest ne valeva otto o dieci dell’Est. E i salari della Ddr valevano un terzo di quelli dell’Ovest.
Pensi se si fosse scelto il cambio 1:2, il valore dei salari sarebbe crollato a un sesto. La grande emergenza, allora, era la migrazione di massa da Est a Ovest. Una decisione meno generosa avrebbe accelerato quell’esodo».
Come disse qualcuno la gente "votava con i piedi"… Allargando il campo all’Europa: come fece Kohl a convincere i tedeschi a rinunciare all’unico simbolo di potere che si erano concessi nel dopoguerra, il marco?
«Semplice. Non li convinse a rinunciare al marco: lo fece e basta. L’euro non è il prezzo della Germania per la riunificazione: è il prezzo per la sua forza economica in Europa già negli anni ’80. Alcuni cruciali passi verso l’euro erano stati intrapresi prima del 1989. Quelle tedesche furono concessioni ex post per la sua forza economica in Europa, il motivo per cui i francesi volevano l’euro e la banca centrale. E ricordiamocene: i tedeschi volevano prima la convergenza economica, poi la moneta. Prevalse la teoria opposta, francese ma anche italiana, che introdusse la moneta unica per poi sperare in una convergenza futura».
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