Il Fatto 7.1.19
Il Divo che commise il reato di associazione con la mafia
di Gian Carlo Caselli
Subito
dopo la morte di Falcone e Borsellino ho chiesto il trasferimento a
Palermo. Ho avuto l’onore di guidare la procura di questa città per
quasi sette anni. Nel contrasto all’ala militare di Cosa nostra i
risultati sono stati imponenti: basti ricordare gli innumerevoli
processi contro mafiosi “doc” conclusi con condanne per 650 ergastoli e
un’infinità di anni di reclusione. Ma la mafia (tutti son bravi a dirlo,
pochi a trarne le conseguenze sul piano investigativo) non è solo
“coppola e lupara”. È anche complicità e collusioni assicurate da
“colletti bianchi”. Ecco quindi vari processi contro imputati
“eccellenti”. Fra gli altri Marcello Dell’Utri e Giulio Andreotti. Del
primo (condannato in via definitiva a sette anni di reclusione) non si
parla, se non quando vengon fuori i suoi problemi di salute. Del secondo
è stata calpestata e fatta a pezzi la verità che emerge chiara dagli
atti.
In primo grado c’è stata assoluzione, sia pure per
insufficienza di prove. In Appello (mentre per i fatti successivi è
stata confermata tale assoluzione) fino alla primavera del 1980
l’imputato è stato dichiarato colpevole, per aver commesso (sic!) il
reato di associazione a delinquere con Cosa nostra. Il reato commesso è
stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente commesso. La Cassazione
ha confermato la sentenza d’appello e quindi anche la penale
responsabilità dell’imputato fino al 1980. Processualmente è questa la
verità definitiva ed irrevocabile. Ed è evidente che chi parla di
“assoluzione” è fuori della realtà. Non esiste in natura, è una
bestemmia la formula “assolto per aver commesso il reato”.
La
corte d’Appello si è basata su prove sicure e riscontrate. Ad esempio,
ha ritenuto provati due incontri del senatore con il “capo dei capi” di
allora , Stefano Bontade, per discutere il caso di Pier Santi
Mattarella, integerrimo capo della Dc siciliana, che pagò con la vita il
coraggio di essersi opposto a Cosa nostra. La corte sottolinea tra
l’altro che l’imputato ha “omesso di denunziare elementi utili a far
luce [sull’omicidio] di cui era venuto a conoscenza in dipendenza dei
suoi diretti contatti con i mafiosi”. Secondo la corte d’Appello,
Andreotti ha contribuito “al rafforzamento della organizzazione
criminale , inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza
politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del
potere legale. Così realizzando “una vera e propria partecipazione
all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”.
Chi
ha nascosto o stravolto la verità – oltre a truffare il popolo italiano
in nome del quale si pronunziano le sentenze – non ha voluto elaborare
la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come
in una certa fase, almeno parzialmente, si è formato il consenso nel
nostro Paese. Ma in questo modo si rende un pessimo servizio alla
qualità della democrazia. Perché si finisce per legittimare (ieri, oggi e
domani) la politica che ha rapporti con la mafia.