il manifesto 10.1.19
Le connessioni virtuali del neopopulismo
Saggi. «Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il farmaco populista» di Ferruccio Capelli, edito da Guerini e Associati
di Francesco Antonelli
Di
fronte all’ascesa dei movimenti e dei leader neo-populisti nel mondo,
il dibattito delle scienze sociali si è articolato in due grandi
posizioni: da una parte, quelli che hanno interpretato questi nuovi
attori come il prodotto perlopiù contingente delle disfunzioni della
democrazia rappresentativa; dall’altra, quelli che sostengono il
carattere strutturale e dunque tendenzialmente permanente del
neo-populismo. Dato di partenza per entrambi è la crisi della
globalizzazione neo-liberale, innescatasi nel 2007-2008.
Il libro
di Ferruccio Capelli Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il
farmaco populista (Guerini e Associati, pp.214, euro 19,50) cerca una
mediazione tra queste due posizioni, offrendo una lettura di lungo
termine delle radici sociali del neo-populismo. Per Capelli, infatti, le
mobilitazioni neo-populiste sono il prodotto strutturale della «grande
trasformazione» apportata dalla globalizzazione, sin dal suo apparire,
all’indomani del crollo del socialismo reale. In particolare su tre
piani: quello politico e della sfera pubblica, con la comparsa della
«democrazia disintermediata». Una forma politico-comunicativa,
alimentata in particolare dalle tecnologie digitali, nella quale i corpi
intermedi (partiti, associazioni, sindacati ma anche mass media)
entrano in crisi nella loro funzione di mediazione degli interessi e di
rappresentanza a favore di un pluralismo politico individualizzato,
disorganizzato, dominato dalle connessioni virtuali e dirette tra
cittadini e leader (si pensi alla centralità di Twitter nello stile
politico di Trump).
QUELLO SOCIALE, con l’evaporazione dei legami
di gruppo e comunitari. Un processo che getta nella solitudine
involontaria la gran parte delle persone, collocandole in una nicchia di
insicurezza, paura e ignoranza crescente. Quello culturale, con il
declino di quelle «grandi narrazioni» novecentesche legate a parole
chiave come progresso, che non consentono più né di immaginare il futuro
né di decodificare i cambiamenti in atto, producendo un senso di
spaesamento e impotenza generalizzati. Questi tre processi hanno
inverato la diagnosi che Christopher Lasch aveva formulato già negli
Anni Novanta del Novecento: un crescente divario tra le élites politiche
ed economiche avvantaggiate dalla globalizzazione e i ceti medi e
popolari, verso i quali si sono scaricati i costi della «grande
trasformazione».
NEL MOMENTO in cui tramonta l’interscambio tra
questi macro-gruppi sociali e si accentua l’incomunicabilità politica,
sociale e culturale tra il «vertice» e la «base» della piramide sociale,
la democrazia rappresentativa perde la possibilità di funzionare
adeguatamente. Privata di una reale classe dirigente e di un pubblico
informato e partecipativo.
IL NEO-POPULISMO è allora un attore
politico, uno stile comunicativo e di leadership, e una narrazione che
nasce come tentativo di offrire, con i mezzi e i linguaggi a
disposizione (come quelli della democrazia disintermediata), nuove
modalità di rappresentanza in particolare ai più colpiti dalla
globalizzazione: i ceti popolari.
Per Capelli, dunque, il
neo-populismo sarebbe soprattutto un umore, uno stile, una mentalità
politica prevalente che, nelle sue magmatiche e multiformi espressioni,
ripropone la centralità del popolo e ne costruisce identità e forme
attraverso l’appello diretto del capo (ormai post-ideologico),
l’individuazione di continui nemici (prime, tra tutti, le élites), rei
di affamare o tradire il popolo stesso, attraverso vari, presunti,
«complotti».
Il neo-populismo è insomma la risposta politica
regressiva, la «retrotopia» contemporanea opposta allo spirito utopico
della modernità della quale parla Bauman, che si afferma non dalla crisi
della globalizzazione ma, al contrario, dal suo trionfo. Il
neo-populismo è dunque un farmaco nel doppio senso etimologico del
termine: è ciò che cura ma anche ciò che avvelena. Ciò che fa emergere
il problema non più rinviabile della rappresentanza popolare e
democratica all’interno della globalizzazione, e ciò che rischia di
precipitare il mondo in una nuova epoca di chiusura, intolleranza e
persino guerra mondiale. Capelli propone una nuova battaglia
politico-culturale come tentativo di costruzione di percorsi di
sottrazione dei ceti popolari e medi dalle sirene del neo-populismo,
attraverso la trasformazione del modello di sviluppo. Questi deve essere
meno diseguale, più sostenibile e maggiormente centrato sull’obiettivo
di favorire la crescita delle competenze e delle chance di vita delle
persone, in tutto il mondo.
ESATTAMENTE nel modo in cui Amartya
Sen e Martha Nussbaum intendono tutto questo. Ma qui sta il punto più
debole dell’analisi di Capelli: di fatto, queste strade, insieme alla
politica dell’identità e della diversità, hanno ispirato tanto la
pratica quanto la teoria del riformismo di sinistra, liberal e radical,
nei venti anni precedenti. E, come testimonia l’ascesa stessa del
neo-populismo, sono ad un certo punto fallite o hanno perso di
legittimità. Ormai identificate agli occhi di molti cittadini come del
tutto organiche a quella globalizzazione neo-liberale che tanto li
avrebbe danneggiati. La sfida è dunque sì quella di rilanciare una nuova
battaglia politico-culturale nel paese e al livello globale, ma
cercando di individuare soluzioni e alternative che vadano oltre i
modelli già sperimentati anche nel recente passato. Un lavoro di
immaginazione politico-sociologica ancora tutto da fare.