Il Fatto 7.1.19
Il verde pubblico martoriato
di Tomaso Montanari
“Le
città italiane sono le più povere di verde pubblico d’Europa: e i
parchi storici scampati alle lottizzazioni sono in condizioni pietose.
Un esempio è il parco di Monza, di 680 ettari, creato da Napoleone nel
1805 (progettisti Luigi Canonica e Luigi Villoresi) capolavoro di
competenza botanica e paesistica, unico grandioso polmone verde nella
congestionata area metropolitana milanese settentrionale. Ma da noi il
verde non è considerato altro che un ripostiglio dove relegare quel che
non si sa dove mettere: così il gran parco è per oltre la metà
privatizzato da corpi estranei: allevamento di cani e cavalli, golf,
ippodromo e, peggiore di tutti, l’autodromo”. Così scriveva nel 1987, su
l’Espresso, Antonio Cederna: oggi, trentuno anni dopo, non solo la
battaglia per allontanare l’autodromo sembra persa per sempre, ma la
privatizzazione è avanzata a grandi passi, fino a travolgere la stessa
Villa Reale.
Ripercorrere la storia tormentata di questo
straordinario monumento significa misurare l’inarrestabile decadenza che
l’idea stessa di bene comune ha dovuto subire in questi trent’anni. Nel
1996 la Villa venne sdemanializzata e passata in proprietà dei Comuni
di Milano e di Monza: così finiva l’idea stessa di un “monumento
nazionale”, e a causa del contemporaneo massacro della finanza degli
enti locali, quel monumento veniva condannato a una vita di stenti. Nel
2008 è stato costituito un Consorzio Villa Reale e Parco di Monza cui
affidare il compito di valorizzare il bene: cioè in pratica di
piazzarlo, in qualche modo, sul mercato. Detto fatto: nel 2010 un
raggruppamento di imprese private for profit denominato Nuova Villa
Reale spa si è aggiudicata la gestione ventennale del monumento. Contro
tutto questo si oppose Legambiente, presentando un ricorso che fu
rigettato dal Tar, che in sentenza affermò che l’attività del gestore
sarebbe stata condizionata da paletti irremovibili, come la destinazione
della Villa ad attività compatibili con il suo carattere
storico-artistico e come la necessità di garantirne la fruizione
pubblica: come peraltro dispone il Codice dei Beni culturali.
Oggi
possiamo dire che aveva ragione Legambiente: e possiamo dirlo grazie ad
un comitato di cittadini nato per vegliare sul parco e sulla Villa e
che si è voluto intitolare proprio ad Antonio Cederna, sorta di nume
tutelare del bene più prezioso di Monza. Il comitato ha denunciato in
tutte le sedi un fatto clamoroso, che costituisce un triste primato
anche nel martoriato mondo dei beni culturali italiani. La Villa è stata
chiusa al pubblico per la bellezza di un mese (dal 1° novembre al 1°
dicembre del 2018) perché Luxottica ha affittato gli Appartamenti Reali e
parte del giardino al prezzo (da saldo stracciatissimo) di 25.000 euro.
Non si trattava di un evento culturale: ma semplicemente della
possibilità di utilizzare una location strepitosa per il proprio
business. Una destinazione puramente commerciale inconciliabile con il
carattere storico e artistico della Villa. In più, per questo
lunghissimo periodo nessun cittadino italiano, pur mantenendo il
monumento con le proprie tasse, è potuto entrarci: nella più radicale
negazione di ogni fruizione pubblica.
Subito dopo aver portato a
casa questo capolavoro di valorizzazione, il concessionario ha chiesto
formalmente al Consorzio di poter cambiare le condizioni di gestione
chiudendo la Villa non solo il lunedì (tradizionale giorno di riposo),
ma anche il martedì e il mercoledì, cioè per un terzo del tempo di
visita che per contratto è tenuto a garantire. Sarà la magistratura ad
accertare se la vicenda di Luxottica è stata corretta sul piano legale e
sarà il Consorzio a decidere se accettare o meno il parziale disarmo
della Villa. Ma comunque finiscano queste due vicende sul piano formale,
la sostanza è chiarissima: ed è che il declino iniziato con l’uscita
dal Demanio dello Stato e con l’ingresso nella proprietà degli enti
locali ha portato ad una privatizzazione oggi insostenibile per lo
stesso privato, costretto o a tener chiuso o far quattrini in modi che
umiliano il monumento e ne negano il senso profondo. Se fossimo un Paese
serio, il Ministero per i Beni culturali dovrebbe raccogliere e
pubblicare i dati che permettano di conoscere e valutare l’esito dei
numerosissimi percorsi, del tutto analoghi, che altri monumenti pubblici
capitali hanno dovuto compiere nello stesso numero di anni. Si
scoprirebbe così che il disastro è diffuso, e forse si potrebbe avere la
forza di tornare indietro, prendendo atto della realtà. Che è la
seguente: nessun privato riesce a ricavare profitto dai grandi
monumenti, se non a condizione di “violentarli”. Ed anche essendo
disposti a farlo, i risultati sono modesti e in ultima analisi non tali
da sostenere l’operazione. Bisogna avere il coraggio di prendere atto
che in nessun luogo il patrimonio culturale si automantiene né tantomeno
genera reddito (se non in senso indiretto). Come ben sanno i loro
direttori, i grandi musei americani non incrementano, ma piuttosto
“consumano”, i frutti dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari che
li sostengono: e lo fanno per produrre “cultura”. Come ben sanno i
cittadini di Monza, la Villa e il Parco possono rendere: ma in termini
di umanità, felicità, coesione sociale. Se lo Stato tornasse ad essere
interessato a questo tipo di dividendi, potrebbe decidere di investirci.
Per secoli l’abbiamo fatto: il risultato si chiama Italia. O forse,
così si chiamava.