il manifesto 13.1.19
Le ragazze sporche e l’ingratitudine di Penolope
Letteratura
canadese. Con Il canto di Penelope, edito da Ponte alle Grazie,
Margaret Atwood recupera l’episodio omerico delle dodici ancelle
«traditrici» messe a morte da Ulisse: e ne rovescia, o complica, il
significato
di Rossella Pretto
Sceglie i prati
di asfodelo dell’oltretomba, Margaret Atwood, come fondale del suo Il
canto di Penelope (Ponte alle Grazie, pp. 153, euro 13,50) per dare (e
sottrarre) corpo alle parole della scaltra (più che bella) moglie di
Odisseo, consegnata alla storia per la granitica fedeltà al marito,
sbattuto per mari e condannato ad assaporare i piaceri di altri letti
prima di poter riposare in quello legittimo, in patria. Il suolo patrio,
appunto: quella madreterra ora declinata al maschile che fagocita il
preellenico mondo matriarcale a cui Atwood dà voce, attingendone la
differente versione dai Miti greci di Robert Graves, nel solco
Bachofen-Frazer.
Ripesca dunque il poco noto episodio contenuto
nel canto XXII dell’Odissea che narra l’impiccagione delle dodici
ancelle a cui Odisseo, dopo la strage dei Proci, impone la morte. Un
coro di donne (dodici: com’erano, prima di Sofocle, i coreuti della
tragedia greca) incolpevoli, secondo la proposta di Atwood (non quella
omerica). Incolpevoli perché devote a Penelope, che le usa come orecchie
sulla casa e sugli intrighi che vi si ordiscono; incolpevoli perché,
non per lascivia, ma per obbedienza a lei e al suo piano, si concedono
agli usurpatori. Un coro ancillare che infine si trasforma in coro di
Erinni assetato di giustizia.
Questa Penelope, che non manca di
suscitare simpatia ed empatia, e nei cui panni si è calata come attrice
protagonista anche Atwood (nel reading/musical del 2005 di Phyllida
Lloyd, al St James di Piccadilly), esprime però anche il lato più
torbido dell’invidia (verso Elena e la sua bellezza: causa di quella
guerra che le ha sottratto il marito) e dell’ingratitudine verso chi, in
nome suo, si consegna all’estremo sacrificio; ultima forma di riscatto
delle ancelle, confinate e destinate da sempre a un ruolo subalterno,
quello di femmine sporche: «La sporcizia era la nostra preoccupazione,
era il nostro mestiere, era la nostra specialità, la sporcizia era la
nostra colpa. Eravamo le ragazze sporche».
Dall’Oltretomba
Penelope può raccontare la verità o una versione personale e in parte
depurata – non quella dirompente della Medea di Christa Wolf né quella
dell’amorosa Timandra di Kallifatidis e neanche quella dell’accorata ma
ormai sciupata Penelope delle Eroidi ovidiane. La versione di Atwood è
ambigua, velata, come velata è sempre la Penelope omerica quando entra
in scena, ma con l’ulteriore riscatto della risata beffarda che si
concede dietro la protezione del velo. E colpisce per la sua ormai salda
capacità di padroneggiare astuzia e menzogna in una specularità con
Odisseo che li vede entrambi abili a cucire un racconto alternativo.
Anche
Penelope è stata infedele? Secondo Atwood, o meglio secondo la versione
che ne dà Apollodoro e che la scrittrice sembra scegliere, sì. Non è
mai lei ad affermarlo – è il coro semmai che lo rivela – eppure ne
suscita il più che fondato sospetto: «Eravamo – lo ammettevamo noi
stessi – due esperti e spudorati bugiardi ormai da molto tempo. Ed è
strano che ciascuno abbia creduto ciecamente alle parole dell’altro.
Eppure è così. O così ci siamo detti».
Qual è dunque la verità,
qual è la verità nel matrimonio? Javier Marìas, nel magistrale Un cuore
così bianco, elegge il matrimonio a «istituzione narrativa» per
antonomasia. Il racconto, ciò che si dice, e il silenzio, il segreto,
fanno sempre la differenza. E qui ci sono donne che parlano e altre che
tacciono. Così come Atwood aveva già evidenziato, vent’anni prima, ne Il
racconto dell’ancella (di cui si aspetta il seguito per settembre
2019): lì Difred e le compagne usavano la parola, e i loro corpi, come
denuncia, mentre le mogli acconsentivano allo stupro standosene zitte.
È
vero che qui il racconto è prerogativa di Penelope, che è donna che
parla, ma quella parola più spesso usa come il dito puntato
dell’accusatore che si discolpa. La stessa tattica usata da un’altra
eroina (euripidea, prima di tutto): Fedra, che così facendo condanna
l’innocente Ippolito, lei donna schermata da veli pesanti come gravami,
lei paradosso vivente, strangolata dalla doppia origine tellurica e
solare condensata in quella felice espressione della flamme si noire di
Racine.
Solo una suggestione, un gioco da galleria di specchi
deformanti, perché quello del giansenista Racine non è il mondo della
Atwood dove gli dèi, se esistono, sono più spesso utilizzati come scudi
per giustificare comportamenti fin troppo umani, per disinnescare la
carica esplosiva della rivelazione. Rivelazione che è qui invece
affidata al coro delle ancelle, le fanciulle, le innominate che hanno in
sé l’innocenza e la malizia dei bambini, e tutta la potenza sovversiva
(e satiresca) del mito: «Considerateci un puro simbolo», dicono. «Noi
siamo vere quanto il denaro».
Atwood, come sempre, non proclama
una verità univoca, non sentenzia su punti di vista e vissuti, li
racconta, tesse e disfa la sua tela perché un occhio esterno possa
scorgerne il disegno e, se non giudicare, comprendere l’aspetto
multiforme della natura umana, come multiforme è l’ingegno di Odisseo.