il manifesto 10.1.19
Il naufragio dell’Italia che il governo vorrebbe nascondere
La
crisi di Malta. Ignoranza dei fatti, spregio verso i diritti della
persona, speculazione elettorale è contro questo apparato politico e
ideologico che si sono battute le Ong Sea Watch e Sea Eye. La
partecipazione dell’Italia all’operazione, dopo tante figuracce, è
tuttora incerta. O destinata comunque a produrre turbolenze violente
nell’esecutivo
di Luigi Manconi, Federica Graziani
«Non
siamo pesci, non siamo pescatori, non possiamo rimanere in acqua»: così
Fanny, fuggita da un conflitto armato in Congo e per 19 giorni a bordo
della nave Sea Watch.
Intorno alle 12 di ieri il primo ministro
maltese Joseph Muscat ha annunciato che l’Unione Europea ha trovato un
accordo sulla drammatica situazione delle due imbarcazioni delle
organizzazioni non governative Sea Watch e Sea Eye, che da settimane
chiedevano invano alle autorità dei paesi europei un porto di sbarco
sicuro. I 49 profughi salvati dalle Ong sono stati trasbordati quindi
dalle due navi su mezzi militari maltesi e, portati finalmente a terra,
saranno dislocati tra otto Paesi europei. L’intesa comprende anche i 249
migranti che Malta aveva soccorso a fine dicembre e la cui
redistribuzione era l’irrinunciabile condizione per acconsentire allo
sbarco. Fin qui, i fatti.
MA QUAL È STATO il ruolo dell’Italia in questa malinconica e crudele vicenda?
Nei
circa venti giorni di calvario marittimo dei 49 naufraghi le
istituzioni italiane, nelle persone di coloro che hanno responsabilità
politica sulle decisioni relative agli sbarchi, hanno ben chiarito le
rispettive posizioni.
«TRA DONNE E BAMBINI ci sono dieci persone.
L’Ue nasconde la testa sotto la sabbia. Di fronte a questo disimpegno
ignobile, siamo pronti ad accoglierli». A dirlo, ma solo dopo il
quattordicesimo giorno di mare dei profughi, il vicepresidente del
Consiglio Luigi Di Maio. Ripreso qualche giorno dopo da Danilo
Toninelli, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti: «Donne e
bambini, mi va benissimo, anche 15, poi diremo a tutta l’Europa che
dovrebbe vergognarsi».
La bizzarra lezione pedagogico-morale che
Di Maio e Toninelli intendono impartire all’Europa si regge tutta sul
presupposto di un adamantino curriculum etico dell’Italia e di un
impegno straordinario cui il nostro paese, bontà sua, si piegherebbe in
ragione della irresistibile commozione che minori e persone di sesso
femminile inducono anche nel cuore più arido. La separazione coatta dei
nuclei familiari, già duramente provati da tanti giorni di navigazione
veniva trascurata quasi fosse un dettaglio insignificante, prima che un
soprassalto di buon senso inducesse alla ragione il presidente del
Consiglio, che parlava di una disponibilità «verso le famiglie».
E
così è stato bellamente ignorato che l’unico soggetto titolato e
responsabile, l’Ong Sea Watch, aveva dichiarato sin dal primo momento
l’indisponibilità ad accettare che una madre con figlio venisse spedita,
chessò, a Vercelli e il padre a Valencia. Dopo questo lungo travaglio,
si è infine giunti alla soluzione in via di ulteriore definizione nel
corso della giornata passata. Per quanto riguarda in particolare le
vicende del nostro cortile di casa, nella serata di ieri si sarebbe
tenuto un vertice nel quale il ministro dell’Interno intendeva ribadire
una posizione di «assoluta contrarietà a nuovi arrivi in Italia». Dunque
la partecipazione dell’Italia all’operazione, nella sua modestissima
funzione dopo tante figuracce, è tuttora incerta. O comunque destinata a
produrre, all’interno della maggioranza di governo, turbolenze violente
come mai in passato.
D’ALTRA PARTE, è naufragata – è proprio il
caso di dire – la tesi del ministro Toninelli, che ha accusato le due
Ong di non aver «restituito» i naufraghi a coloro dai quali fuggivano:
le milizie libiche che gestiscono i centri di detenzione. Interprete
ineffabile dell’antico adagio per cui «Si parte per tornare», il
ministro Toninelli ha sostenuto una ricostruzione dei due diversi
soccorsi di Sea Watch e Sea Eye che si discosta notevolmente dalle
testimonianze rilasciate dalle due Ong e dai diari di bordo delle
rispettive imbarcazioni che negano di avere ricevuto qualunque
disposizione dalla cosiddetta guardia costiera libica.
Vera o
falsa che sia l’una o l’altra versione, la sostanza dell’invito del
nostro ministro era che profughi e migranti tornassero in quei centri di
detenzione da cui oltre il cinquanta per centro di loro era fuggito per
tentare la traversata del Mediterraneo. Centri che il più recente
rapporto dell’Onu denuncia come luoghi di «inimmaginabili orrori»:
«reclusione arbitraria, percosse, bruciature con ferri caldi, torture
con cavi elettrici, molestie e violenze sessuali».
È stato questo –
ignoranza dei fatti, spregio verso i diritti fondamentali della persona
e speculazione elettorale – l’apparato culturale e politico-ideologico
contro cui si sono dovute battere, con grande saggezza e raggiungendo,
tra mille sofferenze e frustrazioni, l’obiettivo essenziale, le due
organizzazioni umanitarie Sea Watch e Sea Eye.
INFINE, e per
buttarla volutamente in caciara, va detto che forse la vicenda risulta
così indigesta per la Lega in quanto agisce nel suo contorto inconscio
collettivo: quei 49 evocano sinistramente, per la Lega, una cifra (49,
ma di milioni) che porta lo stigma dell’imbarazzo e della vergogna.