Corriere 10.1.19
Le radici di una crisi
Gli errori delle élite globali
di Ernesto Galli della Loggia
Se
l’ondata nazionalista-identitaria si va tanto rafforzando in Europa
(secondo me è molto più esatto chiamarla così che con il termine
populismo. Il populismo infatti può avere contenuti e orientamenti anche
assai diversi tra loro, e semmai è solo un esito tra i molti possibili
dell’ondata suddetta), se ciò accade, dicevo, è in buona misura per una
ragione ovvia quanto spesso ignorata: e cioè per il fallimento delle
élite tradizionali del continente. Questo fallimento è stato un
fallimento ideologico-culturale prima ancora che politico, ed è stato
dovuto soprattutto all’identificazione con la globalizzazione e la sua
ideologia, divenute a partire dagli anni 80-90 del secolo scorso il
massimo e quasi unico punto di riferimento, la vera prospettiva pratica e
ideale delle élite occidentali. Questa conversione alla globalizzazione
è avvenuta per la presa d’atto della crisi, percepita come
irrimediabile, dei tre pilastri sui quali l’Occidente aveva realizzato
la sua ricostruzione politica postbellica: a) la crisi religiosa del
cristianesimo in progressiva ritirata di fronte all’offensiva della
secolarizzazione; b) la crisi del Welfare State, cioè della
redistribuzione del reddito nazionale pietra angolare della mediazione
sociale praticata da parte di tutte le forze di governo a cominciare da
quelle socialdemocratiche; c) la crisi dello Stato nazionale messo
nell’angolo dal multiforme internazionalismo egemone sulla scena
mondiale.
D i fronte a tale crisi, che in sostanza era la crisi
dell’intero universo politico che le aveva viste protagoniste per oltre
mezzo secolo, le élite occidentali abbracciano una nuova prospettiva: la
globalizzazione. E con essa fanno propri i suoi presupposti ideologici:
a) il liberismo e una piena fiducia nei meccanismi del mercato, b) un
individualismo di fondo, c) la presunta insignificanza storico-culturale
dei confini nazionali e la necessità del loro superamento. Ma
naturalmente per mantenere il consenso su cui si reggono esse non
possono sottrarsi dal promettere alle rispettive opinioni pubbliche che
comunque la svolta alle porte non solo vedrà la continuazione dello
sviluppo economico e dell’aumento dei redditi precedenti, ma
significherà anche un’espansione mondiale della libertà e della
democrazia (la disintegrazione del blocco comunista appena avvenuta, la
prima guerra del Golfo, la rivolta di piazza Tien An Men a Pechino non
stanno forse lì a dimostrarlo?).
La storia degli ultimi dieci anni
è la storia del fallimento di tali promesse. Ed è per questo se in
quasi tutti i Paesi occidentali le élite tradizionali stanno subendo un
generale processo di delegittimazione che mette in crisi i rispettivi
sistemi politici. È per questo che si assiste dovunque ai successi
dell’attacco nazionalista-identitario contro di esse e contro i loro
partiti.
Infatti sono fallite innanzi tutto le aspettative
economiche. Com’era forse inevitabile (ma comunque non previsto in tale
misura), dal punto di vista produttivo e dell’ incremento relativo del
Pil la globalizzazione ha favorito assai più le aree extraeuropee che il
nostro continente dove ha dato il via a massicci fenomeni di
delocalizzazione e di smantellamento industriale (quindi di perdita di
occupazione). Dal canto suo l’assoluta libertà di circolazione dei
capitali ha prodotto una patologica finanziarizzazione dell’economia,
causa non ultima di crisi bancarie importanti che hanno avuto forti
conseguenze recessive.
Su questo panorama già di per sé piuttosto
grigio si è poi abbattuta l’onda lunga di due mutamenti epocali,
entrambi indipendenti come origine dalla globalizzazione ma che da essa
hanno tratto forza e hanno finito per confondersi simbolicamente con
essa.
Il primo mutamento è stato la rivoluzione
elettronico-telematica, l’introduzione dovunque del computer.
Specialmente questo fatto ha avuto conseguenze dirompenti sul mercato
del lavoro. Moltissimi settori, in specie impiegatizi, sono stati
letteralmente falcidiati, il commercio al minuto sconvolto
dall’e-commerce, e un po’ tutti i lavori hanno subito modifiche
sostanziali che hanno costretto i loro addetti a una riqualificazione o a
essere espulsi. Le maggiori vittime sono stati alcuni strati del ceto
medio e gli individui in età matura: in complesso una parte non proprio
irrilevante della popolazione.
La seconda frattura è stata
rappresentata dal combinato disposto che ha fatto irruzione a partire
dagli attentati a dell’11 settembre consistenti nella diffusione del
fondamentalismo islamico dall’Asia all’Africa alle metropoli d’Europa,
nell’esplosione del Medio Oriente, e nelle migrazioni transmediterranee.
È
per l’effetto congiunto di questo insieme di fenomeni che
l’investimento ideologico effettuato negli ultimi trent’anni dalle élite
occidentali sulla globalizzazione, cioè la scommessa mirante a fare di
questa la bussola per le proprie scelte strategiche e insieme la base
duratura per il consenso ai regimi dei propri Paesi, e dunque per la
continuazione della propria egemonia politica nel nuovo secolo, è stata
perduta. Si è dimostrata vana, insomma, la speranza di sostituire con
nuovi ingredienti ideologici le antiche certezze che avevano presieduto
allo sviluppo delle democrazie europee dopo il ’45.
In conclusione
l’età della globalizzazione rappresenterà pure il nostro definitivo
destino, come ci viene ripetuto da anni, ma sta di fatto che finora essa
non ha visto migliorare significativamente le condizioni di vita delle
popolazioni occidentali. Tanto meno ha assicurato l’esistenza di un
mondo più cordialmente «vicino» e pacifico, una convergenza delle
culture, una diffusione dei valori della libertà e dei suoi istituti:
anzi. Mentre per mille segni vacillano organizzazioni internazionali o
multinazionali come l’Unione europea che della globalizzazione dovevano
essere in qualche modo l’interfaccia privilegiata, e le classi dirigenti
del continente balbettano o non sanno fare altro che riproporre vecchie
ricette.
A questo fallimento, beninteso, la protesta
nazionalista-identitaria contro le élite non è in grado di offrirsi
neppure lontanamente come un’alternativa credibile. È solo pura protesta
e basta. Non è la medicina, bensì in qualche modo è essa stessa la
malattia. Ma il terreno di coltura del virus non sta in questa protesta
che nasce dal basso: sta in alto.