venerdì 11 gennaio 2019

il manifesto 11.1.19
Rosa Luxemburg e Antonio Gramsci a confronto
A Roma, giovedì 17 gennaio, un seminario organizzato dalla IGS
di Guido Liguori


Giovedì 17 gennaio, a partire dalle ore 15 fino alle 19, la International Gramsci Society Italia (Igs Italia) organizza un seminario presso l’Aula Volpi del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre (via del Castro Pretorio 20, presso la stazione Termini) dedicato ai rapporti teorico-politici tra la vita e il pensiero di Rosa Luxemburg e Antonio Gramsci. Porteranno i loro saluti Massimiliano Fiorucci (direttore del Dipartimento) e Carmela Covato (Cesme – Centro studi sul marxismo e l’educazione). Alla relazione, dal titolo Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg: consonanze e differenze (che sarà svolta da Guido Liguori, ndr), seguiranno gli interventi di due discussant, Lelio La Porta e Chiara Meta, e poi la discussione aperta a tutto il pubblico presente.
La Igs Italia ha voluto dedicare il primo dei suoi incontri del 2019 al rapporto tra Gramsci e Luxemburg sia per onorare la rivoluzionaria polacca nel centenario del suo barbaro assassinio, sia per mettere a fuoco un tema non molto dibattuto, quale il raffronto tra due pensatori che appartennero a epoche diverse della storia del movimento operaio organizzato del Novecento (Rosa venne uccisa nel pieno della sua maturità, quando il giovane sardo era meno che 26enne), ma tra il cui pensiero è possibile cogliere diversi elementi di vicinanza, insieme ad altri di diversificazione.
La lotta contro il positivismo e il moderatismo di matrice kautskiana caratterizzò infatti le posizioni di entrambi, insieme alla comune attenzione alla soggettività delle masse e all’esperienza consiliarista. Diverso fu invece il loro posizionamento di fronte all’Ottobre: solidale ma critico quello di Rosa, di entusiastica adesione quello di Gramsci. Una differenza destinata a pesare e ad allontanare più tardi Gramsci dal lascito della rivoluzionaria polacca.

il manifesto 11.1.19
L’alienazione come concetto da ridiscutere
A proposito dell'ultimo numero di «La società degli individui», a cura di Ferruccio Andolfi e Giovanni Sgro’
di Marco Gatto


Il quadrimestrale di filosofia e teoria sociale La società degli individui dedica il suo ultimo numero a una rilettura del tema dell’alienazione depositato in quel testo tanto importante quanto discusso che è la raccolta dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Karl Marx. Ferruccio Andolfi e Giovanni Sgro’, nelle pagine introduttive, spiegano perché sia necessario ripensare adeguatamente il Marx umanista, dopo una lunga stagione che, da più versanti, ha inteso ribadire la centralità del Marx scienziato dell’economia, allestendo così una scissione assai problematica nell’opera del Moro che è alla base anche del più recente dibattito storiografico e filosofico. Per i curatori, che si riallacciano a una più generale ripresa del concetto di alienazione proveniente da pensatori quali Axel Honneth e Rahel Jaeggi, ma che ne considerano la problematicità sia nel suo crinale critico-negativo, sia in quello propositivo di ripensamento della centralità individuale, gli attuali «fenomeni di spossessamento del sé continuano ad attirare l’attenzione anche dopo il superamento delle ingenuità utopico-essenzialiste» ormai date per scontate nel cammino riflessivo di Marx.
DEL RESTO, se è vero che il capitalismo contemporaneo produce forme di vita devote alla superficie o a uno sradicamento del concreto verso i registri distorsivi dell’astratto, che sovente sposano l’interezza delle retoriche neoliberali sul lavoro, una riflessione sulle nuove modalità di estraneazione sembra farsi all’ordine del giorno. Quelle oggi concepite come patologie sociali possono comunque definirsi attraverso concetti che rappresentano una dislocazione, una dissociazione dell’individuo dall’ambiente sociale, e dunque un suo autonomizzarsi dai legami; nello stesso tempo, questo distacco presuppone, per alcuni, una positiva esperienza critica e dunque l’apertura a una nuova modalità di conoscenza ed esperienza: una doppia accezione, insomma, che rende problematico il quadro filosofico legato al concetto di alienazione.
IL NUMERO è assai denso; i contributi – a firma di Mario Cingoli, Marcella D’Abbiero, Enrico Donaggio, Roberto Fineschi, Paulo Denisar Fraga, Stéphane Haber, Stefano Petrucciani, Eleonora Piromalli, Yvon Quiniou, Emmanuel Renault e Massimiliano Tomba – problematizzano le questioni rilevandone diversi gradi di prospettiva; non manca una riflessione, allestita da Sgro’, sull’interpretazione che dei Manoscritti avevano offerto Herbert Marcuse ed Erich Fromm, dei quali il numero presenta due scritti sul materialismo storico e sul socialismo. È ovviamente legata a questa riconsiderazione critica del Marx umanistico la proposta, messa in campo ancora da Andolfi e Sgro’, di una nuova edizione commentata dei Manoscritti, appena uscita presso l’editore Orthotes, e calibrata sulla nuova Marx-Engels-Gesamtausgabe, con un testo di accompagnamento assai puntuale che guida la lettura passo dopo passo.

Il Fatto 11.1.19
“Gilet gialli, M5S vuole ritrovare l’innocenza persa con Salvini”
Intervista a Marco Revelli
Marco Revelli, figlio del partigiano-scrittore Nuto, è sociologo, politologo e storico
“Ai francesi l’Italia non sta simpatica e i grillini sottovalutano il carattere nazionalista”
di Silvia Truzzi


“Mi stupisce lo stupore”, spiega Marco Revelli riferendosi all’accoglienza ricevuta dalle dichiarazioni del ministro Di Maio a proposito dei gilet jaunes. “Mi sembra naturale che i 5Stelle cerchino di accreditare una fratellanza con i gilet gialli. Può restituire loro un po’ della freschezza perduta: in pochi mesi di governo hanno dilapidato buona parte della loro carica di protesta. In Francia emerge un movimento ambivalente e contraddittorio, che tuttavia esprime una rivolta sociale politica dal basso e per certi aspetti ricorda il radicalismo delle origini dei 5Stelle. Come può stupire l’interesse del capo politico dei grillini? È evidente che non può che fargli bene intercettare un po’ del vento di protesta”.
Un’unione possibile? I leader dei gilet jaunes danno risposte contraddittorie.
Mi pare che i grillini sottovalutino il fatto che i populismi di nuova generazione sono attraversati da forme più o meno esplicite di nazionalismi o radicamento nazionale che li rendono poco compatibili con alleanze trasversali, se non con operazioni di assemblaggio di mosaici molto traballanti. Si aggiunga che ai francesi l’Italia non è simpatica. I gilet gialli non hanno interesse a imparentarsi con una forza politica che perde progressivamente la spinta propulsiva originale.
Andare al governo fa sempre perdere l’innocenza, no?
Certo. Ma che i 5Stelle la perdessero con tanta rapidità e lasciandosi divorare dal socio di minoranza non era così scontato. Oggi, davanti all’impoverimento della componente sociale della politica del governo, si risponde accentuando la disumanità del programma securitario e xenofobo: l’avevamo messo in conto ma non in questa dimensione. La cifra del governo gialloverde è l’ostentazione del disumano, più che la tutela dei diritti sociali.
È ragionevole immaginare che in vista delle elezioni europee i 5Stelle cerchino alleanze fuori dai confini nazionali. Di Maio ha detto di aver incontrato i polacchi del Kukiz’15, i croati di Zivi zid e i finlandesi di Liike Nyt.
Sì, ma teniamo separate le due questioni. I gilet gialli sono a livello europeo il fenomeno più interessante degli ultimi mesi, per tenuta ed estensione. Sono la vera spina nel fianco di una tecnocrazia europea incredibilmente sorda e cieca. È così stupido ridurre il movimento alle sue ali estreme, black bloc e casseur che ci sono, ma non sono certamente la componente determinante. Il guaio è che non si è ancora preso coscienza del fatto che nel secondo decennio del nuovo secolo non esistono conflitti sociali puliti. Qualsiasi conflitto sociale si apra è attraversato da ambivalenze, da rivendicazioni che erano state tradizionalmente della sinistra sociale e da altre forme di chiusura che appartengono alla destra.
Perché accade questo?
Perché si è scomposta la struttura di classe della società, le culture politiche sono state dismesse e le ideologie non aggregano più. Io continuo a considerare salutari i conflitti, quelli non cruenti naturalmente, perché una società senza conflitti è morta, è una palude senza vento. La democrazia si alimenta di conflitti sociali. E oggi il conflitto è ambiguo: questo significa che chi è affezionato alla democrazia non può né liquidarli né demonizzarli. Certo, sono politicamente molto difficili da gestire perché non hanno una natura costituente, ma destabilizzante nei confronti del potere. E il potere francese, Macron, merita di essere esserlo.
C’è molta differenza tra l’espressione del dissenso in Italia e Oltralpe. Si dice che i francesi sanno fare le rivoluzioni e noi no, ma contemporaneamente loro non molto tempo fa hanno votato un Manchiurian candidate e qui invece hanno vinto le forze anti-sistema.
Il voto a Macron ha due forti connotazioni: da una parte l’esprit republicain che ha impedito a molti di votare Marine Le Pen, e dall’altra parte il messaggio di discontinuità con il passato lanciato da Macron che ha generato un’illusione di cambiamento. Un sogno che per la maggior parte dei francesi è svanito: sono rimasti a sostenerlo i ceti affluenti, Macron è davvero les président des riches. Un monarca con la puzza sotto al naso rispetto al suo popolo.
Cosa pensa dell’Internazionale della democrazia diretta, evocata da Di Maio?
Mi pare una boiata pazzesca, come direbbe Villaggio. La strategia europea di Di Maio mi sembra difficilmente praticabile. Questi movimenti di protesta dal basso non sono facilmente articolabili su scala politica. Lasciando da parte i finlandesi di Liike Nyt, che sono davvero altra cosa, i croati e i polacchi che Di Maio vorrebbe riunire in un ipotetico eurogruppo sono, e qui scomodiamo invece Cochi e Renato, tacchi dadi e datteri. I polacchi sono una formazione conservatrice con un programma di estrema destra. I croati di Zivi zid sono un gruppo che ha come programma politico la difesa degli ultimi e come obiettivo impedire gli sfratti. Non si capisce cosa c’entri con i polacchi o i finlandesi che sono un movimento iperliberista. Mi pare un’accozzaglia di forze che hanno come comune denominatore solo qualche riferimento movimentista.

Corriere 11.1.19
«Foreign policy»
Il fisico Rovelli tra i 100 pensatori più influenti
di Anna Meldolesi


Nella lista dei 100 pensatori e intellettuali più influenti pubblicata da Foreign Policy c’è il fisico italiano Carlo Rovelli, firma del Corriere. Indicato anche perché ha scelto come lettori di riferimento le persone comuni.
Leader e attivisti, intellettuali e innovatori, visionari. E ora anche un fisico teorico che ha fatto appassionare alla scienza di frontiera milioni di persone. Ogni anno Foreign Policy pubblica la sua lista dei 100 pensatori che hanno lasciato il segno. L’elenco completo del 2019 non è ancora noto, ma sappiamo già che Carlo Rovelli è uno dei cento prescelti, ed è in ottima compagnia. «Sono sorpreso, non me lo aspettavo», ci ha detto lo scienziato, con una nota di allegria nella voce.
La scheda con cui Foreign Policy lo presenta sottolinea che, a differenza di tanti colleghi, il fisico italiano ha scelto come lettori di riferimento le persone comuni. Il suo merito nell’ultimo anno, in particolare, è di aver cambiato il modo in cui intendiamo il concetto di tempo. Nel libro intitolato L’ordine del tempo spiega quanto sia ingannevole la nostra esperienza. Come il sole che sembra roteare nel cielo, mentre siamo noi a girare. Come la Terra che sembra piatta e invece è una sfera. Rovelli solleva uno dietro l’altro i veli che avvolgono l’essenza del tempo, che non è unico, non scorre come un fiume, non è intrinsecamente ordinato in passato, presente e futuro. È stratificato e complesso in un modo che sfida la percezione comune.
Avvicinare il mondo alla consapevolezza della complessità, dunque, è l’impresa che gli è valsa il titolo di global thinker . Ma un’altra motivazione valida sarebbe stata che tanti ragazzi stanno decidendo di dedicarsi alla fisica dopo aver letto i suoi libri, come era accaduto con i best-seller di Stephen Hawking. Le sue Sette brevi lezioni di fisica sono state tradotte in oltre 40 lingue. «L’unica opera italiana che batte questo record è Pinocchio», ci rivela con un pizzico di ironia. Gli chiediamo perché piace tanto. «Per motivi differenti», risponde.
In Italia è molto amato per lo sguardo che ha sulla vita. Il libro sul tempo, ad esempio, lo chiude riflettendo sulla finitezza dell’esistenza umana. «Negli Usa sono interessati all’aspetto della divulgazione. In Gran Bretagna piace l’intreccio tra le prospettive scientifica, storica, filosofica e letteraria. Forse perché lì è ancora più netta la separazione tra scienza e cultura umanistica».
Uno dei suoi doni è la naturalezza con cui attraversa i confini, anche tra Oriente e Occidente. «Sono molto affezionato al mio primo libro. È sul filosofo greco Anassimandro ma parla di cultura, politica, di cosa significa capire, incontrarsi, fare scienza. Tanti miei scritti hanno un sottinteso politico». Gli domandiamo se ha un messaggio di cui vuole farsi ambasciatore ora che è una delle menti più influenti del pianeta. Esita un attimo, poi cita la raccolta degli articoli che ha pubblicato per il Corriere ( Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ). «Sono preoccupato per lo scenario globale, non solo per l’Italia. Stiamo precipitando verso un’aggressività crescente e reciproca, popoli contro popoli, persone contro persone». Il messaggio che ci consegna è un invito alla gentilezza.

Corriere 11.1.19
Liceo classico, aiuto pratico per affrontare la complessità
di Paolo Conti


In una contemporaneità dominata dall’usa e getta, da una comuni-cazione in tempo reale che predilige i rapidissimi slo-gan e la sintesi dell’ingle-se, da una insofferenza in-tellettuale per tutto ciò che richiede tempo e applica-zione, il liceo classico (che oggi dalle 18 alle 24 in 433 istituti italiani celebra la quinta edizione della sua «Notte nazionale» con spettacoli, concerti e di-battiti) ha una sua eviden-te, oggettiva e quindi scan-dalosa «inutilità pratica». Studiare il greco e il latino, che tecnicamente appar-tengono alle cosiddette lingue morte, appare qua-si come una retrograda sfi-da alla globalizzazione dei linguaggi. E chi si iscrive può anche compiacersi di tutto questo, ma sbaglie-rebbe l’approccio. Non c’è, al contrario, nulla di più contemporaneo e attuale di un allenamento alla complessità, proprio co-me risposta a chi vorrebbe indirizzare le nuove gene-razioni verso una sempli-ficazione destinata a pro-durre incapacità critica, sottraendo ai cittadini del Terzo Millennio i necessa-ri strumenti. Molti giova-ni, e le loro famiglie, se ne stanno accorgendo: le iscrizioni del piccolo ma tenace drappello dei clas-sicisti sono in crescita, e non si tratta certo di impo-sizioni dei genitori ma di scelte consapevoli. Si po-trebbe giocare sulla retori-ca, ricordando come molti e decisivi economisti sulla scena mondiale (un nome tra i mille possibili, Mario Draghi, attuale presidente della Banca centrale euro-pea) hanno alle spalle soli-dissimi studi classici, pri-ma dell’ingresso nelle fa-coltà specializzate nella loro materia. O che molti manager che si occupano di gestione delle risorse umane sono laureati in fi-losofia, e quindi maneg-giano ovviamente greco e latino. Ma sono punte di diamante. La verità più quotidiana e accessibile, ascoltando ragazze e ra-gazzi usciti dai licei classi-ci italiani, è la percezione di sentirsi cittadini del mondo proprio per l’universalità della conoscenza acquisita, per l’opportunità di aver scavato nelle radici stesse della civiltà occidentale (e non solo), di aver studiato un passato senza il quale proprio la contempora-neità apparirebbe indecifrabile. Non è questione di aoristo o di consecutio temporum: il punto è quella famosa «ginnastica mentale» che ti abitua ad affrontare gli appuntamenti con la comprensione e l’analisi delle difficoltà della vita. Un’astrazione? Macché: un metodo molto più pratico di quanto non si possa pensare. Da utilizzare ogni giorno per aprirsi le strade verso il futuro.

Il Fatto 11.1.19
Affondo dell’Anm: “La legittima difesa legalizza l’omicidio”
di Antonella Mascali


L’Anm è radicalmente contro la legge sulla legittima difesa che incentiva la pistola facile. Secondo il presidente dell’associazione dei magistrati Francesco Minisci legittima l’omicidio ed è in parte incostituzionale. Lo ha detto ieri in Commissione Giustizia della Camera: “Senza il principio di proporzionalità si legittimerebbero anche i reati più gravi, come l’omicidio”. Minisci mette in rilievo come non ci sia bisogno di modifiche: “La tutela rafforzata all’interno di casa propria o nel proprio negozio ce l’abbiamo già dal 2006, quando è stata introdotta la presunzione di proporzione”. Spiega come non ci sia alcuna emergenza di sicurezza o di colpevolizzazione degli aggrediti: “Nella maggioranza dei pochi casi di cui ci occupiamo, quasi il 100%, noi pm chiediamo l’archiviazione e il gip archivia. In questi casi non c’è alcun processo” ma è fondamentale il vaglio del giudice: “Evita automatismi. Non può bastare la parola dell’aggredito per escludere un procedimento penale”. E a chi parla di una legge che ricalca lo schema francese chiarisce: “In Francia si può sparare ma non uccidere” e l’Italia, invece, è già oltre con la legge attuale.

Il Fatto 11.1.19
Peppone ora è liberal. E don Camillo soviet
di Pietrangelo Buttafuoco


E poi dice che uno si butta col contrappasso.
Il Compagno Don Camillo non ha che Mosca, e così Peppone – fedele alla linea CCCP – deve invece scapparsene dalla Russia perché il suo stato guida è ormai l’indefinito Occidente delle transazioni bancarie, cosmopolite e liberiste. La guerra tra i nemici della società libera – quelli del partito russo in Europa – e i suoi difensori si gioca all’ombra del doppio incrocio dell’isolazionismo Usa voluto da Donald Trump e dalle trame informatiche della Russia.
Ne ha parlato, con la consueta e sapiente perizia, Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di martedì mettendo in fila i tre argomenti incombenti oggi: la Casa Bianca che rinuncia alla guardiania sul mondo “libero”, la crisi dell’Unione europea e le insorgenze populiste nel dappertutto illiberale. Non è certo il caso di Panebianco, quello di inciampare nella russofobia, ma un’omissione – una dimenticanza – c’è ed è in un dettaglio: la Russia, al pari dell’Inghilterra, è una potenza europea. Lo è culturalmente, storicamente e anche – oltre a condividere con la Gran Bretagna il retaggio imperiale – nella sua intima vocazione. Non fosse altro per lo spirito russo che ha consentito a un popolo con oltre cento milioni di martiri – cento milioni di morti in settant’anni di materialismo ateo e scientifico – di restituirsi alla luce e sopravvivere alla più perfettamente architettata tra le dittature del totalitarismo novecentesco. Quella stessa macchina ideologica che consente ai suoi devoti supporter di appena ieri – Giorgio Napolitano su tutti – di apparire oggi tra i campioni del liberalismo, difensori, appunto, della “società libera” e nemici del partito russo in Europa. Ed è il pieno contrappasso perché davvero il manesco parroco della Bassa creato dal genio di Giovannino Guareschi solo oltre gli Urali troverebbe oggi chiese piene di fedeli e vive di fede. Sono quelle stesse visitate in incognito, trasformate in granai al tempo in cui un Napolitano – il Peppone in loden e borsalino – si schierava coi carrarmati dell’Armata Rossa contro la libertà d’Ungheria (lo stesso tempo in cui Vladimir Putin, futuro colonnello del KGB, veniva battezzato in clandestinità, quando si dice il contrappasso…). E avrebbe, don Camillo, molti più fedeli al seguito del suo Crocefisso nella terra redenta da Cirillo e Metodio. E ne avrebbe in maggior numero di quanti ne possa recuperare dall’alto del suo pulpito reso afono nell’Europa delle cosiddette “radici cristiane”, quella di oggi; mentre a Peppone – ritrovatosi liberal, senza più la Colomba della Pace disegnata dal tovarich Picasso – non resta altro pennuto che il tacchino del Thanksgiving di casa Clinton, e altra internazionale non può disporre che la globalizzazione. Una civilizzazione perfino missilistica se l’unica mistica perseguita dalla sinistra bohémien, oggi, è quella di raddrizzare il legno storto dell’umanità perché, si sa, se tu non vai dalla democrazia è sempre la democrazia a venire da te. Quando si dice la cara, vecchia e sempreverde Dottrina Bush, l’estremo Eden prima della caduta nell’isolazionismo imposto da Trump che, manco a dirlo, va a far dispetto a Hillary, a Barack e a tutto il cucuzzaro liberal ritirando le truppe Usa dalla Siria.
Ed è l’incombere del contrappasso. Certo, resta sempre il famoso fatto, anzi, la domanda delle domande: se non esiste più l’Unione sovietica perché mai c’è ancora la Nato, l’alleanza atlantica delle nazioni in allerta sulle mosse del Cremlino, forse perché – come col fascismo – si porta molto l’anticomunismo in assenza di comunismo, giusto a cercarlo in Russia dov’è ridotto al lumicino del folclore?
Non è appunto il caso di Panebianco la cui onestà intellettuale è fuori discussione.
L’illustre politologo coltiva una sua scelta di campo – la società libera – senza cedere al sentimento russofobo ben presente nella chiacchiera pubblica.
Un’avversione verso ciò che la Russia, liberandosi dall’incubo dei Gulag, ha svelato di essere: un’idea di stare al mondo ancora una volta dostoevskiana.
È l’affermazione con cui Dostoevskij, nel 1854, dichiarava il di più che è proprio dei russi: “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori delle verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”.
Ciò che alimenta la russofobia dei perbenisti non è neppure l’indole muscolare di Putin ma proprio questo tratto identificativo e sacrissimo del popolo russo che si fa vanto altresì della più numerosa comunità islamica su suolo europeo, come della remota impronta del lamaismo su cui ben poco può fare il nostro punto di vista, geograficamente strabico e storicamente, e culturalmente, infine, vocato a una sola destinazione: il contrappasso.
Il loro Buio a mezzogiorno è tornato luce. Ed è notte solo per noi.

Repubblica 11.1.19
Il ricorso sulla manovra
Consulta, no al Pd e avviso al governo: basta forzature
di Liana Milella


Dalla Consulta arriva un avvertimento, con tanto di minaccia, al governo gialloverde, ma una stilettata colpisce pure il Pd. M5S e Lega, pena una futura bocciatura di costituzionalità, non potranno più imporre voti parlamentari, anche di fiducia, senza garantire i necessari spazi di esame. Com’è avvenuto con la manovra. Il Pd perde la scommessa del conflitto d’attribuzione perché la Corte lo dichiara "inammissibile". Ci guadagnano i parlamentari: ognuno potrà presentare un conflitto se ne vede le ragioni.
Cinque ore di camera di consiglio. Voci su una possibile "vittoria", anche in larga misura negli equilibri tra i giudici, per il conflitto sollevato da 37 senatori del Pd e sottoscritto da illustri costituzionalisti (da Onida a Caravita di Toritto). Poi, alle 18, una nota stampa spegne gli entusiasmi. La discussione aperta dalla relatrice e vice presidente della Corte Marta Cartabia, dopo gli interventi di tutti i presenti, si chiude con un deciso "niet" per il Pd. Perché è vero che i lavori sulla manovra sono stati strozzati nei tempi, ma a provocarlo sono stati «una serie di fattori derivanti da specifiche esigenze di contesto e da prassi parlamentari ultra decennali». La Corte entra addirittura nel merito quando dice «di non riscontrare quel livello di manifesta gravità denunciato che potrebbe giustificare il suo intervento».
Una decisione che solleva dubbi tra i costituzionalisti. Ecco l’ex presidente Ugo De Siervo: «È una strana decisione: da una parte afferma che i singoli parlamentari possono sollevare conflitto, ma subito dopo dice che il ricorso è inammissibile perché le violazioni procedurali non sarebbero manifestamente gravi. Ma allora non si capisce se la Corte si è fermata solo sul piano procedurale oppure è entrata discutibilmente nel merito della decisione». Di «qualche perplessità» parla anche l’ex presidente Giovanni Maria Flick. Perché la Corte «sembra dare un giudizio di merito sull’esistenza del conflitto invece di limitarsi a valutarne l’ammissibilità oggettiva in via preliminare.
Con un metodo già usato sul fine vita, dà così una specie di avviso ai naviganti sulla incostituzionalità di una legge approvata in questo modo».Il costituzionalista all’università Roma Tre Alfonso Celotto guarda alle conseguenze pratiche: «Come diceva Arturo Carlo Jemolo le Corti devono leggere il diritto con gli occhiali della politica. In questo caso la Consulta dimostra di essere saggiamente prudente. Salva, malgrado tutto, la legge di bilancio 2019, ma chiarisce che la procedura del maxi emendamento con fiducia senza alcun tempo né di discussione né di esame è una prassi costituzionalmente intollerabile e quindi da non ripetere mai più».

Repubblica 11.1.19
Domani al Cinema Nuovo Sacher di Roma
Parole antifasciste per i cronisti dell’Espresso aggrediti
di g.c


ROMA. I giornalisti dell’Espresso erano lì per raccontare, informare, documentare la cerimonia dei neofascisti in memoria dei morti di Acca Larentia e «di tutti i camerati assassinati sulla via dell’onore » . Ma per i capi e capetti dell’estrema destra italiana e romana non dovevano fare il loro lavoro di cronisti: troppo scomodi. Comincia alle 14,30 del 7 gennaio scorso al Verano l’aggressione al cronista Federico Marconi e al photoreporter Paolo Marchetti. «Ti sparo in testa » : è una delle frasi con cui accompagnano gli spintoni, strappano la macchina fotografica dalla quale viene anche tolta la scheda della memoria, li costringono a consegnare i documenti di identità e gli strumenti di lavoro. Uno di loro viene percosso.
Davanti a quelle parole « che abbiamo ascoltato: ti sparo in testa; a quelle che non abbiamo sentito: la condanna dell’accaduto da parte di chi, come il ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha il compito di vigilare sull’ordine e sulla legalità di un paese costituzionale e democratico come l’Italia», L’Espresso chiama i suoi lettori e tutti i cittadini a una giornata di incontro, domani.
«Per questo sentiamo il bisogno di incontrarci. Per dirci di persona una parola antifascista. La parola è antifascista, così come è antifascista il pensiero, e poi il ragionamento, il dialogo, il dubbio, l’ironia, l’accoglienza di chi è diverso da te» . Quindi l’appuntamento è al cinema Nuovo Sacher, dove Nanni Moretti proietta il suo Santiago, Italia, domani alle 10.30. « Per discutere, confrontarsi, emozionarsi, riflettere, senza rassicurazioni e auto- consolazioni, perché non di questo abbiamo bisogno. Ma di rimettere insieme pezzi disorganizzati, ricucire fatti lontani per trovare una spiegazione a quanto accade. È il nostro mestiere di giornalisti. Forse più fastidioso, in tempi di vuoto culturale e politico, di appiattimento sul presente, di distruzione della memoria. Più necessario, sicuramente».
Ci saranno il direttore Marco Damilano, i giornalisti dell’Espresso e Diego Bianchi, Guido Crainz, Donatella Di Cesare, Fabrizio Gifuni, Michela Murgia, Aboubakar Soumahoro, Samuele Lucidi (Consulta studenti), Roberto Viviani (Baobab).
I neofascisti non sono mai andati via. Però ora si sentono ringalluzziti dalla certezza di essere di nuovo al centro della storia e da un sentimento di impunità. Allora è il momento di rimettere insieme i pezzi , di ricucire fatti lontani, di opporsi alla distruzione della memoria - come ripete Damilano che ha subito reagito ai " blabla, e alle banalità" che sono venute da chi, come il ministro Salvini, era chiamato a una condanna chiara e forte, non alla genericità delle scuse.

La Stampa 11.1.19
La destra di AfD nel mirino
Terzo attacco in una settimana
di Walter Rauhe


Nuovo attacco contro un esponente della destra populista dell’AfD in Germania. Ignoti hanno fatto esplodere con dei petardi la cassetta delle lettere di fronte all’abitazione privata del deputato regionale dell’Alternative für Deutschland Stephan Reuken a Greifswald, nella regione del Meclemburgo-Pomerania e imbrattato la facciata della casa con vernice nera e la scritta: “Maiale nazista”. I danni stimati dalla polizia si aggirano attorno ai 400 euro, ma l’episodio ha destato ugualmente molta preoccupazione.
Violenza politica
Dopo l’attentato dinamitardo contro la sede del partito dell’ultra destra a Döbeln, in Sassonia il 3 gennaio scorso, e l’aggressione del deputato federale Frank Magnitz a Brema tre giorni fa, l’AfD è protagonista attualmente di un’ondata di violenti attacchi nel confronti delle sue sedi di partito e dei suoi esponenti politici. «Si tratta di attacchi contro la democrazia e i suoi rappresentanti», si sfoga Stephan Reuken, che l’estate scorsa era già stato aggredito e minacciato mentre stava passeggiando con la sua compagna sul lungolago di Schwerin, il capoluogo della regione. La polizia tedesca é allarmata. Gli episodi di violenza di stampo politico hanno registrato un‘impennata del 40% negli ultimi sei mesi e i partiti più colpiti sono quelli della destra populista AfD e quello dei post comunisti della Die Linke.
La rivendicazione di Brema
In seguito all’aggressione di Frank Magnitz a Brema è spuntata ieri una prima rivendicazione. Firmata da un gruppo che si definisce «Primavera Antifascista» è apparsa per pochi minuti sul sito di estrema sinistra «Indymedia» ed è stata subito dopo cancellata. Gli inquirenti dubitano tuttavia sul l’autenticità del documento e sul l’esistenza stessa di questa sigla finora del tutto sconosciuta. Mercoledì la polizia, dopo aver visionato le immagini dell’agguato registrate da alcune telecamere a circuito chiuso, aveva anche smentito la versione dei fatti fornita dal deputato AfD. Le ferite da lui riportate alla testa sono state causate unicamente dalla caduta sul selciato. Gli assalitori lo hanno spintonato da dietro e sono poi fuggiti ma non lo hanno picchiato con calci e pugni come aveva invece dichiarato il politico.

il manifesto 11.1.19
Il 2018 dei lavoratori in Cina fa emergere la necessità di sindacati indipendenti
Cina. L'unico denominatore comune in quasi tutte le proteste del 2018 da parte di insegnanti, operai, camionisti, operai edili, è l'assenza di un forte sindacato sul posto di lavoro che possa impedire ai datori di lavoro di violare la legge sul lavoro e, a allo stesso tempo, capace di aiutare i lavoratori a migliorare la loro retribuzione e le condizioni di lavoro attraverso la contrattazione collettiva con la direzione
di Simone Pieranni


Negli anni scorsi il tema dei lavoratori in Cina era uno di quelli più richiesti dalla stampa internazionale. I motivi erano di diverso tipo: da un lato il successo cinese e la capacità di sfornare un numero di miliardari che ormai supera quello in America, rendeva necessario ricordare anche le diseguali condizioni nel colosso cinese.
Una seconda motivazione era data dall’atteggiamento più generale che i media internazionali avevano nei confronti della Cina: vivendo il progresso cinese come una minaccia, era necessario ricordare sempre i lati più negativi e oscuri di questa incredibile progressione. Si scrisse e si analizzarono a lungo le condizioni dei lavoratori migranti, le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti della Foxconn e altre aziende che basano il successo dei propri fatturati su ritmi di lavoro altissimi e salari bassissimi. Nel tempo, naturalmente, la condizione di molti lavoratori in Cina è migliorata, così come è cambiata la narrazione del gigante asiatico.
L’ingresso del paese nella politica internazionale con una postura ben più decisa rispetto al passato, ha finito per attirare maggiori attenzioni alle mosse geopolitiche della Cina: tutto quanto accade all’interno del paese è passato in secondo piano.
A questo va aggiungo un altro fattore, proprio della Cina contemporanea: la “Nuova era” di Xi Jinping richiede un paese meno dipendente dalle esportazioni e più dinamico sui servizi e il mercato interno. Un trend in atto fin dal 2009 con Hu Jintao e che Xi Jinping non ha fatto che accelerare. Il piano quinquennale targato Xi – il tredicesimo e sulla balestra temporale che va dal 2016 al 2020 – si pone dieci obiettivi da realizzare, tra cui il primo, il sommo, obiettivo del “Sogno cinese” di Xi Jinping, raddoppiare il reddito individuale dei cinesi.
Si prevede una crescita al 6,5 (confermata dai dati più recenti), si punta ad aumentare il peso del terziario dal 50, al 56%, contenere il il totale di energia consumata entro 5 miliardi di tonnellate di carbone, espandere la rete ferroviaria ad alta velocità fino a 30mila chilometri, realizzare 50 nuovi aeroporti.
Unitamente al piano quinquennale c’è il progetto simbolo della «nuova era» di Xi Jiping: “Made in China 2025”, con il quale la Cina punta a diventare una «potenza» manifatturiera mondiale. Più qualità, meno quantità, robotica, automazione, intelligenza artificiale, più prodotti di alta qualità tecnologica esportata; aumento della produzione di semiconduttori e minore dipendenza dall’importazione di tecnologia dall’estero.
Siamo di fronte alla fine della “fabbrica del mondo”, e all’inizio dell’epoca con la Cina leader nel mondo dell’alta tecnologia. E i lavoratori? In questa nuova narrazione della Cina, che si registra anche in Italia dove spesso il gigante asiatico viene rappresentato come un paese ormai avanzato, dimenticandosi di tante delle sue contraddizioni, mancano ancora una volta gli operai. Eppure ci sono, eccome.
Intanto sono ancora milioni di persone. In secondo luogo, ancora oggi, protestano per ottenere migliori diritti e condizioni di lavoro. In questi giorni il China Labour Bulletin, una ong di Hong Kong, ma creata da un ex sindacalista cinese, che da tempo monitora le questioni legate al lavoro in Cina, ha pubblicato un report sullo stato dell’arte nel 2018.
Bisogna fare una precisazione: negli ultima anni è il salario minimo in Cina è aumentato, ma in modo differente da regione e regione; solitamente si prende come misura quella di Shanghai, dove negli ultimi anni è aumentato e non di poco passando da 2.300 yuan – ad esempio – nel 2017 a 2.420 yuan nel 2018.
Ma bisogna fare una precisazione, come riportato dal China Labour Bulletin: “Il salario minimo è aumentato costantemente nell’ultimo decennio, ma ci sono sostanziali differenze regionali e non ha tenuto il passo con l’aumento del costo della vita, specialmente nelle grandi città. Il divario tra ricchi e poveri in Cina continua a crescere e, nonostante le politiche governative di vecchia data per ridurre la povertà, il divario tra città e campagna rimane presente”.
Fatta questa precisazione, nel 2018 il Clb ha rilevato un numero ancora alto di proteste, benché più frammentate sul territorio. Spicca il settore dei trasporto, sottoposto a manifestazioni di grande portata, così come le motivazioni per la gran parte degli scioperi, ovvero il mancato pagamento dei salari. Gli scioperi e le proteste quasi sempre avvengono all’interno di aziende private o senza sindacato, favorendo la proprietà nella gestione completamente arbitraria della propria forza lavoro. Il caso dei lavoratori della Jasic, che ha finito per attirare la solidarietà anche di studenti e componenti maoiste della società, è un buon esempio della tipologia di lotte che ha caratterizzato la Cina.
Come conclude il report di Clb: “L’unico denominatore comune in quasi tutte queste proteste da parte di insegnanti, operai, camionisti, operai edili, è l’assenza di un forte sindacato sul posto di lavoro che possa impedire ai datori di lavoro di violare la legge sul lavoro e, a allo stesso tempo, capace di aiutare i lavoratori a migliorare la loro retribuzione e le condizioni di lavoro attraverso la contrattazione collettiva con la direzione”.
Il report si può leggere, in inglese, qui.

La Stampa 11.1.19
Il Cremlino si sbarazza dei dollari e investe in yuan
di Giuseppe Agliastro


La Russia si sbarazza dei dollari e investe in valuta cinese. Nel timore di nuove sanzioni Usa che possano mettere a repentaglio l’economia nazionale, la Banca centrale russa ha ridotto di ben 101 miliardi di dollari le proprie riserve in biglietti verdi. Un taglio netto, che ha consentito però a Mosca di convertire 44 miliardi di dollari in euro e altrettanti in yuan cinesi, nonché di investire 20,6 miliardi in yen giapponesi. Si tratta di una manovra drastica, dettata dalla politica internazionale e messa in atto la scorsa primavera, dopo che l’ultimo giro di sanzioni americane ha colpito aziende e oligarchi russi mettendo in ginocchio la Borsa di Mosca e affossando il rublo. I dettagli però sono stati resi noti solo questa settimana, con la pubblicazione dei dati della Banca centrale russa relativi al secondo trimestre del 2018.
Il legame con Pechino
La mossa di Mosca è l’ennesima prova dei sempre migliori rapporti tra Russia e Cina. Stando ai numeri più recenti a disposizione, la moneta cinese rappresenta adesso il 14,7% delle riserve totali russe in valuta straniera e in oro: una quota da record, oltre 10 volte superiore alla media delle banche centrali del resto del mondo. Non solo. Mosca detiene ora un quarto delle riserve globali in yuan. Una notizia che arriva proprio mentre il governo di Pechino annuncia che l’interscambio commerciale tra Russia e Cina l’anno scorso ha stabilito un altro record superando i 100 miliardi di dollari. Le riserve russe ammontano a 458 miliardi di dollari. E rientrano quindi di diritto nella top ten mondiale. Le scorte d’oro rappresentano il 16,7% del totale. La quota in euro è salita al 32%, da 102 a 147 miliardi di dollari. Quella in dollari - prima di gran lunga la piu’ importante - è invece precipitata dal 43,7% al 21,9%. In pratica si è dimezzata, passando da 201 a 100 miliardi di dollari. Mosca teme nuove misure restrittive americane, che potrebbero magari tagliarla fuori dai sistemi di pagamento globali. Così, tra aprile e maggio dell’anno scorso, per ridurre la sua esposizione, la Russia ha fatto piazza pulita di obbligazioni di Stato Usa per 81 miliardi di dollari. La Russia con questa manovra ha ridotto la qualità delle sue riserve. Gli asset valutati “AA” sono per esempio scesi dal 43% al 27%. In termini puramente economici, questi investimenti massicci in yuan possono sembrare poco azzeccati. Ma se si tiene conto della situazione geopolitica se ne coglie tutta l’importanza.

Il Fatto 11.1.19
La rivolta serba tra Ue e Putin
Proteste trasversali. In migliaia contestano Vucic, premier “europeista” ed ex ministro di Milosevic. Mosca teme un’altra Lituania
“Stop alle camicie insanguinate”. Il movimento denuncia la repressione del premier serbo
di Roberta Zunini


Anche se domani nelle strade ghiacciate di Belgrado e delle principali città serbe scendessero ancora migliaia di cittadini assieme ai sostenitori dei diversi partiti di opposizione, dall’estrema sinistra all’estrema destra, il presidente Alexander Vucic difficilmente aprirà al dialogo. Nonostante il numero dei manifestanti sia andato crescendo di sabato in sabato fino ad arrivare a circa 40 mila presenze la scorsa settimana, l’eventuale sesta manifestazione di fila contro Vucic e il suo Partito Progressista non sembra in grado di smuovere l’ex ministro del dittatore Milosevic, che due settimane fa ha dichiarato: “Se anche arrivassero a 5 milioni non cederei alle loro richieste”, per poi aggiungere che sarebbe “disposto a incontrare i cittadini infuriati ma non l’opposizione bugiarda”, minacciando che “l’alternativa è il voto anticipato, per contarsi”.
Andare subito alle urne sarebbe vantaggioso per il presidente, “perché non darebbe tempo alle opposizioni di rafforzarsi”, spiega l’analista Dragomir Andelkovic. Ma le opposizioni non le vogliono perché ritengono non ci siano le condizioni per consultazioni trasparenti e giuste. Del resto, un qualsiasi cedimento di Vucic in questo senso sarebbe come ammettere le accuse di comportamento anti-democratico mossegli dagli oppositori riunitisi nelle piazze muniti di fischietti, come ai tempi delle marce contro Milosevic. Questa volta, però, si tratta di un movimento diverso, eterogeneo in tutti i sensi, in cui si notano ex politici, intellettuali e attori – accomunati dalla richiesta di libertà di stampa e di critica – costituitosi dopo il pestaggio di Borko Stefanovic, leader di Levica Srbije, un piccolo partito di sinistra. La sua blusa macchiata di sangue a causa dell’attacco perpetrato lo scorso novembre da uomini in passamontagna nella città di Kruševac, ha dato il la alla protesta battezzata inizialmente “Stop alle camicie insanguinate” e dopo la sprezzante risposta di Vucic, “uno di cinque milioni”. Il presidente, ex ultranazionalista di ferro durante l’era Milosevic, si è convertito all’europeismo più spinto fondando il Partito Progressista serbo. Secondo i manifestanti però ha mantenuto i metodi dispotici del suo più noto predecessore, oltre a ventilare la “sacrilega” ipotesi di uno scambio di territori con il Kosovo. Proposta che ha fatto scoppiare la rabbia anche dei suoi elettori. La folla, organizzata dall’Alleanza per la Serbia – galassia priva di un leader –, chiede innanzitutto che la Tv pubblica preveda spazi per l’opposizione. I manifestanti inoltre vogliono indagini serie per fare luce sul mandante del pestaggio contro il leader di sinistra e dell’omicidio di Oliver Ivanovic, leader moderato dei serbi in Kosovo, avvenuto un anno fa. Le altre richieste riguardano anche la dinamica elettorale, giudicata opaca per vari motivi, tra cui le diffuse pressioni esercitate dai datori di lavoro sui dipendenti affinché votino il partito di Vucic.
Il malcontento è andato diffondendosi dopo la sua elezione nel 2017 non solo per l’erosione dello Stato di diritto, ma anche per il peggioramento dell’economia. Basti pensare che solo il 30 per cento della popolazione – 7 milioni di abitanti in tutto – ha accesso alla rete fognaria. “La piazza cresce assieme alla frustrazione per come si vive qui”, ha spiegato il giornalista Djordje Vlajic, che ritiene si tratti di un’energia che durerà”. Già due anni fa, migliaia di persone scesero in strada contro la vittoria di Vucic (55%), ma si trattava soprattutto di giovani e inoltre era primavera. Ora la folla sfida la neve e il gelo, segno che la situazione è ben più grave. Dusan Teodorovic, autorevole accademico e noto attivista, ha sottolineato che “non ci saranno elezioni finché il governo non pubblicherà le liste elettorali e non saranno rimossi i ‘pesi morti’”.
Quando nel 1998 Vucic era ministro dell’Informazione, firmò una legge che limitò la libertà di stampa e secondo i manifestanti in pratica sta facendo la stessa cosa anche adesso, seppure non in modo ufficiale e nonostante la svolta europeista. “Non contento della solida maggioranza in Parlamento, ora controlla tutto, i suoi uomini sono ovunque, hanno occupato tutto: polizia, esercito, media, scuole e ospedali”, ci spiega un docente che chiede l’anonimato per evitare ritorsioni. “Io non sono sceso in piazza perché non intendo mescolarmi con l’estrema destra, ma se continua così potrei cambiare idea. La situazione è diventata insostenibile”. Il ruolo della Russia di Putin in questa ondata di proteste non è chiaro. Vucic, pur definendosi europeista per convincere Bruxelles a far entrare la Serbia nell’Unione, ha continuato a coltivare ottimi rapporti con il Cremlino, che non vuole certo perdere il più importante Paese balcanico sotto la sua area di influenza dai tempi dell’Urss e con cui condivide il credo ortodosso. Cosa che non dispiacerebbe a Jean-Claude Juncker, a Bucarest per l’apertura del semestre europeo della Romania, contrario all’ingresso degli ex Paesi dell’orbita sovietica.

Il Fatto 11.1.19
Corbyn pensa alle elezioni, May a chiedere più tempo all’Ue
di Sabrina Provenzani


Fotografia di Brexit a 4 giorni dal voto parlamentare sull’accordo raggiunto fra la premier May e l’Unione europea, fissato al 15 gennaio. Per salvare il suo deal, che secondo la Bbc verrebbe travolto da 433 No contro 205 Sì, May ieri ha aperto al dialogo sia con la dirigenza laburista sia con i vertici dei principali sindacati, cui ha prospettato concessioni sui diritti dei lavoratori e garanzie sulla protezione dell’ambiente in cambio dell’appoggio al suo piano.
L’impressione è che sia too little too late, troppo poco e troppo tardi. Sempre ieri il laburista Jeremy Corbyn ha ribadito la linea politica degli ultimi mesi: bocciare l’accordo e, invece che al secondo referendum richiesto dalla maggioranza degli iscritti laburisti, puntare alla caduta del governo e a nuove elezioni. In caso di vittoria, avviare una rapida rinegoziazione con l’Ue. La situazione è molto fluida, ma la caduta del governo richiede la collaborazione degli unionisti nord-irlandesi la cui leader Arlene Foster, malgrado le ultime concessioni da parte di May, ha dichiarato che il suo piano “è già morto” ma che la sosterrà in una mozione di sfiducia. In caso di bocciatura del suo piano May dovrà, entro 3 giorni lavorativi, presentare un piano B, probabilmente nella direzione di una Brexit molto soft. Per evitare la temuta uscita senza accordo sembra inevitabile chiedere più tempo all’Ue, che potrebbe concederlo solo in presenza di una roadmap.

La Stampa 11.1.19
Trump al confine per sbloccare il muro
Ma i texani lo gelano: “Ci danneggia”
Russiagate, mossa dei democratici contro il presidente: l’ex legale Cohen testimonierà davanti al Congresso
di Francesco Semprini


Donald Trump sbarca al confine tra Stati Uniti e Messico per rilanciare la sua crociata contro l’immigrazione illegale e lo fa nel ventesimo giorno di paralisi del governo federale ostaggio del braccio di ferro sul muro di frontiera. Ma è da Washington che arrivano cattive notizie: l’ex avvocato del presidente, Michael Cohen, è pronto a testimoniare davanti al Congresso per chiarire alcuni punti, come il pagamento di ingenti somme ad alcune presunte amanti di Trump in cambio del silenzio. Appuntamento il 7 febbraio È la prima importante mossa dei democratici, dopo aver conquistato il controllo della Camera, nei confronti del tycoon, dopo la proposta di legge per la pubblicazione obbligatoria delle dichiarazioni fiscali da parte di presidenti e vicepresidenti.
Il viaggio al confine
Il presidente giunge in tarda mattinata a McAllen, la zona del Texas interessata dall’ondata di bambini migranti non accompagnati, portando con sé il terzo fallimento consecutivo nel negoziato con i leader democratici del Congresso per uscire dalla crisi dello «shutdown». Paralisi che costa 1,2 miliardi di dollari alla settimana e sabato passerà alla storia come la più lunga della storia americana. E ciò nonostante l’inquilino della Casa Bianca fa ricorso i toni trionfalistici: «Stiamo vincendo alla grande questa battaglia». La sortita nel «ground zero» della crisi assume in realtà i connotati di un ultimatum da parte di Trump, che fa presagire tempi lunghi prima di giungere a una soluzione. «Non sono ancora pronto a dichiarare l’emergenza nazionale, ma lo farò se continua lo shutdown», avverte il presidente spiegando che tale opzione gli consentirebbe di avere a disposizione «un ammontare enorme di fondi» per realizzare il muro al confine e, soprattutto, senza passare per il Congresso. L’emergenza nazionale darebbe ai democratici l’opportunità di dimostrare di non aver ceduto, rimandando la decisione finale agli elettori nelle presidenziali del prossimo anno. Il presidente ha intanto cancellato la sua partecipazione al World Economic Forum di Davos, dando la colpa alla «intransigenza» dell’opposizione che sta causando lo shutdown. «È più facile trattare con Pechino che con i democratici», chiosa il presidente facendo riferimento all’incontro di mercoledì alla Casa Bianca con la speaker Nancy Pelosi e il leader democratico al Senato Chuck Schumer, durato appena venti minuti. E definito «una perdita di tempo» dallo stesso presidente, il quale definisce menzogne le notizie diffuse dai media su un suo comportamento quasi isterico durante il colloquio. Ostenta calma e determinazione quindi Trump, e anche una vena ironica e provocatoria quando si rivolge a Obama postando un video in cui il predecessore parla di «crisi umanitaria» al confine tra Usa e Messico, «che mostra la necessità» di correggere il sistema dell’immigrazione una volta per tutte». «Presidente Obama, - scrive - grazie per il suo grande sostegno. Io lo dico da tempo».
Il presidente rischia però di trovare un «muro» di opposizione proprio laddove vuole costruire la sua di barriera (in acciaio), in particolare da parte di proprietari terrieri e imprenditori texani, perché si vedrebbero costretti a vendere i loro terreni penalizzando le economie locali. Per molti di loro il giusto compromesso sarebbe una barriera tecnologica e più agenti per i controlli.

Repubblica 11.1.19
La senatrice dem Kamala Harris
Donna e nera alla Casa Bianca "L’America è pronta per me"
di A. Lomb.


NEW YORK Un’indoamericana alla Casa Bianca? La gara per aggiudicarsi le primarie democratiche che sceglieranno chi sfiderà Donald Trump nella corsa alla presidenza del 2020 non è ancora formalmente iniziata: ma dopo la candidatura della grande fustigatrice di Wall Street, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, già un altro eminente nome del partito è pronto a presentarsi ai nastri di partenza. Tutti gli occhi sono puntati sulla senatrice nera della California Kamala Harris, 53 anni, di madre indiana e padre giamaicano: considerata il " volto nuovo" dem che potrebbe farcela. Secondo Kcbs radio la senatrice dovrebbe annunciare la corsa il 21 gennaio a Oakland in occasione della giornata dedicata a Martin Luther King che negli Usa è festa nazionale. Un’anticipazione smentita dai suoi collaboratori, ma che segue un’affermazione della senatrice intervistata da Cnn che sembra invece confermarla: « Gli elettori votano chi è più capace di essere la loro voce. Sono convinta che siano pronti a scegliere come presidente una donna: anche di colore». La senatrice d’altronde ha un curriculum solidamente progressista: già procuratrice generale della California — ruolo che ripercorre nel libro appena pubblicato The Truths We Hold — si è battuta conto leggi anti immigrati e armi da fuoco. È pro aborto. Ed è stata una delle voci più eloquenti a battersi contro la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte suprema.
Certo, la gara in casa dem rischia di essere affollata: domani dovrebbe annunciare la sua candidatura anche Julian Castro, 44 anni, il politico di origine messicana che fu il più giovane ministro del gabinetto di Barack Obama. Sperando di fare leva sull’elettorato di latinos costantemente nel mirino di Trump. Altri dovrebbero sciogliere le riserve presto, dal senatore nero del New Jersey Cory Booker, alla senatrice di New York Kirsten Gillibrand. A fare ombra ai nomi nuovi resta però l’incognita della discesa in campo di due superstar del partito: così famosi da non aver bisogno di annunci precipitosi. Bernie Sanders, il senatore socialista del Vermont che nel 2016 fu la spina nel fianco della campagna di Hillary Clinton sembra intenzionato a riprovarci. E anche Joe Biden: il vice di Obama amato dalla classe media bianca. Biden contro Warren che sfida Sanders sfidata dalla Harris? La guerra a Trump è già una guerra tra i dem.

Repubblica 11.1.19
L’intervista a Drew Westen, autore di "La mente politica"
"Per battere Trump la sinistra parli alla pancia del Paese"
di Anna Lombardi


NEW YORK Donald Trump mira allo stomaco d’America.
Stuzzica le emozioni della gente: come d’altronde i populisti di tutto il mondo hanno imparato a fare. Ma non è solo con lo stomaco che si ottiene consenso. Serve anche testa. Non a caso il discorso del presidente sulla necessità di costruire il muro al confine col Messico l’altra sera aveva toni diversi. Più equilibrato, motivato.
Trump vuol mantenere le promesse fatte alla sua base: ma sa che oggi, con lo shutdown in corso, deve apparire ragionevole». Drew Westen, psicologo ed ex consigliere di Barack Obama, è il professore di Teoria della Personalità alla Emory University di Altanta che col suo saggio La mente politica. Il ruolo delle emozioni nel destino di una nazione (Il saggiatore) da tempo studia il legame fra irrazionalità e voto: sull’argomento sta già preparando un nuovo volume.
Trump nel 2016 vinse le elezioni puntando su un messaggio opposto a quello di speranza e ottimismo lanciato da Barack Obama e perseguito da Hillary Clinton. Quel tipo di retorica non funziona più?
«Funziona, ma la sua base si sta restringendo. Trump si rivolge sempre più solo a un determinato gruppo di persone ripetendo quel che vogliono sentire: che altri sono stati favoriti al loro posto. Fa presa sull’odio. Ma sa che non basta. La sinistra ha l’occasione di lanciare un nuovo messaggio proprio perché ha di fronte uno come Trump, sapendo che la narrativa che mira allo stomaco non è per forza prerogativa della destra».
La sinistra, cioè, dovrebbe parlare meno alla testa?
«I leader migliori sanno rivolgersi a entrambi. Purtroppo da tempo i progressisti parlano in modo astratto e cerebrali. Basta pensare alla risposta a Trump, subito dopo il discorso sul muro, di Nancy Pelosi e Chuck Schumer: argomenti condivisibili, ma freddi. Hanno parlato alla testa, mai allo stomaco.
Eppure la Pelosi pochi giorni prima era stata efficacissima dicendo chiaro che il muro è immorale.
Invece hanno perso un’occasione per ribadire che si contrappongono sistemi morali diversi. Ma è con quell’argomento che si cattura testa e stomaco. Esempi non mancano».
Prego.
«Bill Clinton era abilissimo. Un uomo tutta testa che sapeva fare leva sull’emotività delle persone dicendo cose concrete ed efficaci. Il contrario di sua moglie, fredda e cerebrale. Ecco, Hillary contro Obama sono l’esempio migliore: ideologicamente erano simili. Ma lui ha sempre saputo parlare a cuore e stomaco della gente oltre che alla loro testa».
Oggi in America c’è un leader democratico capace di conquistare allo stesso modo cuore, testa e stomaco?
«Kamala Harris ha lo stile per farlo.
Ma in quanto donna e nera ha portato avanti politiche troppo identitarie. Il più abile, che però rischia di non farcela solo per questioni di età, è Joe Biden. Fu una sciagura che la morte del figlio gli impedì di contrapporsi a Trump nel 2016. Personalmente credo che un giovane leader che ha ottime chance, anche se non è ancora in campo, è Sherrod Brown dell’Ohio.
Inclusivo, da sempre al fianco dei lavoratori, rappresenta tutto quello che storicamente sono i dem.
Potrebbe parlare a stomaco e cuore: anche meglio di Trump».

Il Fatto 11.1.19
Gela
Una necropoli sotto il cemento del centro, ma il suo destinoè segnato: sarà riseppellita
La decisione della Soprintendenza
di Alan David Scifo


Gli studenti delle scuole della città ogni mattina, così come alcuni turisti, vanno a visitare la necropoli venuta alla luce grazie agli scavi della condotta idrica tra novembre e dicembre. Si sa, sotto il cemento di Gela c’è un tesoro. Basta scavare pochi metri per far riemergere un sarcofago risalente al Quinto secolo avanti Cristo oppure, come accaduto in via Genova, un’intera necropoli greca. Una scoperta straordinaria che però durerà poco: a poco più di un mese dai primi ritrovamenti, la Sovrintendenza ha deciso di sotterrare tutto e installare al massimo dei totem che mostrino le foto dei reperti del sottosuolo. Troppo costoso, evidentemente, il restauro conservatico e la successiva esposizione. Ma c’è chi si ribella a questa scelta chiedendo alternative prima della nuova scomparsa di questo tesoro gelese: tra le voci spicca il professore Nuccio Mulè, vera e propria memoria storica della città, che ha inviato un dossier all’assessore regionale ai Beni culturali Sebastiano Tusa, definendo Gela la “Caporetto dell’archeologia mediterranea”.
Il 19 gennaio, al liceo classico “Eschilo”, sarà creato un comitato cittadino a difesa dei beni archeologici di Gela. Oltre alla necropoli di via Genova, a non essere valorizzati sono gli altri beni che avrebbero dovuto rilanciare il turismo gelese ma che oggi giacciono tra incuria e abbandono. Tra tutti l’acropoli greca, che ha come sfondo l’ex stabilimento petrolchimico della città, oggi abbandonato al degrado; poi il castello Svevo, anch’esso presente nel reportage del professore Mulè, restaurato negli anni novanta e poi abbandonato al suo destino. La città, insomma, si mobilità e spera di far cambiare idea all’amministrazione e alla soprintendenza. Ma il tempo non è molto. Il rischio è che questi siano davvero gli ultimi giorni disponibili per ammirare un pezzo del tesoro che il cemento di Gela nasconde.

La Stampa 11.1.19
“Matera non è solo opere incompiute
È un miracolo tra Neolitico e futuro”
di Emanuela Minucci


L’architetto Stefano Boeri osserva il plastico della Stazione Centrale di Matera che sta per essere inaugurata nel cuore della Capitale europea della Cultura. E per descriverla gli viene spontaneo cominciare dall’origine di tutto, che da piazza della Visitazione dista solo mezzo chilometro, i Sassi: «Vede, questa è una costruzione ipogea, i treni delle Ferrovie Appulo Lucane, scorrono sei metri sotto terra, e mi è venuto spontaneo aprire un dialogo strutturale fra la banchina alta 12 metri e quei binari sotterranei». Pausa: «É un po’ una citazione della magia che si respira perdendosi nel modernissimo neolitico dei Sassi, fra luci e ombre, salite e gradini impervi a collegare quel microcosmo di grotte: un paesaggio che cambia mille volte al giorno, insieme con la luce». Una citazione che ha emozionato non poco l’architetto: «É stato come riprendere un filo sospeso nel tempo, in bilico fra la civiltà primordiale e quella del futuro».
Boeri, l’uomo che nel 2009 progettò il «Bosco Verticale» di Milano, tanto pop da diventare - due giorni fa - una parola del gioco «Taboo», non è la prima archistar a occuparsi di Matera. Per riuscire a trasformare la città dei Sassi da «vergogna nazionale» a Patrimonio dell’Umanità negli anni 50 vennero chiamati urbanisti come Ludovico Quaroni, Carlo Aymonino, Giancarlo De Carlo, Luigi Piccinato. E ora la Matera ricostruita nel Dopoguerra acquisisce, grazie ai fondi arrivati per la Capitale della Cultura, di un’opera che non sarà solo una stazione: ma una cerniera fra passato e futuro, una piazza pubblica piena di verde, panchine e giochi per bambini. «L’opposto di un non luogo: un posto che non si esaurisce nel partire o arrivare, ma che si trasformerà in meta, in punto d’incontro».
Architetto, si tratta di una stazione che piace già molto ai suoi abitanti, anche se per ora dal cantiere spunta solo «l’ossatura», e che darà una marcia internazionale al centro di Matera, ma è sicuro che i lavori termineranno nei tempi previsti?
«I treni passeranno dal 19 gennaio, giorno dell’inaugurazione con il presidente Mattarella. Tutto il resto per maggio. E le assicuro è già stato un mezzo miracolo finire tutta l’opera entro la primavera prossima».
Perché?
«La realizzazione del nostro progetto è stato messo a gara dalle Ferrovie Appulo Lucane nel maggio scorso e i lavori sono partiti a luglio, lei immagina bene che per il lavoro che avevamo davanti, otto mesi per far passare i convogli e un anno per concludere tutto è ben poca roba».
La ministra per il Sud Barbara Lezzi, però, nel suo ultimo sopralluogo avvenuto lunedì scorso ha definito vergognoso il fatto che la piazza, nella sua completezza non sia già fruibile dai cittadini».
«Concordo. Ma quella è una partita che gioca il Comune, nostro compito è consegnare la stazione, non le opere collaterali. Se posso dire anzi, noi siamo stati fortunati a lavorare con un’impresa come la Costruzioni Barozzi di Altamura: si stanno dimostrando bravi e velocissimi».
A proposito, per un professionista internazionale come lei, che ha rifatto il piano regolatore di Tirana, il Museo del Mediterraneo di Marsiglia (anche lì per una capitale della Cultura, era il 2013) e sempre due anni fa ha fondato con Yibo Xu la «Stefano Boeri Architetti China, con sede a Shangai, com’è stato lavorare nel Sud Italia?
«Mai lavorato tanto bene. Fondamentale, va detto è stata la capacità del coordinatore designato dal governo Salvo Nastasi, grande professionista, e poi, al contrario di quanto è accaduto per altre opere che sono ancora in ritardo il nostro cantiere è filato molto liscio».

L’architetto Stefano Boeri osserva il plastico della Stazione Centrale di Matera che sta per essere inaugurata nel cuore della Capitale europea della Cultura. E per descriverla gli viene spontaneo cominciare dall’origine di tutto, che da piazza della Visitazione dista solo mezzo chilometro, i Sassi: «Vede, la mia stazione è una costruzione ipogea, i treni delle Ferrovie Appulo Lucane, scorrono sei metri sotto terra. E ci è venuto spontaneo aprire un dialogo strutturale fra la banchina alta 12 metri e quei binari sotterranei».
È un po’ una citazione?
«Sì, della magia che si respira perdendosi nel modernissimo neolitico dei Sassi. Fra luci e ombre, salite e gradini impervi a comporre quel microcosmo di grotte: un paesaggio che cambia mille volte al giorno, insieme con la luce».
Ma com’è stato costruire a Matera?
«Emozionante. Quasi come riprendere un filo sospeso nel tempo, in bilico fra la civiltà primordiale e quella del futuro».
Lei è l’uomo che nel 2009 progettò quel «Bosco Verticale» tanto pop da diventare - giusto due giorni fa - una parola del gioco «Taboo» e anche la prima archistar a occuparsi di Matera...
«Questo non è così vero. Per riuscire a trasformare la Città dei Sassi da “vergogna nazionale» a Patrimonio dell’Umanità, negli Anni 50 vennero chiamati urbanisti come Ludovico Quaroni, Carlo Aymonino, Giancarlo De Carlo, Luigi Piccinato. Per non parlare della “politica di piano” messa in campo da Adriano Olivetti».
Lei raccoglie la loro eredità?
«Questa è l’intenzione. Creando una cerniera fra passato e contemporaneo, creando l’opposto di un “non luogo”: un posto che non si esaurisce nel partire o arrivare, ma che diventa meta, punto d’incontro».
Ma è sicuro che i lavori finiranno nei tempi previsti?
«I treni passeranno dal 19 gennaio, giorno dell’inaugurazione con il presidente Mattarella. Tutto il resto sarà pronto per maggio. E le assicuro è già stato un miracolo».
Perché?
«La realizzazione del progetto è stata messo a gara nel maggio scorso e i lavori sono partiti a luglio. Per il lavoro che ci ritrovavamo davanti, otto mesi per far passare i convogli e un anno per concludere tutto è tanta roba».
La ministra per il Sud Barbara Lezzi, però, nel suo ultimo sopralluogo, ha definito vergognoso il fatto che la piazza «non sarà subito fruibile».
«Quella non è una nostra partita, nostro compito era di consegnare la stazione, non le opere collaterali. Se posso dire anzi, siamo stati fortunati a lavorare con dirigenti, rappresentanti del governo e maestranze bravi e velocissimi».
Lei ha rifatto il piano regolatore di Tirana, il Museo del Mediterraneo di Marsiglia, altra Capitale della Cultura, e aperto uno studio a Shanghai. Com’è stato lavorare nel Sud Italia?
«Di solito c’è qualche differenza, ma in questo caso abbiamo lavorato molto bene. Infatti, al contrario di quanto accaduto ad altre opere in ritardo il nostro cantiere è filato molto liscio. Fondamentale è stato l’apporto del coordinatore designato dal governo Salvo Nastasi, grande professionista».
Che cosa l’ha spinta ad accettare l’incarico?
«La sfida era appassionante: costruire per Matera, gioiello unico al mondo, costituisce un atto culturale in sé. Visitare la cripta del Peccato originale con quel magnifico ciclo di affreschi datati fra l’VIII e il IX secolo è come entrare nella Cappella Sistina. Esci che sei diverso: e costruire ex novo, confrontarsi con quella realtà per fare scoprire al mondo che cosa sia questa città. Metterci poi del proprio per riscattare il meridione da una certa idea di abbandono è un’operazione che ci ha subito attratto».
É vero che la sua nuova stazione sarà ecosostenibile?
«Abbiamo puntato molto su questo aspetto: ad esempio il tetto sarà rivestito di pannelli fotovoltaici e immagazzinerà così tanta energia da poterne regalare una parte alla città».
A dispetto di tanta efficienza non si può negare che Matera arrivi in ritardo all’appuntamento con trasporti efficienti.
«Sì, questo è innegabile, sia il trasporto su gomma, con l’eterna incompiuta della statale Bari Matera, la situazione di Ferrandina-scalo Matera, e l’assenza dell’Alta velocità, costituiscono una forte penalità che si spera di recuperare».
Che cosa resterà di Matera 2019?
«Spero in una doppia eredità. Da un lato l’attenzione del mondo che sa diventare un volano, non solo turistico: linfa vitale per una nuova generazione di materani impegnati nella ricerca sui nuovi materiali, l’artigianato, la sostenibilità, le biotecnologie, la ricerca archeologica».
Dall’altro?
«Un impegno chiaro a completare anche negli anni successivi le infrastrutture. Da milanese so che cosa significa usare un grande evento come acceleratore di progetti che hanno trasformato in pochi mesi la città dell’Expo in una delle capitali del mondo».

Corriere 11.1.19
Memoria
Fenomenologia di Andreotti l’extra-terreno
Cruciale il suo legame con la Santa Sede. La biografia di Massimo Franco
A cent’anni dalla nascita, una ricostruzione attenta e vivace dedicata al leader democristiano (Solferino)
di Antonio Polito


Anche molti convinti avversari politici dell’ex premier tirarono un sospiro di sollievo quando venne assolto

La vita di Giulio Andreotti, nato cent’anni fa, è intrecciata in modo inestricabile con quella dell’Italia. Al punto che, quando è stata portata in un’aula di tribunale per essere processata, la giustizia degli uomini non è riuscita a sciogliere il nodo.
E il processo del secolo (scorso), che doveva accertare se il massimo vertice politico della Repubblica avesse per anni agito agli ordini del massimo vertice della mafia, «si è concluso nel modo più andreottiano che si potesse immaginare: con una verità in chiaroscuro, sfuggente, quasi contraddittoria».
La nuova e aggiornata versione della già classica biografia di Massimo Franco, che esce ora con il titolo C’era una volta Andreotti (Solferino), ha il merito di farci capire l’indissolubilità di quel nodo. Tutti sappiamo che il «divo Giulio» fu assolto due volte, con sentenza confermata in Cassazione. Ma sappiamo anche che i procuratori che lo portarono davanti al giudice, in primis Gian Carlo Caselli, allora capo della Procura di Palermo, negano di essere usciti sconfitti dal processo. In primo grado — ricordano — l’assoluzione fu accompagnata dalla vecchia formula «per insufficienza di prove». Mentre la sentenza d’appello ritenne che il reato di associazione per delinquere era stato commesso fino alla primavera del 1980, quando non esisteva ancora quello di «associazione mafiosa»; e perciò prescritto. Accettano un’autocritica solo sulla famosa vicenda del «bacio» tra Andreotti e Riina: doveva essere l’asso nella manica dell’accusa e invece si trasformò in un boomerang, togliendole credibilità.
Dobbiamo dunque augurarci che la discussione sul centenario dello statista rinunci all’inutile tentazione di riaprire i processi. E non solo perché un’assoluzione è un’assoluzione è un’assoluzione, per parafrasare Gertrude Stein. Ma perché il giudizio storico si è già dimostrato incommensurabile con il giudizio penale. E a noi oggi interessa solo il primo, l’unico che non sia ancora stato emesso.
La confusione tra questi due piani è stata invece a lungo la regola. Beppe Grillo, quando era uno showman, diceva che nel celebre profilo della schiena di Andreotti si nascondesse la «scatola nera» di tutti i misteri patrii. «A tratti — scrive Franco — si ha l’impressione che l’Italia, o almeno un’Italia, abbia sentito la necessità di processare Andreotti e la Dc per spiegare a se stessa quanto era accaduto nei decenni precedenti: insomma per trovare una verità consolatoria, più che per arrivare alla verità». E ha ragione. Ma perfino tra gli avversari di Andreotti, tra chi pure lo considerava un politico cinico e senza scrupoli, si avvertì un sospiro di sollievo quando fu assolto. La prova della sua colpevolezza avrebbe infatti trasformato cinquant’anni di storia nazionale in una storia criminale. E questo non poteva permetterselo nessuno che l’avesse vissuta con dignità e consapevolezza, da qualsiasi parte della barricata militasse.
C’è un episodio raccontato dall’autore che spiega bene questo sentimento. A un certo punto i procuratori convocarono tutti gli uomini di scorta di Andreotti per capire se era possibile che fosse sfuggito al loro controllo per il tempo necessario a incontrare Riina. «Circa trenta carabinieri, tutti quelli che l’avevano protetto negli anni, furono radunati in uno scantinato e interrogati per ore. Ricordavano quel giorno come un incubo: erano carabinieri che si ritrovavano sospettati di aver coperto un presunto mafioso che da anni proteggevano anche contro la mafia». Molti italiani vissero un incubo analogo di fronte all’enormità delle accuse: quello di aver partecipato a un gigantesco Truman Show invece che a una vicenda politica aspra, dura, anche sporca, ma pur sempre vera. Se Andreotti, sette volte presidente del Consiglio, ventisette volte ministro, parlamentare dal 1946 fino alla morte nel 2013, fosse risultato un pupazzo nelle mani della mafia, anche l’Italia lo sarebbe stata.
Piuttosto, l’autore ci dà una chiave molto più interessante per comprendere l’indubbia ed estrema originalità del personaggio Andreotti nel panorama della Prima Repubblica, una certa estraneità rispetto al suo stesso partito, e quella financo proterva indifferenza all’etica del potere e alle malefatte degli amici, che ostentava spacciandola per sarcasmo e che gli costò ventisette tentativi di incriminazione davanti all’Inquirente. Sostiene Franco che colui che noi chiamavamo Belzebù obbediva in realtà nella sua azione politica a una particolare e, per dir così, superiore ragion di Stato. «Non era uno statista italiano, ma un grande statista del Vaticano», diceva Cossiga, «il segretario di Stato permanente della Santa Sede, da Pio XII a Giovanni Paolo II». E perciò si muoveva nel mondo della guerra fredda con un’autorità e un peso superiori a quelli del Paese che rappresentava, ma anche con una sorprendente disinvoltura: «Todo modo para buscar la voluntad divina». «Più passa il tempo — raccontava Rino Formica — e più mi convinco che Andreotti è un extra-terreno. Noi socialisti l’abbiamo sempre giudicato sulla base dei fatti: questo è bene, questo è male. Non avevamo colto la sua appartenenza a un filone culturale e di pensiero che ha reso immortale la Chiesa, in cui ci sono il sacrificio di Cristo, la papessa Giovanna, i Borgia, l’Inquisizione, la diplomazia».
Se così fosse, diverrebbe essenziale sapere che giudizio è stato emesso nell’aldilà, dopo l’assoluzione in terra. Nel frattempo si può leggere questo libro di Massimo Franco, una biografia di stampo anglosassone per distacco e serenità di giudizio, senza dubbio la maggiore disponibile su Andreotti.
Lettura tra l’altro piacevolissima, ricca di aneddoti, episodi, aforismi, alcuni provenienti dalla inesauribile vena del soggetto medesimo, cui il biografo ha avuto il privilegio professionale di un accesso diretto e frequente. «Non mi piacciono le biografie da vivo», gli disse una volta Andreotti. «Però capisco che ci si occupi della mia vita. In fondo, in un certo senso, io sono postumo di me stesso».

La Stampa 11.1.19
20 anni senza Faber
Dori Ghezzi: “Ancora tanti sentono Fabrizio vicino come fosse la loro guida”
intervista di Marinella Venegoni


Vent’anni e non sentirli. Dire ancora «Abitiamo in via taldeitali», come se i vent’anni che suonano oggi dalla partenza da questo mondo di Fabrizio De André non esistessero, se non nel tempo fuori del sé. Dori Ghezzi è la vedova meno canonica e anche la più bella, cantante e partner amorosa e artistica di un’icona ancora celebre e amata, anzi persino un po’ di più di quando nel 1999 ci lasciò senza canzoni da aspettare. Confessa di «impazzire di telefonate» in questi giorni che replicano il lutto. E ci apre (un po’) il suo cuore.
Cara Dori, gli anni passano. E lei ha fatto tanto lavoro, per ricordare Fabrizio.
«Non io, la gente. Abbiamo seguito gli altri. Abbiamo un problema di sovraesposizione. Tanti lo sentono vicino».
Cos’è rimasto di De André nell’immaginario collettivo?
«L’aspetto autentico. Non quello di artista, lo pensano come una persona-guida. È impressionante il rapporto di appartenenza».
Eppure le sue non erano canzoni semplici.
«Ha cambiato di volta in volta. Ha affrontato anche esperimenti rischiosi. Ma il pubblico lo capiva, era quasi una missione. Lui rispettava quel suo pubblico».
Un artista che si macerava nella scrittura.
«Voleva rappresentare il domani. Ancora adesso, nei fatti di cronaca, si fa riferimento alle sue canzoni. È stato capito profondamente, la gente non è così superficiale, mai sottovalutare. Diceva: debbo essere imprevedibile. Aveva il coraggio di dare sempre qualcosa di diverso».
In questi anni di migranti, sembra di sentirgli cantareKhorakhanéoAnime Salve, colonna sonora di un dramma.
«Ogni anno mettiamo un pensiero di Fabrizio sulla sua homepage. Quest’anno abbiamo messo “Anime salve in terra e in mare”. Sarebbe inorridito da ciò che sta accadendo. Non ci rendiamo conto di essere responsabili di questa situazione. Noi gli abbiamo preso tutto, saccheggiato i loro Paesi, e loro sono scappati. Dobbiamo dare la possibilità di stare bene, abbiamo creato il problema, dobbiamo risolverlo».
Com’era Fabrizio con il prossimo?
«Era bravo ad ascoltare, non pontificava mai. Ti faceva dire quel che non sapevi. Lo ha fatto anche con i suoi collaboratori, da loro ha tirato fuori il meglio. Pensi al giovanissimo Piovani con i suoi arrangiamenti di Non al denaro non all’amore e Storia di un impiegato. O a Francesco De Gregori: il 4 aprile 1974 compiva 23 anni e andammo a prenderlo a Roma per partire per la Sardegna e da lì cominciò la collaborazione. Con Fossati era maturità comune e la testa in sintonia. Ha cercato sempre il collaboratore idoneo».
Non amava lavorare da solo?
«Intanto non sarebbe stato così duttile, è un atto di umiltà che paga. Aveva bisogno di stimoli anche nei tempi, altrimenti un disco non lo avrebbe mai finito. La sua grandezza è anche nel dire: io da solo non lo avrei potuto fare. Non si riteneva un musicista. E ogni disco è diverso dall’altro, non li confondi. Ecco perché sul piano culturale è ancora considerato maestro di pensiero».
Lei è sempre stata testimone degli incontri...
«Lo spartiacque privato e artistico fu Amico fragile. Da lì comincia i concerti, e un modo diverso di affrontare la vita».
Si è divertita?
«Sono stata miracolata da una vita così. Era difficile ma generoso, ti dava tanto. Ci stavano anche le litigate e mi mancano anche quelle. Con lui non ci si annoiava mai. Bisticciare è un modo per conoscersi. Il mondo musicale passato non lo sentivo mio, cantavo cose in cui spesso non credevo. I miei gusti sono sempre stati molto blues e country blues, ma spopolò Casatchok e ancora adesso non hanno capito che era stata snaturata una canzone della rivoluzione russa».
Grillo aveva una devozione per Fabrizio.
«Anche qui Fabrizio dava e prendeva. Ha molto sofferto quando lui è morto: era un rapporto famigliare. Ha preso altre strade ma non amo neanche giudicarlo, lo vedo sempre come un fratello. Fabrizio si preoccuperebbe che non andasse a farsi male, penso lo avrebbe sconsigliato; sono situazioni in cui rischi di soffrire molto. Ma Beppe ha sempre fatto politica, anche a teatro, e divertendoci. A me piaceva, in quella veste lì».
E Nanda Pivano, cos’era per voi?
«La sorellina minore, perché era più gioiosa e giovanile di noi. Mi ha insegnato molto con il suo desiderio di capire i giovani, farli parlare, dialogare in sintonia. Anche con lei era un rapporto di famiglia, stava con noi come altri amici che famiglia non ne avevano».

La Stampa 11.1.19
La memoria vive e suona anche tra i ventenni di oggi
di Nadia Ferrigo

Una graziosa in via del Campo c’è oggi, come allora. «Solo che non c’è più Faber a raccontarla», sospira tra libri e caffè Simone Terrile, 21 anni, studente di letteratura in pausa pranzo nel bar accanto alla facoltà di Giurisprudenza. La stessa dove studiò - poco e controvoglia - Fabrizio De André. Tra i giovani e i giovanissimi genovesi quasi nessuno ricorda la data, l’anniversario tondo di oggi, vent’anni esatti dalla morte. Ma anche chi nel 1999 non era nemmeno nato, conosce a menadito voce e storie di De Andrè.
Compagni di liceo
A cento metri in linea d’aria, qualche cosa in più tra caruggi e crêuze, sta il suo liceo classico, il Cristoforo Colombo. Chiostro imponente, mura arancioni scrostate e corridoi ingombri di avvisi appesi un po’ come viene e addobbi di Natale ancora da sistemare. E una targa. È un verso de Il suonatore Jones. Tutti conoscono l’illustre ex compagno. E chi dice di «ascoltarlo ma non tanto», lo fa quasi come se fosse una colpa. «Mi ricordo i viaggi in macchina da bambino - racconta Lorenzo Caccini, 15 anni, zazzera di capelli ricci e un auricolare che non toglie mai dall’orecchio -. Se chiudo gli occhi, lo sento cantare Geordie». E non è il remix da discoteca di Gabry Ponte.
«Per noi De André è una persona normalissima», conclude. Familiare, come una ninna nanna. «Noi» sta per noi genovesi. «Allora perché tu non c’eri, quando abbiamo fatto assemblea sul film? C’erano tutti», lo punzecchia Lorenzo Verri, coetaneo e rappresentante di classe. A Genova la storia del Principe Libero si conosce senza nemmeno sforzarsi di impararla. Si sa e basta, così il primo incontro è una pesca nei ricordi.
Florencia Semino e Caterina Sciaccaluga, 18 anni, sono tra i «grandi» del liceo. Giocano nel cortile con le racchette del volano perché «a pallavolo non siamo capaci». Bionda e bruna, fisica per una e lettere per l’altra, sono «molto diverse, ma davvero molto amiche». «Noi lo ascoltiamo sempre. Ho iniziato a studiare chitarra, con Il Pescatore» sorride Florencia. E poco cambia se papà lo ascolta su cd, lei e i suoi amici su You Tube.
«Le canzoni di De André parlano anche a noi. Sono storie di uomini. Aiutano a capire la società, perché capisci che prova l’altro. E solo la comprensione può aiutare a cambiare. Pure opinione politica», ragiona Luca Andrade, 24 anni, studente di filosofia a passeggio nelle vie del centro. Con l’aria ghiacciata e il cielo blu, il pomeriggio senza lezioni né esami sembra fatto apposta per parlare di poesia. «Ma la sua era una società fiabesca, ingenua» ribatte Chiara Barabino, coetanea e collega. «Anche se c’è ancora una bocca di rosa, il professore che si innamora dov’è finito? Non cambiano i luoghi. Le classi sociali sono saltate. A cambiare sono sempre le genti».
Le tracce in via del Campo
Già, le genti. Quelle di via del Campo hanno la pelle scura, cuffie calate sugli occhi e piumini gonfi. Accanto al museo, la Casa dei cantautori genovesi, c’è un molto ben assortito alimentari bengalese. Poi la sartoria Black Africa, un money transfer e due negozi halal. Una parte di mondo che non è esattamente il pubblico ideale per un cantautore italiano. Solo Mohamed Essebri, 30 anni, il «capo» in un altro negozio di alimentari della piazzetta, ne sa qualche cosa. «Quando sono arrivato a Genova, 14 anni fa, qui accanto c’era un bar con le sue foto e i suoi dischi. Era bellissimo». È il locale La cattiva strada. L’insegna resiste, ma i cimeli sono spariti.
Fortuna che la città per ricordare non ha bisogno di chiedere il permesso. All’inizio della strada, a bomboletta sul muro, c’è Nella mia ora di libertà: «Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane. Ora sappiamo che è un delitto non rubare quando si ha fame». Un verso che sta per compiere cinquant’anni, ma che parla ancora delle genti di via del Campo.

Corriere 11.1.19
20 anni senza Faber
Il ricordo di De André in camerino
«L’importante è saper sbagliare»
di Alessandra Arachi


Chi lo ha visto quel concerto al teatro Brancaccio, non può aver dimenticato i castelli di tarocchi giganti che riempivano il palco, e lo sfondo color azzurro cielo che riempiva lo sguardo, e le note di quella musica soave che riempiva l’anima.
Chi lo ha visto quel concerto a Roma, lo sa bene che è stato l’ultimo concerto di Fabrizio De André che le telecamere hanno potuto riprendere.
Era febbraio, era il 1998, era il tour Anime Salve, e le date che sono venute dopo sono rimaste lontane dalle televisioni, e sono state poche. Ben presto Fabrizio avrebbe abbandonato la sua chitarra, e — lo sappiamo — l’11 gennaio dell’anno seguente sarebbe morto all’Istituto dei tumori di Milano.
Quel pomeriggio al teatro Brancaccio tutto era ancora un incubo lontano, e Fabrizio De André non poteva immaginare che un tumore orribile gli si fosse piazzato dentro un polmone per divorargli la vita.
Quando Cristiano ha bussato alla porta del suo camerino, Fabrizio mi ha scrutato perplesso, suo figlio mi teneva per mano e mi aveva appena presentato come una sua cara amica, e io devo aver avuto un’espressione in bilico tra l’estasi e l’ansia da prestazione.
Non avevo mai voluto conoscere un mito che mi aveva incantato sin dall’età di dieci anni. Stava succedendo in quei minuti.
Sono rimasta quasi un’ora dentro al camerino a parlare con Fabrizio De André, e sentivo l’affanno di mettere in fila le domande di una vita, ma a fargliele quelle domande non ci riuscivo. Qualunque pensassi mi sembrava troppo stupida per il Maestro, e per fortuna ci ha pensato lui a riempire i miei buchi che in una conversazione erano decisamente un inedito della mia vita.
Poi ce l’ho fatta, gli ho raccontato di come da cronista di nera non avevo mai smesso di saccheggiare le sue canzoni, mettevo le sue frasi nei pezzi, e nei titoli, e gli ho detto che un giorno mi avrebbe potuto accusare di plagio.
Mi ha guardato, ha spento la sua terza sigaretta, e con la bocca ha fatto una smorfia che assomigliava ad un sorriso: «Belìn il problema non è copiare. È saper copiare».
Volevo replicare, capire se saper copiare era come aveva fatto lui in maniera magistrale con Brassens, con Leonard Cohen, e mi stavo preparando la domanda quando nel camerino è entrata Monica, la sua addetta stampa. Dovevano preparare un comunicato. Ho fatto per uscire dal camerino, Fabrizio mi ha fermato: «Te lo ricordi dove è nato Padre Pio?». Ho risposto, il più velocemente possibile: «A San Giovanni Rotondo». Lui non ha battuto ciglio: «Belìn, credevo Pietrelcina».
Pietrelcina certo. La prima domanda che mi aveva fatto il Maestro in tutta la vita, l’avevo sbagliata. Sarebbe stata anche l’ultima, ma questo in quel momento non potevo saperlo nemmeno io. Volevo andarmene, piena di vergogna.
Fabrizio De André mi ha fermato di nuovo: «Ormai hai capito come funziona, vero?». Non avevo capito. Si è scostato dalla fronte il suo lungo ciuffo di capelli: «Il problema non è sbagliare. È saper sbagliare».

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