Il Fatto 7.1.19
Il futuro della Siria dipende dalla sfida tra Istanbul e Riad
Dopo
anni di paralisi, all’improvviso tutti si muovono sullo scacchiere
geopolitico del Medio Oriente. Tutti tranne l’Europa. Il segnale della
svolta è stato l’apertura dell’ambasciata degli Emirati a Damasco
di Mario Giro
La
riapertura dell’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti a Damasco segna
una svolta politica nella guerra siriana. Le potenze regionali (e non
solo) che si erano scontrate durante il lungo conflitto stanno cercando
una via di uscita dalla crisi che si estende in tutta l’area. Nelle
stesse ore l’annuncio del presidente Donald Trump sull’interesse saudita
a investire nella ricostruzione del paese distrutto dal conflitto
rafforza questa impressione, soprattutto se unita alla decisione Usa di
ritirare le truppe che ancora difendono l’area controllata dai curdi del
Ypg, legati al Pkk.
Tutto si sta muovendo nella zona dopo anni in
cui le parti erano bloccate sulle loro posizioni: da una parte il
presidente siriano Bashar al-Assad e i suoi alleati Russia, Iran e
Hezbollah; dall’altra l’Occidente, gli Usa e i paesi del Golfo che
finanziavano a vario titolo parte della ribellione armata anti-regime. A
muovere per prima è stata certamente la Turchia, una volta acerrimo
nemico di Assad ed ora, dopo una serie di sterzate, partner di Russia e
Iran nella ricerca di una sistemazione finale del Paese. Tutti si
muovono su questo scacchiere geopolitico, tranne l’Europa, presa dai
suoi problemi interni.
I ribaltamenti emiratino e (prossimamente)
saudita devono molto ad alcuni recenti rovesci o gravi errori, come
l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato di Istanbul o
l’impossibilità di una vittoria nella guerra dello Yemen che ha condotto
al parziale cessate il fuoco sul porto di Hodeida negoziato dall’Onu in
Svezia. Le ambizioni del saudita Mohammed Bin Salman si sono dovute
riorientare e in questo senso gli Emirati paiono giocare un ruolo di
avanscoperta.
L’Arabia Saudita (con i suoi più stretti alleati nel
Golfo) pratica da tempo una politica a tutto campo, molto più
intraprendente del passato. Sono ormai note le aspirazioni saudite in
Africa sub-sahariana dove alla fase della propaganda wahabita, in atto
da decenni, ne segue una politico-economica ancor più aggressiva. La
penetrazione attraverso il Corno raggiunge anche la parte australe del
continente e le sue risorse minerarie e alimentari. Vigilando da vicino
ciò che i cinesi vi stanno realizzando (porti, infrastrutture, logistica
e trasporti), i sauditi non lesinano in aiuti allo sviluppo e sono
presenti in varie aree di crisi o di nuova industrializzazione. C’è poi
un’attività sempre accorta da parte di Riad in Medio Oriente e uno
scivolamento nei rapporti con i Paesi europei, una volta visti come
partner ma oggi solo come mercati. Inoltre il recente rimpasto di
governo ha dato la dimensione della resilienza del giovane leader
saudita.
Resta da vedere come evolverà la concorrenza
inter-sunnita con Ankara su quale sia il miglior modello “islamista” da
esportazione: wahabiti/salafiti o fratelli musulmani? La crisi con il
Qatar dipende da tale nodo ancora da sciogliere, anche se le tensioni si
stanno abbassando. Dal canto suo l’America di Trump mantiene le sue
promesse: essere imprevedibile su ogni quadrante. L’improvvisa scelta di
ritirare i militari dalla Siria, abbandonando i kurdi siriani anche a
costo di perdere il generale Jim Mattis, ormai ex segretario alla
Difesa, prelude ad una fase di riavvicinamento con Ankara, già in atto
dopo le liti degli ultimi anni che avevano raffreddato le relazioni tra i
due Paesi.
Ogni mossa americana è concordata con la Russia, ma
soprattutto con Israele, attiva in tutti i campi sia per la tradizionale
politica di sicurezza ma anche per cogliere nuove opportunità, come
appunto i recenti nuovi legami con il Golfo. Resta irrisolto per ora il
grande tema iraniano, principale preoccupazione israeliana e un punto
interrogativo per tutti. Sarà Assad a trovare il modo di “ringraziare” i
suoi alleati più scomodi rimandandoli a casa o servirà qualche
ulteriore pressione? Damasco stessa è incerta tra lo sbarazzarsene o
continuare a giocare uno contro l’altro i suoi alleati (tra cui uno
nuovo: la Turchia). Gli americani contano sui russi per allontanare
definitivamente la presenza di Teheran dalle frontiere con Israele (ora
le loro basi in Siria sono a circa 80 km) ben sapendo che le sole
sanzioni e la fine dell’accordo sul nucleare non saranno sufficienti.
Anche
se qualcuno a Washington prevede uno showdown militare, sembra che la
soluzione verrà piuttosto da una progressiva alchimia di posizioni.
D’altronde Mosca può a giusto titolo affermare di aver visto giusto e di
aver vinto la sua sfida: dell’opposizione armata siriana non restano
che pochi spezzoni il cui destino è nelle mani di Ankara. Tuttavia il
presidente russo Vladimir Putin deve ancora riuscire a “vincere la
pace”: stabilizzare l’intera area e ottenere gli aiuti per la
ricostruzione della Siria. Il primo obiettivo necessita la
rassicurazione degli interessi di tutti i protagonisti mediante la
creazione di un nuovo quadro siriano di cui non si vedono ancora i
contorni. Per il secondo scopo servono davvero tanti denari: il Paese è a
terra. Mosca non può che rivolgersi a chi ha le risorse: ai Paesi del
Golfo e agli occidentali, in particolare agli europei. È forse la
residua possibilità per questi ultimi di “contare” qualcosa nella crisi
siriana, cercando di ottenere almeno un parziale cambiamento del regime.