il manifesto 13.1.19
Esilio, totalitarismi, apartheid: scrittori e poeti a Stoccolma
Saggistica
letteraria. Da Anatole France e Yeats (anni Venti) a Herta Müller e
Svetlana Aleksievic, via-Brodskij, Soyinka, Pinter: i discorsi politici
dei Nobel per la letteratura, da Bompiani, a cura di Daniela Padoan
di Pasquale Di Palmo
«Il
ruolo dello scrittore non può separarsi da difficili doveri. Per
definizione, non può mettersi al servizio di quelli che fanno la storia:
è al servizio di quelli che la subiscono». Questa definizione di Albert
Camus, tratta dal «discorso del banchetto» allestito in occasione del
conferimento del Nobel nel 1957, può idealmente introdurre il volume,
curato da Daniela Padoan, Per amore del mondo I discorsi politici dei
Premi Nobel per la letteratura (Bompiani, pp. 592, € 18,00). Il titolo
rimanda, come osserva la curatrice, a «un “amore del mondo” che si
declina in quel mostrarsi in pubblico che già i greci videro come
proprietà della polis e che Hanna Arendt definì – mettendolo a
fondamento della sua Vita activa – l’attività più propriamente umana,
che sancisce la comune appartenenza allo spazio politico».
L’antologia
accoglie i più significativi discorsi di accettazione del premio dal
1901, anno di fondazione , a oggi, nelle versioni di vari traduttori,
privilegiando espressamente gli spunti di natura socio-politica a
discapito degli interventi concernenti il laboratorio alchemico degli
scrittori. Non è un caso che siano esclusi Montale, Eliot, Hamsun,
Saint-John Perse e Canetti che «imperniarono la lecture sulle proprie
scelte estetiche e poetiche». All’originario «discorso del banchetto» in
cui l’autore premiato doveva ringraziare l’Accademia di Stoccolma
descrivendo sinteticamente la propria poetica, subentrerà un più
articolato «discorso di accettazione» e, dal ’23 in poi, la tradizione
delle lectures. Non si entra nel merito dell’affidabilità di un premio
che, in questi ultimi decenni, ha mostrato tutta la sua palese
compromissione con il politically correct e una concezione anacronistica
dell’engagement, cadenzata oltretutto sulle variabili relative a genere
letterario e paese d’appartenenza del premiato piuttosto che
sull’effettivo valore di un’opera. D’altronde non bisogna dimenticare
che anche in passato erano frequenti abbagli a dir poco sconcertanti:
basti pensare a quegli autori di area scandinava che, persino agli occhi
del lettore più avveduto, costituiscono presenze ectoplasmatiche
(l’imprescindibile triade Kafka-Proust-Joyce rigorosamente bandita,
compresa la scheggia impazzita Musil). La Padoan parla al riguardo di
«esercizio collettivo di rimozione e afasia».
Ne è scaturito un
lavoro rigoroso che ripercorre, attraverso svariate testimonianze,
un’epoca di cambiamenti basilare come quella novecentesca, di cui
rappresenta una sorta di caleidoscopico compendium riguardante illusioni
e disillusioni, utopie e distopie, con «due guerre mondiali, dispotismi
nei cinque continenti, la bomba atomica e, infine, la moltiplicazione
di una tra le istituzioni più crudeli e mortifere che gli uomini abbiano
conosciuto, il campo di concentramento» (Paz). Si comincia con i
discorsi tenuti da Anatole France e W. B. Yeats rispettivamente nel 1921
e ’23 e si finisce con quelli di Herta Müller (2009) e Svetlana
Aleksievic (’15) che chiamerà in causa la metamorfosi dell’«uomo
pre-Cernobyl’» in «uomo post-Cernobyl’». Tra i due poli una nutrita
scelta di interventi che prendono in esame gli argomenti più disparati e
controversi (per aspera ad astra): dal tema dell’esilio affrontato in
maniera brillante da poeti come Brodskij e Milosz a quello del razzismo e
dell’apartheid toccato da Wole Soyinka e Nadine Gordimer, passando
attraverso il totalitarismo sfociato nell’orrore dei gulag staliniani
descritti da Solženicyn e dei campi di sterminio nazisti da cui non può
prescindere l’opera narrativa dell’ungherese Imre Kertész. Poco più di
un decennio fa Harold Pinter avvertiva: «Quel che ci circonda è un
immenso arazzo di menzogne, sul quale pascoliamo ignari».
Bisognerà
attendere il discorso di Faulkner nel 1949 per avere un riferimento
esplicito alla condizione di precarietà e di paura (le sinistre
ripercussioni del bagliore nucleare) in cui è irretito l’uomo moderno.
La curatrice stigmatizza: «Nel dicembre 1938, all’indomani della Notte
dei Cristalli e dell’infuriare dei pogrom nazisti, a ricevere il Nobel
fu la statunitense Pearl Buck, che parlò – incongruamente – di
letteratura cinese; nel 1939, a due mesi di distanza dall’invasione
tedesca della Polonia, fu scelto il finlandese Frans Eemil Sillanpää,
che non tenne alcun discorso. Nel dicembre 1944, mentre le operazioni di
sterminio degli ebrei d’Europa da parte dei nazifascisti giungevano
alla loro fase conclusiva, il Nobel per la letteratura andò al danese
Johannes V. Jensen, che parlò della classificazione delle specie di
Linneo e della teoria dell’evoluzione di Darwin». Thomas Mann, premiato
nel 1929, si limitava a fare il panegirico della madrepatria che «ha,
attraverso la sua poesia, mostrato grazia nella sofferenza»,
inconsapevole che di lì a qualche anno la sofferenza impartita a buona
parte dell’umanità non sarà sublimata da alcun tipo di grazia teutonica;
lo stesso scrittore fu costretto a vivere da esule il resto dei suoi
giorni per aver criticato, in una conferenza all’Università di Monaco,
quel regime che teorizzava «l’eliminazione dei “sottouomini”, degli
Üntermenschen» (Padoan). Quasimodo, sulla cui vittoria nel 1959 Emilio
Cecchi scrisse malignamente sul Corriere della Sera «A caval donato non
si guarda in bocca», contrappose la figura del poeta a quella del
politico, suscitando malumori nella stessa sinistra in cui militava.
Dettate
da motivazioni quanto mai differenti ma sostanzialmente simili nel
presentare il dissidio tra poeta e politico, si stagliano le
osservazioni di Brodskij contenute nel discorso Un volto non comune
(’87): «Una persona che sa leggere e scrivere, una persona istruita può
benissimo, dopo aver letto un libro o un libello politico, uccidere un
suo simile e magari provare, nell’ucciderlo, un’esaltazione dottrinaria.
Lenin era istruito, Stalin era istruito, e anche Hitler lo era; quanto a
Mao Zedong, lui scriveva addirittura versi. Ma tutti avevano una cosa
in comune; l’elenco delle loro vittime era infinitamente più lungo
dell’elenco delle loro letture». Il linguaggio creativo viene anteposto
al «lessico delle istituzioni» chiamato in causa da Derek Walcott, come
nel caso di I. B. Singer che nel ’78 riporterà la parte finale del suo
discorso in yiddish, lingua in cui si esprimeva al fine di
salvaguardarne la sopravvivenza dopo la catastrofe della Shoah. Lo
yiddish è considerato alla stregua di «una lingua di esilio, senza
patria, senza frontiere, priva del sostegno di un governo . Era la
lingua di martiri e santi, di sognatori e cabalisti, ricca di umorismo e
di memoria che il genere umano non potrà mai dimenticare».
Il
poeta irlandese Seamus Heaney osservò nel ’95: «Rendo merito alla poesia
per avermi dato la possibilità di questa passeggiata nello spazio. Le
rendo merito, immediatamente, per un verso che ho scritto molto di
recente rivolgendo a me stesso (e a chiunque altro volesse prestarvi
ascolto) un’esortazione: “cammina sull’aria, contro il tuo buon senso”».
Questo verso, confluito nella raccolta The Gravel Walks, diverrà
emblematicamente l’epitaffio inciso sulla tomba dello stesso Heaney.
L’egiziano Mahfouz si rivolse alla platea svedese in arabo. La
Szymborska elogiò «due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate».
Altri autori (Saramago, Toni Morrison) presero a pretesto il discorso
per sviluppare una sorta di apologo, come Doris Lessing che racconta di
una giovane madre dello Zimbabwe intenta a leggere avidamente un
frammento di Anna Karenina mentre aspetta la sua razione di acqua
potabile da portare nel villaggio in cui vive. Pablo Neruda, premiato
nel 1971, ricorda: «Vengo da un’oscura provincia, da un paese separato
da tutti gli altri da una geografia tagliente. Fui il più abbandonato
fra i poeti e la mia poesia è stata regionale, dolorosa e piena di
pioggia. Ma ho sempre creduto nell’uomo».