venerdì 11 gennaio 2019

il manifesto 11.1.19
Il 2018 dei lavoratori in Cina fa emergere la necessità di sindacati indipendenti
Cina. L'unico denominatore comune in quasi tutte le proteste del 2018 da parte di insegnanti, operai, camionisti, operai edili, è l'assenza di un forte sindacato sul posto di lavoro che possa impedire ai datori di lavoro di violare la legge sul lavoro e, a allo stesso tempo, capace di aiutare i lavoratori a migliorare la loro retribuzione e le condizioni di lavoro attraverso la contrattazione collettiva con la direzione
di Simone Pieranni


Negli anni scorsi il tema dei lavoratori in Cina era uno di quelli più richiesti dalla stampa internazionale. I motivi erano di diverso tipo: da un lato il successo cinese e la capacità di sfornare un numero di miliardari che ormai supera quello in America, rendeva necessario ricordare anche le diseguali condizioni nel colosso cinese.
Una seconda motivazione era data dall’atteggiamento più generale che i media internazionali avevano nei confronti della Cina: vivendo il progresso cinese come una minaccia, era necessario ricordare sempre i lati più negativi e oscuri di questa incredibile progressione. Si scrisse e si analizzarono a lungo le condizioni dei lavoratori migranti, le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti della Foxconn e altre aziende che basano il successo dei propri fatturati su ritmi di lavoro altissimi e salari bassissimi. Nel tempo, naturalmente, la condizione di molti lavoratori in Cina è migliorata, così come è cambiata la narrazione del gigante asiatico.
L’ingresso del paese nella politica internazionale con una postura ben più decisa rispetto al passato, ha finito per attirare maggiori attenzioni alle mosse geopolitiche della Cina: tutto quanto accade all’interno del paese è passato in secondo piano.
A questo va aggiungo un altro fattore, proprio della Cina contemporanea: la “Nuova era” di Xi Jinping richiede un paese meno dipendente dalle esportazioni e più dinamico sui servizi e il mercato interno. Un trend in atto fin dal 2009 con Hu Jintao e che Xi Jinping non ha fatto che accelerare. Il piano quinquennale targato Xi – il tredicesimo e sulla balestra temporale che va dal 2016 al 2020 – si pone dieci obiettivi da realizzare, tra cui il primo, il sommo, obiettivo del “Sogno cinese” di Xi Jinping, raddoppiare il reddito individuale dei cinesi.
Si prevede una crescita al 6,5 (confermata dai dati più recenti), si punta ad aumentare il peso del terziario dal 50, al 56%, contenere il il totale di energia consumata entro 5 miliardi di tonnellate di carbone, espandere la rete ferroviaria ad alta velocità fino a 30mila chilometri, realizzare 50 nuovi aeroporti.
Unitamente al piano quinquennale c’è il progetto simbolo della «nuova era» di Xi Jiping: “Made in China 2025”, con il quale la Cina punta a diventare una «potenza» manifatturiera mondiale. Più qualità, meno quantità, robotica, automazione, intelligenza artificiale, più prodotti di alta qualità tecnologica esportata; aumento della produzione di semiconduttori e minore dipendenza dall’importazione di tecnologia dall’estero.
Siamo di fronte alla fine della “fabbrica del mondo”, e all’inizio dell’epoca con la Cina leader nel mondo dell’alta tecnologia. E i lavoratori? In questa nuova narrazione della Cina, che si registra anche in Italia dove spesso il gigante asiatico viene rappresentato come un paese ormai avanzato, dimenticandosi di tante delle sue contraddizioni, mancano ancora una volta gli operai. Eppure ci sono, eccome.
Intanto sono ancora milioni di persone. In secondo luogo, ancora oggi, protestano per ottenere migliori diritti e condizioni di lavoro. In questi giorni il China Labour Bulletin, una ong di Hong Kong, ma creata da un ex sindacalista cinese, che da tempo monitora le questioni legate al lavoro in Cina, ha pubblicato un report sullo stato dell’arte nel 2018.
Bisogna fare una precisazione: negli ultima anni è il salario minimo in Cina è aumentato, ma in modo differente da regione e regione; solitamente si prende come misura quella di Shanghai, dove negli ultimi anni è aumentato e non di poco passando da 2.300 yuan – ad esempio – nel 2017 a 2.420 yuan nel 2018.
Ma bisogna fare una precisazione, come riportato dal China Labour Bulletin: “Il salario minimo è aumentato costantemente nell’ultimo decennio, ma ci sono sostanziali differenze regionali e non ha tenuto il passo con l’aumento del costo della vita, specialmente nelle grandi città. Il divario tra ricchi e poveri in Cina continua a crescere e, nonostante le politiche governative di vecchia data per ridurre la povertà, il divario tra città e campagna rimane presente”.
Fatta questa precisazione, nel 2018 il Clb ha rilevato un numero ancora alto di proteste, benché più frammentate sul territorio. Spicca il settore dei trasporto, sottoposto a manifestazioni di grande portata, così come le motivazioni per la gran parte degli scioperi, ovvero il mancato pagamento dei salari. Gli scioperi e le proteste quasi sempre avvengono all’interno di aziende private o senza sindacato, favorendo la proprietà nella gestione completamente arbitraria della propria forza lavoro. Il caso dei lavoratori della Jasic, che ha finito per attirare la solidarietà anche di studenti e componenti maoiste della società, è un buon esempio della tipologia di lotte che ha caratterizzato la Cina.
Come conclude il report di Clb: “L’unico denominatore comune in quasi tutte queste proteste da parte di insegnanti, operai, camionisti, operai edili, è l’assenza di un forte sindacato sul posto di lavoro che possa impedire ai datori di lavoro di violare la legge sul lavoro e, a allo stesso tempo, capace di aiutare i lavoratori a migliorare la loro retribuzione e le condizioni di lavoro attraverso la contrattazione collettiva con la direzione”.
Il report si può leggere, in inglese, qui.