Repubblica 10.1.19
I tanti volti del padre della psicanalisi
Un Don Chisciotte di nome Freud
di Pietro Citati
Sigmund
Freud era un uomo delizioso, spiritoso ed elegantissimo. Aveva solo
un’ombra, l’ebraismo orientale, che pesava su di lui con inquietudine.
Fumava incessantemente. Giocava a scacchi e a tarocchi. Scriveva senza
fine, come se fosse dominato dai demoni o misteri. Viveva sotto il segno
del Faust e molto più del Don Chisciotte: era un vero Don Chisciotte.
Adorava Mefisto: tutto ciò che era demoniaco e diabolico (Faust non gli
bastava, sebbene Freud avesse dei dubbi, anche su Goethe, che gli
sembrava troppo simile a Thomas Mann). Viveva volentieri a Vienna, alla
Bergasse e di lì passeggiava con immenso piacere nelle campagne, per
quanto a volte scendesse a Venezia e addirittura in Sicilia, come Goethe
un secolo prima. Chi osava fermarlo? Si stancava volentieri e soffriva
facilmente di depressione e di nulla: di vuoto. Ma lo spazio non gli
bastava. Cercava l’infinito: Parigi e, giù giù, fino a Girgenti,
imitando il meraviglioso viaggio di Goethe in Sicilia. Ma questi erano
viaggi intellettuali: tutti i luoghi dell’Austria: dove era anche il
nulla, e il suo fortissimo senso del dovere. Andava in giro con una
giacca grigia informe, pantaloni chiari e un cappello grigio. Più di
ogni altro libro amava il Don Chisciotte, perché incarnava una parte
intensissima della sua anima, proprio quella che, rapidamente, l’avrebbe
portato nella follia. Ma, se amava il Don Chisciotte, tornava sempre a
Mefistofele, di cui aveva a volte ereditato il cinismo. Coltivava poche
parole: la colpa, la repressione, l’isteria, la nevrosi, che riuscì a
controllare, ma non a reprimere.
Malgrado le leggende che lo
circondavano, Freud era lieto, allegro, scatenato: si riempiva di
cocaina: apprezzava la Carmen; di nuovo come Goethe giocava con la
natura e si nascondeva dietro di essa: ammirava Virgilio: alternava
l’amore per gli scacchi con quello per i tarocchi, spingendosi sempre
più oltre, sempre più lontano, chissà dove, elaborando teorie, ogni
volta più geniali, che i suoi contemporanei giudicavano assurde.
Nacquero così, quasi per caso, le grandi teorie dell’Io e Es, del
Super-io, Eros e Morte, la coazione a ripetere; e l’idea di Mosè, il
Mosè di Michelangelo: si inoltrava sempre più nel mare immenso della
Teoria, che rischiava di soffocare lui e il mondo moderno. Avvertiva il
senso di colpa: soffriva di fenomeni isterici, emicranie e nevrosi. Non
conosceva ma disprezzava la medicina, proprio lui che era un grandissimo
medico. Alternava il senso della passione con quello della depressione e
della repressione, sempre vittima di grandiose contraddizioni. Con la
sua giacca grigia e i pantaloni rigidi, il grande cappello, sperimentò
il nulla. Gli piaceva. Nulla gli piaceva egualmente. Osava: osava ancora
e si gettava dove vengono alla luce i demoni e i misteri più oscuri,
che temeva e che cercava di possedere o addirittura di uccidere. Si
castigava per non essere medico e per non avere una minima idea di cosa
fosse la vera medicina: gli esploratori non sono medici – egli pensava.
Via via che passavano gli anni – 1895 o 1925 – progettava teorie, al
punto di assorbire il mondo. In certi anni, il vastissimo mondo
scomparve agli occhi di tutti. Non rimase più nulla.
Continuava a
leggere assiduamente: in primo luogo i capolavori di quel genio
irrazionale di Dickens, con la sua forza isterica od isteroide. Avrebbe
potuto scrivere il Dombey e figlio: il grande capolavoro romanzesco
dell’Ottocento. Amò la moglie, con una passione totale, che crebbe
sempre, avvolgendolo nelle sue reti. Coltivava i gioielli e tutte le
cose preziose e le cose che scintillavano.
Amava la sua casa di
Vienna, alla Bergasse. Esaltò Roma, Virgilio e il Mediterraneo. La sua
forza romanzesca era degna di quella dell’ultimissimo Dickens, sebbene
non dimenticasse mai il Circolo Pickwick. Ed è difficile parlare della
tenerezza e della violenza di cui invase la moglie, per cui nutriva un
amore illimitato. Negli ultimi anni della vita fu malato
gravissimamente. L’isteria lo fece commuovere, e poi abolì la propria
isteria. La grande nevrosi si scatenò, producendo genialmente teorie su
teorie, fino a possedere il mondo.
Decantava Roma, secondo l’esempio di Goethe. Passeggiava.
Nuotava:
pescava. I sogni non lo abbandonavano mai. Era costruito di sogni, e
non poteva lasciarli un istante. Sentiva un forte senso di colpa e un
fortissimo senso di repressione, sebbene odiasse tutto ciò che era
rimorso. Scoprì Parigi, la Francia, quel grande medico che era Charcot.
Un’altra delle sue grandi scoperte era stata Roma – i gioielli di Roma,
anzi il modello di Roma. Non dimenticò mai il suo ebraismo orientale,
che aveva influenzato tutta la sua vita – da sempre. Esaltava la volontà
(e la detestava, visto che la volontà non serviva). Conobbe una grande
passione: la moglie, alla quale consacrò un affetto e un estro, che
nessuno avrebbe immaginato in lui. Fu una vita perfetta, senza
incertezze. Non si sarebbe mai detto che la passione per la moglie fosse
così assoluta – era l’equivalente delle sue dottrine psicologiche. Era
un vero gioiello.
Sapeva essere dolcissimo e tenerissimo per tutto
il periodo della sua vita. Quando Hitler conquistò l’Austria e la
Germania, Freud fuggì in Inghilterra: abbandonò l’Austria meravigliosa
rappresentata da Joseph Roth, che gli assomigliava profondamente con la
sua Marcia di Radetzky. A Londra gli asportarono l’osso della mandibola
al punto di impedirgli di parlare. Il cancro si diffuse rapidamente.
Taceva, taceva, sebbene continuasse a scrivere vorticosamente con la sua
grazia di grande classico. Morì fumando uno dei suoi dilettissimi
sigaretti. Chissà cosa pensasse e in quali vertigini si inoltrasse,
mentre, pazientissimo, ascoltava i messaggi di Thomas Mann e di Stefan
Zweig. «La verità – scriveva – non è praticabile: gli uomini non la
meritano mai. Ora, a ottantatré anni, sono più che mai scaduto; e non
posso che ripetere quello che diceva un altro dei miei maestri. La
verità non è praticabile»: come pensava il suo amatissimo Amleto.