Il Fatto 7.1.19
Il segno di Belzebù indelebile sul Paese
Imperitura
memoria – L’impronta lasciata sul seggio di Palazzo Madama da Giulio
Andreotti, in Senato dal ‘91 al 2013 dopo 45 anni passati alla Camera
di Pino Corrias
Come
le mani disegnate in rosso sulle parete delle caverne ci dicono che
l’uomo del Pleistocene passò da lì, così la gobba di Giulio Andreotti
incisa sul cuoio della sua sedia al Senato ci ricorda che in un tempo
remoto della Repubblica siamo stati tutti democristiani – volenti o
nolenti, eretti o quadrumani – lungo un’era che gli archeologi del
nostro tempo chiamano per l’appunto Andreottiana.
Il capostipite
era più alto di quanto oggi si possa immaginare. Aveva un pallore da
sagrestia su un volto senza labbra, le orecchie aguzze, il passo veloce e
scivoloso. Dormiva poco. Usciva ogni mattina all’alba per la Messa.
Faceva l’elemosina ai mendicanti raccolti sul sagrato. Mangiava in
bianco. Vestiva oscuri completi Caraceni col panciotto. Soffriva di
emicrania e di persistente disincanto. Nel raro tempo libero giocava a
gin-rummy e collezionava campanelli. Nell’ampio tempo del lavoro
accumulava nemici e segreti.
I nemici li ha seppelliti quasi
tutti. I segreti invece sono diventati la nostra storia e il suo
leggendario archivio, nutrito per molto più di mezzo secolo, da quando
la sua giovinezza fu rinvenuta tra le mura vaticane da Alcide De
Gasperi, futuro plenipotenziario della Democrazia Cristiana, più o meno
mentre le bombe degli angloamericani violavano il sacro suolo di Roma
città aperta, estate 1943, impolverando la stola di papa Pio XII.
A
24 anni Giulio stava già nel posto giusto, tra gli inchiostri
dell’eterno potere e al cospetto della grande Storia, intraprendendone
da allora i cospicui labirinti che lo condussero, tra maldicenze e
applausi, a indossare 27 volte i panni di ministro, 7 volte la corona di
presidente del Consiglio.
Per poi passare, a intermittenza, dalle
luci dello statista alle ombre del grande vecchio, 27 volte inquisito
dalla magistratura e 27 volte salvato dalle Camere che a maggioranza
negavano l’autorizzazione a procedere. Salvo soffriggere, udienza dopo
udienza, sul banco degli imputati del tribunale di Palermo, anno 1995,
per il celebre bacio a Totò Riina, e poi su quello di Perugia, dove era
accusato di essere il mandante dei quattro colpi di pistola con cui
venne cancellato il giornalista romano Mino Pecorelli, suo acerrimo
nemico, le sue imminenti rivelazioni sul caso Moro e su certi assegni
finiti tra i velluti e i sughi della sua corrente, detta anche lei
andreottiana.
Inciampi giudiziari mai davvero prescritti e che
hanno nutrito la sua leggenda nera – passata per Piazza Fontana, i
Servizi deviati, lo scandalo petroli, il Banco Ambrosiano, Gladio, la
morte solitaria del generale Dalla Chiesa sull’asfalto di Palermo – ma
anche il suo fatalismo romanesco di eterno sopravvissuto al suo stesso
danno: “Preferisco tirare a campare che tirare le cuoia” come recitava
la sua massima preferita, che poi era anche il cuore della sua politica,
talmente malleabile da rendersi disponibile a destra e a sinistra,
purché immobile sotto l’ombrello angloamericano e in cambio di un
costante incasso elettorale che gli garantivano, guarda caso, i collegi
del Lazio e della Sicilia. Oltre naturalmente alla benevolenza della
Chiesa, i sette papi che conobbe in vita, lasciandosi ispirare da una
fede mai troppo intransigente, disponibile all’umano peccato purché con
l’Avemaria sempre incorporata. “Quando andavano insieme in chiesa –
scrisse Montanelli – De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il
prete”.
La zia, i libri, la chiesa e la proposta al cimitero
A
dispetto del molto che avrebbe intrapreso, Giulio nasce fragile il 14
gennaio del 1919. Orfano di padre, cresce cagionevole aiutato da una
vecchia zia e dalla piccola pensione della madre. Fa il chierichetto e
lo studente modello. Si laurea in Giurisprudenza. Alla visita militare
il medico lo scarta e gli pronostica sei mesi di vita. Racconterà:
“Quando diventai la prima volta ministro gli telefonai per dirgli che
ero ancora vivo, ma era morto lui”.
Diventa sottosegretario con De
Gasperi nel 1947, entra in Parlamento l’anno dopo. Ci rimarrà per
sempre. Sotto ai suoi governi è nata la Riforma sanitaria, è stato
legalizzato l’aborto, firmato il Trattato di Maastricht. E dentro alla
sua ombra l’Italia è diventata un Paese industriale, alfabetizzato, un
po’ più europeo, un po’ meno cialtrone, al netto del clamoroso debito
pubblico e delle quattro mafie.
A trent’anni si sposa,
dichiarandosi a Donna Livia “mentre passeggiavamo in un cimitero”. Avrà
quattro figli. Una sola segretaria, la mitica Enea. Una sola vocazione:
“Non ama le vacanze – dirà la figlia Serena – non ama il mare, non ama
le passeggiate. La verità è che se non fa politica si annoia”.
Amici scomodi e nemici uccisi sempre col sorriso
Diventandone
il prototipo incorpora tutti i pregi e i difetti dei democristiani.
Conosce la pazienza e la prudenza. Uccide gli avversari con estrema
gentilezza e sorride per buona educazione. È in confidenza con Kissinger
e ammira Arafat. Si commuove alla morte di Paolo VI e a quella di
Alberto Sordi, che poi sarebbero il sacro e il profano della sua
esistenza. Maneggia il potere in silenzio, come un gioco di prestigio. E
i cattivi come fossero i buoni. Tra i banchieri d’avventura predilige
il piduista Michele Sindona, quello del crack della Banca Privata, a cui
aveva appena conferito il titolo di “salvatore della lira”, per poi
guardarne imperturbabile il naufragio dentro a un caffè avvelenato,
nella cella singola di San Vittore, detenuto per l’omicidio di Giorgio
Ambrosoli.
Non ha amici, ma soci momentanei di cordata, mai
Fanfani e De Mita, qualche volta Forlani, più spesso Cossiga che lo
nominerà senatore a vita. Educa Gianni Letta a fargli da scudiero per
poi affidargli il giovane pupillo piduista Luigi Bisignani. Tutti i suoi
sottocapi sono tipi da prendere con le molle: Vittorio Sbardella, detto
“lo squalo” mastica per lui il Lazio. Ciarrapico è il re del saluto
romano, delle acque minerali e degli impicci da sbrogliare. Franco
Evangelisti è il faccendiere di “A Fra’ chette serve?”. Cirino Pomicino,
detto “’O ministro” digerirà a suo nome 42 processi e 40 assoluzioni. E
naturalmente Salvo Lima, il suo alter ego in Sicilia, morto sparato tra
i cassonetti di Mondello per ordine dei corleonesi, la mattina del 12
marzo 1992, alba della stagione delle stragi.
Esecuzione che
cancellò il suo unico sogno inconcluso, quello di salire al Quirinale,
indossare finalmente i panni di presidente della Repubblica e (forse)
sistemare gli scheletri del suo notevole armadio. Cominciando dallo
scandalo fondante, anno 1963, il tentato golpe di un certo generale De
Lorenzo, capo dei servizi segreti, e la scomparsa dei fascicoli che
aveva accumulato sui protagonisti della vita pubblica italiana. Archivio
quanto mai avvelenato e formidabile arma di ricatto che proprio
Andreotti, all’epoca ministro della Difesa, era incaricato di
distruggere. E che invece sarebbe riemerso nelle molte nebbie future e
persino nei dossier di Licio Gelli, il finto o vero titolare della
loggia massonica P2, forse a fondamento di un suo potere sussidiario
esercitato per conto (proprio) di chi li aveva maneggiati per primo.
Da Moro agli anni di B.: è lui il capo dei diavoli
“Livido,
assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria”, gli avrebbe scritto Aldo
Moro dalla prigione brigatista, colmo di rancore e di rassegnazione per
il nulla che il governo di solidarietà nazionale riuscì a fabbricare
nei 55 giorni impiegati da Mario Moretti a eseguire la sentenza.
Bettino
Craxi lo battezzo Belzebù, il capo dei diavoli. Lo temeva e forse lo
ammirava, ma non imparò nulla dalla sua quieta imperturbabilità nelle
aule di Giustizia e una volta inquisito da Mani pulite, strillò così
tanto, da dichiararsi colpevole, pretendere l’impunità e finire
latitante.
A differenza di quasi tutti, Andreotti non si lasciò
sfiorare dalla volgarità delle tangenti, che lasciò volentieri alle
mandibole dei suoi. Né dall’incantesimo delle notti romane. Una sola
volta una nobildonna provò a trascinarlo sulla pista da ballo: “Non ho
mai danzato con un presidente del Consiglio”, gli disse lei leziosa.
“Neanch’io” rispose lui secco, allontanandosi.
Non capì il bianco e
nero di Berlinguer e non prese mai sul serio i troppi colori di
Berlusconi. Sopravvisse alla morte della Dc e di due repubbliche.
Scrisse migliaia di pagine senza mai rivelare un segreto. Sembrava
eterno. Sembrava un destino. Invece anche lui, uscendo di scena a 94
anni, incollato alla sedia e in piena luce, è diventato un altro
anniversario del nostro buio.