Il Fatto 6.1.19
Perché il governo odia gli immigrati e difende i ricchi
di Giorgio Meletti
C’è
una nota stonata nella canzone del conflitto cantata dal governo
gialloverde. Negli stornelli improvvisati da Matteo Salvini – e
accompagnati dal coro a bocca chiusa di Luigi Di Maio e dei suoi – essi
si battono per i poveri, non meglio identificati. Però il conto della
redistribuzione di ricchezza non viene presentato ai ricchi ma a
improbabili caste di privilegiati quali i pensionati, gli immigrati con
le loro pacchie, i dipendenti pubblici, i centri sociali e il settore
non profit. Esempio: Salvini non ha mai speso una parola sulla
scandalosa rendita autostradale dei Benetton, lasciando alla sua
criptoalleata Roma-centrica Giorgia Meloni il compito di associare la
parola “pacchia” alla famiglia del nord-est.
I grandi imprenditori
e i loro fedeli e strapagati manager non si toccano. In perfetta
continuità con la retorica dei governi precedenti (nessuno escluso),
anche Lega e M5S si prostrano grati davanti a coloro che “creano i posti
di lavoro”. A parte che non è neppure vero, visto che oggi in Italia di
posti di lavoro ne mancano sei milioni, fa impressione
l’assoggettamento di maggioranza e opposizione al vecchio paternalismo
che ti fa togliere il cappello davanti al padrone, anche se sei un
ministro. Ma ormai il principio è chiaro. Se uno ha mille dipendenti e
ne licenzia la metà il governo italiano (oggi come ieri) corre a
ringraziarlo per aver salvato i 500 posti residui.
La
dimostrazione di come siamo messi male è la totale assenza di reazioni
politiche ai dati sugli stipendi dei grandi manager diffusi nei giorni
di Capodanno (mentre i nostri eroi erano a sciare) non da un centro
sociale, non dalla Cgil, non da un economista sovranista, ma dal Centro
Studi di Mediobanca. Ebbene, nel 2017 i 224 consigli d’amministrazione
delle società italiane quotate al listino principale della Borsa di
Milano sono costati 667 milioni. Se ai 3.300 beneficiari delle prebende
consiliari si potesse chiedere un sacrificio del 15 per cento degli
emolumenti, si farebbero gli stessi soldi che la manovra recentemente
approvata ha “trovato” con i tagli alle pensioni cosiddette d’oro. Ma
ovviamente il sacrificio non si può chiedere, perché i pensionati
prendono quello che il governo decide di dare, mentre i manager si
servono direttamente alla cassa delle aziende che governano.
E
infatti i 224 amministratori delegati hanno guadagnato in media 952 mila
euro. Vi chiederete se sono tanti o pochi, meritati o rubati. C’è un
criterio di valutazione infallibile: gli ad maschi in media prendono 1
milione, le femmine 428 mila euro. Quindi i casi sono due: o le donne in
quanto esseri difettosi meritano la metà degli uomini, oppure queste
retribuzioni vengono decise in modo arbitrario da una casta di maschi.
Ovviamente è la seconda che ho detto, infatti non è tanto la media di
952 mila euro a colpire, quanto il fatto che nel 2017, anno non certo
sfolgorante per l’economia italiana, lorsignori si sono assegnati un
aumento del 14,5 per cento rispetto agli 831 mila euro medi del 2016.
Solo di aumento si sono messi in tasca 121 mila euro a testa, di cui 99
mila euro di premio per i risultati conseguiti e 22 mila per la
cosiddetta parte fissa. Lorsignori hanno così deciso di meritarsi un
aumento dello stipendio base, quello che ti danno solo per andare in
ufficio indipendentemente dai risultati, pari a quanto un lavoratore
italiano medio guadagna in tutto l’anno. Se vi chiedete come sia
possibile che il “governo del cambiamento”, di fronte a un simile
fenomeno, veda la pacchia negli smodati cedimenti al piacere degli
immigrati in crociera sui barconi, la risposta è semplice: come i
predecessori, hanno paura dei ricchi e credono che la loro benevolenza
li aiuterà a durare. Come Matteo Renzi con i Farinetti, i Serra e i De
Benedetti, si illudono.