Il Fatto 6.1.19
Americhe, Europa: la pedofilia scuote la Chiesa
Gli orchi - Nuove accuse per l’ex arcivescovo di Washington, McCarrick. A Lione 70 scout abusati
di Giampiero Gramaglia
L’anno è nuovo, ma la spina per la Chiesa è sempre la stessa, annosa, secolare: le denunce di pedofilia fioccano in questo scorcio di 2019, dall’America latina al Nord America, mentre in Europa si aprirà, domani, a Lione, il processo a una cardinale accusato di avere coperto un prete pedofilo.
Se le parole del Papa in una lettera inviata ai vescovi Usa giovedì scorso erano consapevoli moniti, quelle dette ieri dall’anziano cardinale tedesco Walter Brandmuller, per il suo 90° compleanno, provano che la coscienza del problema non ha ancora pervaso tutto il clero: secondo Brandmuller, l’indignazione di cui la Chiesa è oggetto per gli scandali di pedofilia denota “un’ipocrisia sociale”, perché “quello che è accaduto nella Chiesa non è diverso da quello che accade nella società” – dove, però, certi crimini godono di scarsa copertura e di zero tolleranza.
Nella lettera ai vescovi Usa, il Papa afferma che gli abusi e le loro coperture minano la credibilità del clero e lancia un appello a una sorta di conversione per combattere gli abusi, mettendo da parte “vittimismi e atteggiamenti difensivi”. A sostegno della posizione papale, l’arcivescovo di Monaco di Baviera, cardinale Reinhard Marx, nell’omelia di Capodanno aveva sollecitato un rinnovamento della Chiesa, proprio alla luce del fallimento su pedofilia e abusi sessuali.
A febbraio, Papa Francesco ha convocato in Vaticano i presidenti di tutte le conferenze episcopali mondiali, proprio per decidere insieme le misure da prendere contro questa piaga, pur tenendo conto del fatto che la geografia degli abusi, almeno di quelli accertati, è molto diversa.
Le cronache sono implacabili. Domani, il processo di Lione vedrà imputato il cardinale Philippe Barbarin, che avrebbe coperto, ignorando le denunce e lasciandolo al suo posto, padre Bernard Preynat, che avrebbe abusato di 70 scouts tra gli Anni 70 e 80.Il cardinale, che ha sempre respinto le accuse, potrebbe conoscere il verdetto della giustizia laica già mercoledì 9.
Ieri, s’è saputo che un prete della diocesi di Talca, in Cile, è stato ridotto allo stato laicale: padre Luis Felipe Egana Baraona, un ex cappellano dei carabinieri, lo aveva espressamente chiesto, essendo finito sotto indagine per accuse di pedofilia a partire dal 1985. Il Papa ha accettato la richiesta “per il bene della Chiesa”. Il Cile è uno dei Paesi più scossi dal problema, con gli Usa, l’Irlanda e l’Australia. E giovedì si era saputo che un vescovo argentino, dimessosi per motivi di salute dalla responsabilità della diocesi nel 2017, ma poi assegnato dal Papa ad altri incarichi in Vaticano, è oggetto d’un’inchiesta: almeno tre sacerdoti lo accusano di abusi sessuali e altri comportamenti scorretti (anche economici). Il vescovo Augusto Zanchetta, 54 anni, è stato sospeso dal lavoro. Ma l’attenzione è alta soprattutto su quanto accade negli Usa, dove l’arcidiocesi di New York sta indagando su un terzo caso di abusi su minore riguardante l’ex arcivescovo di Washington ed ex cardinale Theodore McCarrick. Insieme a Boston e alla Pennsylvania, Washington pare il terzo polo della pedofilia ecclesiale nord-americana, oltre a essere una sorta di porto delle nebbie della Chiesa a stelle e strisce.
Le accuse a McCarrick emersero per la prima volta sei mesi fa: molestie su un ex chierichetto negli Anni 70. Un mese dopo, ecco le accuse di James Grein, il figlio di amici di famiglia del prelato, molestato da quando aveva 11 anni. Poi le accuse di molestie sessuali verso seminaristi adulti. Il terzo caso tre mesi fa: un uomo di circa 40 anni accusò McCarrick di abusi quando era minorenne.
Repubblica 6.9.18
Il vescovo Monsignor Antonio Staglianò
“La Chiesa sta con i sindaciche difenono l’umanità”
"È giusta l’obiezione dei sindaci e anche la Chiesa deve scendere in campo"
Si toglie la protezione umanitaria e si crea insicurezza sociale: così si ledono principi sanciti dalla Costituzione
di Paolo Rodari
ROMA «Come si fa a dire che non si può obiettare un decreto che togliendo la protezione umanitaria crea disagi sociali e insicurezza sociale? Qui si vanno a ledere i diritti fissati dalla Costituzione. I sindaci devono rispettare le leggi del Parlamento – non si può disobbedire alle leggi -, ma hanno anche il dovere di porre la questione della legittimità delle stesse leggi. Occorre più dibattito culturale, per favore». Il vescovo di Noto, monsignor Antonio Staglianò, delegato della Conferenza episcopale siciliana per le migrazioni, fresco autore per Rubbettino di Pop- Theology per giovani, riconosce il diritto dei sindaci a praticare l’obiezione di coscienza.
In questi giorni gli interventi della Chiesa in favore dei sindaci sono visti come interventi politici. È cosi?
«Tutto è politico, ma la politica non è tutto. Esiste uno spazio di riflessione assolutamente prepolitico, che intercetta dimensioni profonde dell’umano: la dignità e il rispetto dei diritti degli esseri umani. È doveroso in questo campo intervenire, pur rischiando di esseri frantesi e giudicati "di parte"».
Lei cita Fabio Concato: «Tutto qua», canta. In che senso?
«Concato canta "c’è un’umanità che è da difendere, è tutto qua!". Ma qual è questa umanità? È anzitutto la mia, la tua, prima di quella degli italiani poveri e dei poveri migranti. Le persone a bordo della Sea Watch 3 e della Sea Eye ci dicono: resta umano.
Sono io che devo restare umano, in ballo c’è la mia umanità, non è cosa difficile da comprendere».
Ci si può dichiarare credenti e non comprendere la necessità dell’accoglienza?
«Esiste un cattolicesimo convenzionale che sarebbe opportuno facesse i conti con l’affermazione di Benedetto XVI a Ratisbona: agire con violenza è contro la natura di Dio e dell’anima umana. E Papa Francesco insiste sempre nel dire che agire con violenza in nome di Dio è satanico».
Salvini cita spesso Giovanni Paolo II, il presepe, il crocifisso. Però poi dice che vengono prima gli italiani.
«C’è un grande equivoco culturale, pensare che il confessionalismo cristiano sia una questione che riguardi solo Dio. Invece il cristianesimo riguarda il senso, la verità e la giustizia della mia vita umana e di quella degli altri. Stringere in mano i segni sacri del cattolicesimo non dice ancor nulla del cristianesimo autentico. Chi vuole insegnare al Papa come dire il rosario farebbe bene a riconoscere, da credente, che tutti gli esseri umani sono creati a immagine e somiglianza di Dio, per cui ognuno è mio fratello, originariamente in Cristo, perché Cristo è l’immagine in cui tutti sono stati creati. Lo sanno questo i cattolici convenzionali?».
Cosa direbbe a Salvini se lo incontrasse?
«Fossi al posto suo, l’unica domanda che vorrei ascoltare è: cosa posso fare per portare qui, a terra, i miei fratelli che sono in mezzo al mare? Gli direi: immagina se ci fosse tuo padre su quelle navi. Cosa faresti?
Gesù è morto perché avrebbe "bestemmiato Dio", dicendo che Dio è solo e sempre amore, perciò Dio non fa male a nessuno, Dio non uccide i suoi nemici, il Dio guerriero non esiste. Gesù ha portato una nuova immaginazione del vecchio Dio. Lo aveva capito Fabrizio De André quando nella Buona Novella dice che prima uccisero quell’uomo in nome di Dio e poi in suo nome continuarono a uccidere».
Repubblica 6.1.19
La strada per fermare la tirannia di Salvini
di Eugenio Scalfari
Si potrebbe titolare questo articolo sul tema dello scontro tra i sindaci e il governo, ma non è esattamente così: i sindaci stanno creando un movimento che riguarda i loro poteri e doveri, indipendentemente dalla loro appartenenza a questo o a quel partito. C’è un solo palese avversario di questo inatteso movimento dei sindaci italiani ed è Matteo Salvini, sia per come la pensa sul problema dell’immigrazione e di quella che chiama sicurezza sia nel suo atteggiamento da primo ministro (anche se teoricamente non lo è) con tendenze evidenti verso una sorta di dittatura che più volte abbiamo esaminato.
La situazione attuale vede dunque un movimento di sindaci e la loro contrapposizione al governo Salvini, che tale può essere definito anche se il primo ministro è Giuseppe Conte e l’altro vicepremier è Di Maio. Infine, anzi per primo, c’è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale rappresenta il nostro Paese e vigila sul rispetto della Costituzione da parte dei provvedimenti che il governo in carica prende. Un paio di mesi fa lanciai l’idea di un movimento di sinistra, il quale avrebbe riunito fuori da ogni partito una pubblica opinione liberal-democratica e al momento del voto avrebbe appoggiato un Pd ricostruito, senza tuttavia entrare nel partito.
Mi resi però conto che, a un certo punto, il movimento non solo poteva coesistere con le idee del partito, ma avrebbe avuto anche personalità importanti che lo avrebbero guidato e nello stesso tempo avrebbero fatto il possibile per raggiungere cariche direttive fondamentali del partito.
Questa coesistenza della quale Matteo Renzi sarebbe stato uno degli elementi principali mi indusse a rivedere il legame tra movimento e partito che avrebbe causato una situazione difficilmente tollerabile.
Da allora sono passati un paio di mesi ed è nato qualcosa di molto diverso e di molto più diffuso di quel tipo di movimento che avevo pensato. Una diffusione nazionale che vede nei sindaci il suo elemento portante e opinioni politiche tutt’altro che limitate alla sinistra democratica. L’attuale e dilagante movimento dei sindaci contiene etichette politiche molto diverse. In gran parte dell’Italia settentrionale la motivazione è la Tav. La Tav nel suo più lato significato consente e rende anzi più facili i movimenti di tutti quelli che risiedono nelle città toccate dalla linea attraverso un piano europeo già in atto in molte nazioni con possibilità di spostamento dall’una all’altra in tutto il continente. Può sembrare una semplice e più veloce circolazione delle persone, ma è molto di più nel bene e nel male.
Comunque, il movimento guidato dai sindaci è diventato in poche settimane un fenomeno nazionale che contesta la semi- dittatura ormai in atto di Salvini, che allo stato dei fatti trova il suo argine nel presidente della Repubblica Mattarella; limite che si è visto all’opera nella stesura definitiva del decreto sicurezza, al quale il presidente della Repubblica ha imposto una serie di modifiche prima di firmarlo.
Nel frattempo, si è configurato un movimento dei sindaci in tutte le regioni del Paese, a cominciare da Palermo, Napoli, Parma, Torino, Milano, Firenze, Bergamo, Venezia, città di Marche, Liguria, Umbria, Puglia, Calabria. Insomma, l’Italia intera. Non è un movimento politico, come ho già precisato, ma un movimento istituzionale dove i sindaci hanno ora una forza che, singolarmente considerati, era minima, ma per la quantità che ha aderito a questo movimento è ormai alla pari con la forza del governo centrale.
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Sarebbe interessante capire qual è la forza politica dominante in questo movimento di tipo municipale. Molti sindaci appartenevano e ancora in parte appartengono alla Lega Nord a suo tempo fondata da Umberto Bossi, ma Salvini ha avuto la grande capacità di estendere la Lega a tutto il Paese. Da un lato, questa nazionalizzazione della Lega è stata un grande successo politico, ma dall’altro ha diminuito il numero dei municipi nelle regioni del Nord. Salvini ormai guida un partito nazionale che l’ha reso la personalità politicamente più forte e, come ho già detto, semi- dittatoriale. Ma la Lega non a caso ha perso l’attributo "Nord". Tra i sindaci del lombardo-veneto, del Piemonte, di parte della Liguria, altre forze politiche hanno fatto strada, a cominciare da Silvio Berlusconi e anche dal Pd. Quanto al movimento dei sindaci, le loro tendenze politiche sono meno potenziate di quanto non lo siano le loro funzioni amministrative. Sono quelle che hanno creato solidarietà tra di loro e indebolito il loro politichese. Vogliono ricostruire l’Italia, ma non un singolo partito. Salvini, del resto, ne è la prova.
Questo, tuttavia, non significa che la politica abbia perso la sua importanza. Salvini lo dimostra: è un semi- dittatore nazionale e ha un suo programma politico, anche europeo, molto complesso, che più volte abbiamo esaminato soprattutto per quanto riguarda i suoi rapporti con Putin, oltreché quelli con Le Pen, il dittatore dell’Ungheria Orbán e il governo polacco. Anche il Partito democratico sta tentando di recuperare i voti persi il 4 marzo 2018. Nicola Zingaretti sembra ormai il più probabile candidato alla segreteria del partito e al suo rilancio, insieme a una classe dirigente che annovera personalità come Gentiloni, Orlando, Delrio, Franceschini, Martina, Calenda e altri. L’obiettivo sarebbe quello di recuperare almeno dieci punti rispetto a quelli attuali, collocandosi non lontano da un 30 per cento di voti. Lo so, è un obiettivo molto ambizioso e se fosse raggiunto suonerebbe come una vittoria; tuttavia, un partito più forte può fare l’opposizione efficacemente e potrebbe anche tentare un approccio di alleanza con i Cinque Stelle di Luigi Di Maio. Sta di fatto, tuttavia, che l’eventuale accrescimento del Pd attuale recupererebbe in buona parte i voti che nel marzo scorso passarono dal Pd proprio a Di Maio. Un simile recupero diminuirebbe vistosamente la consistenza attuale dei Cinque Stelle. Un grillismo quasi dimezzato può diventare un fanalino di coda o di Salvini o del Pd. In entrambi i casi irrilevante.
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Tra i politici che hanno un passato di notevole importanza va considerato Marco Minniti che nel precedente governo Gentiloni fu ministro dell’Interno. Espletò quella carica con molta efficienza, ma di fatto se ne aggiunse un’altra che con l’Interno aveva ben poco a che vedere: se fosse stato tecnicamente possibile, Minniti avrebbe dovuto abbinare al ministero dell’Interno un titolo di ministro degli Esteri per l’attività molto rilevante che esercitò per un anno intero in tutta l’Africa, dalla Libia fino all’Egitto. Minniti aveva un programma e lo manifestò. Costruire un polo industriale al di là del deserto dove gruppi di capitalismo italiano, soprattutto pubblico, avrebbero formato dei centri industriali dando lavoro alle popolazioni dei califfati. Gli africani sottoposti nei loro Paesi d’origine alla fame e alla morte alimentavano la fuga da quei Paesi varcando il deserto libico, cirenaico, yemenita, puntando verso il mare, dove appositi nocchieri li avrebbero imbarcati sui gommoni facendoli transitare sulle coste italiane, che erano le più prossime, e di lì avviandoli verso la Germania e la Scandinavia. Migliaia di morti e malaffare in tutta questa manovra che Minniti aveva in programma di sventare all’incontrario: italiani che scavalcando il deserto richiamavano in patria i fuggitivi e rimettevano in moto le economie dei Paesi di origine, nei quali gli stessi fuggitivi avrebbero trovato buona accoglienza e lavoro. Naturalmente tutto questo aveva portato Minniti a un’amicizia politica con quei califfati e addirittura con il rais egiziano. Aveva anche iniziato la costruzione di appositi camminamenti, che consentivano spostamenti orizzontali dall’Est all’Ovest africano e dall’Angola al Mozambico, dove già da tempo sono presenti rappresentanze cattoliche della comunità di Sant’Egidio.
Questo è stato Marco Minniti e questo potrebbe essere di nuovo di fronte a una crescita del Partito democratico, che potrebbe trovare i finanziamenti per impiegare la competenza di Minniti e trasformarla in un’iniziativa di partito e non di governo. Una crescita che porterebbe altri voti in successive elezioni.
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In altre recenti occasioni ho fatto una proposta della quale, tuttavia, nessuno del Partito democratico ha parlato. Desidero ripeterla oggi perché è ancor più attuale. La proposta è di nominare con apposita elezione il presidente del Pd. È una carica che finora non è esistita, ma che sarebbe della massima importanza. Il presidente avrebbe nei confronti del partito gli stessi, identici poteri che il presidente della Repubblica ha nei confronti dello Stato: poteri di vigilanza dello statuto del partito e del suo eventuale aggiornamento. Naturalmente anche poteri di "moral suasion": un’autorità del genere darebbe al Partito democratico una valenza inesistente in altri partiti italiani. Il nome più adatto a ricoprire questa presidenza sarebbe quello di Walter Veltroni. Sarebbe un vero e proprio salto in alto del partito avere Veltroni come presidente con i poteri che ho già indicato e senza alcuna interferenza sull’attività del segretario del partito, sempre che quest’ultimo sia in piena regola rispetto allo statuto del Pd e a sue eventuali mutazioni, suggerite dal presidente d’accordo col segretario.
Forse mi arrogo il diritto di fare troppe proposte, ma è il mio modo per soddisfare la tarda età e le numerose esperienze che ho vissuto.
il manifesto 6.1.19
Disobbedire è un dovere morale
Gli strumenti contro il decreto Salvini ci sono. Serve mobilitarsi
Decreto Salvini. Ciò che ora occorre è una mobilitazione di massa a loro sostegno e a salvaguardia, di nuovo, della Costituzione della Repubblica, già difesa dal 60% degli elettori nel referendum costituzionale di poco più di un anno fa e oggi tradita dai nuovi governanti
di Luigi Ferrajoli
Il rifiuto dei sindaci di applicare il decreto Salvini è un atto ammirevole di disobbedienza civile e di obiezione di coscienza e vale a svelarne il carattere «disumano e criminogeno», secondo le parole del sindaco Orlando. E rappresenta una forte presa di posizione istituzionale in difesa dei diritti umani dei migranti. Aggiungo, per chi non condivide statalismo etico e gius-positivismo ideologico, cioè la confusione autoritaria tra diritto e morale e l’appiattimento della morale sul diritto quale che sia, che la disobbedienza civile alla legge palesemente ingiusta è un dovere morale.
Ovviamente, al prezzo delle conseguenze giuridiche alle quali si espongono i disobbedienti. Ma qui non siamo di fronte a un semplice atto morale di obiezione di coscienza. L’obiezione, in questo caso, è motivata dalla convinzione del carattere incostituzionale del decreto perché lesivo dei diritti fondamentali delle persone. Naturalmente i sindaci non possono disapplicare la legge e neppure promuovere essi stessi la questione di illegittimità di fronte alla Corte costituzionale. L’accesso alla Corte per ottenere una pronuncia di illegittimità della legge è tuttavia possibile.
Esso è previsto nel corso di un giudizio, qualora il giudice ritenga la questione non manifestamente infondata e, inoltre, su iniziativa di una Regione, qualora essa ritenga che la legge statale o una sua parte invada la sfera delle sue competenze. Ci sono pertanto tre strumenti di tutela dei diritti fondamentali che potranno essere utilizzati contro l’applicazione di questa legge disumana e immorale. Il primo è affidato all’iniziativa degli stessi migranti, i cui diritti sono dalla legge vistosamente lesi. Consiste nell’attivazione della procedura d’urgenza prevista dall’articolo 700 del codice di procedura civile, secondo il quale «chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito».
In questo caso il «provvedimento d’urgenza» che i migranti possono chiedere al giudice per opporsi alla minaccia di «un pregiudizio imminente e irreparabile» ai loro diritti fondamentali è precisamente l’eccezione di incostituzionalità che lo stesso giudice ha il potere di promuovere davanti alla Corte Costituzionale contro le norme del decreto che ledono o minacciano tali diritti, tutti costituzionalmente stabiliti. Il secondo strumento è affidato all’iniziativa delle Regioni e richiede la deliberazione delle rispettive giunte regionali. È infatti indubbio che il decreto cosiddetto «sicurezza», sopprimendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha trasformato decine di migliaia di migranti in clandestini irregolari, privandoli di fatto delle garanzie dei loro diritti fondamentali, a cominciare dai diritti alla salute e all’istruzione.
Ebbene, sia l’istruzione che la tutela della salute, secondo il terzo comma dell’articolo 117 della nostra Costituzione, sono «materie di legislazione concorrente» tra Stato e Regioni. Le norme del decreto che direttamente o indirettamente incidono su tali materie appartengono perciò alla competenza legislativa, sia pure concorrente, delle Regioni.
Non solo. L’assistenza sociale, che il decreto Salvini rende impossibile a favore dei migranti da esso ridotti allo stato di clandestini, è materia di competenza esclusiva delle Regioni: una competenza esclusiva ribadita più volte dalla Corte costituzionale, intervenuta in sua difesa con svariate pronunce (sentenze n. 300 del 2005; n. 156 del 2006; n. 50 del 2008; n. 124 del 2009; nn. 10, 134, 269 e 299 del 2010; nn. 40, 61 e 329 del 2011) contro le invadenze dello Stato. Di qui la legittimazione delle Regioni, prevista dall’articolo 127, 2° comma della Costituzione, a sollevare sul decreto Salvini la questione di legittimità costituzionale della legge di conversione, entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 3 dicembre 2018.
Ci sono ancora, in Italia, molte regioni governate da maggioranze democratiche, dal Lazio al Piemonte, dall’Emilia alla Toscana, dalle Marche alla Campania, dalle Puglie alla Calabria. La loro disponibilità a promuovere la questione davanti alla Corte costituzionale sarà il banco di prova di quanto, al di là delle parole, queste Regioni a guida democratica intendono prendere sul serio i principi costituzionali.
Infine c’è una terza via di accesso alla giustizia costituzionale, percorribile dagli stessi sindaci che hanno deciso di non dare applicazione al decreto Salvini. Oltre alla strada intrapresa dal sindaco Orlando – l’azione di accertamento, già sperimentata in materia elettorale, davanti al giudice civile perché questi chieda alla Corte costituzionale se la legge è conforme o meno alla Costituzione – i sindaci disobbedienti potranno, qualora i loro provvedimenti venissero annullati dai prefetti, impugnare gli atti di annullamento di fronte ai Tar, cioè ai tribunali amministrativi, e, in quella sede, proporre l’eccezione di incostituzionalità delle norme da essi ritenute incostituzionali.
Insomma, la battaglia in difesa della Costituzione è nuovamente aperta, grazie alla coraggiosa iniziativa dei sindaci antirazzisti. Ciò che ora occorre è una mobilitazione di massa a loro sostegno e a salvaguardia, di nuovo, della Costituzione della Repubblica, già difesa dal 60% degli elettori nel referendum costituzionale di poco più di un anno fa e oggi tradita dai nuovi governanti. Questa volta è in questione assai più della tenuta o della modifica delle regole formali sul funzionamento dei nostro organi di governo. Sono in gioco – direttamente – tutti i principi sostanziali della nostra democrazia: l’uguaglianza, la dignità delle persone, il rifiuto delle discriminazioni razziste, la solidarietà, i diritti fondamentali di tutti, la civile e pacifica convivenza.
il manifesto 6.1.19
Presidenti contro, dalla Toscana parte il ricorso alla Consulta
La critica della Regione. All’iniziativa di Rossi pensano Calabria, Piemonte e Umbria Cresce l’imbarazzo fra i 5 stelle. Ma anche nel Pd si aprono crepe
di Daniela Preziosi
Il presidente della Toscana Enrico Rossi fa un passo avanti rispetto alla «disobbedienza» dei sindaci al decreto sicurezza e annuncia la formalizzazione del ricorso alla Corte costituzionale. Del resto le regioni hanno una marcia più veloce verso la Consulta: possono ricorrere direttamente, senza il passaggio dal giudice ordinario, dove deve essere sollevata la questione di legittimità di un provvedimento.
SE LA VIA POLITICA alla modifica del decreto è sbarrata – il presidente Conte ha invitato a Palazzo Chigi i sindaci dell’Anci ma il ministro Salvini ha fatto sapere che «il decreto non si tocca» – anche la via giudiziaria non sembra facile. Altre regioni, fra quelle governate dal centrosinistra, esprimono solidarietà alla causa ma grande cautela sul piano legale. Sergio Chiamparino (Pd), presidente del Piemonte, spiega: «Stiamo valutando. Se ci sono le condizioni giuridiche, non perderemo tempo». Valuta anche l’umbra Catiuscia Marini (Pd), che comunque garantisce cure e all’assistenza sanitaria per tutti. E Mario Oliverio, presidente della Calabria (Pd): «Avevo già espresso tutte le mie perplessità al decreto sicurezza. Oggi gli atti di disobbedienza annunciati e praticati da diversi sindaci italiani confermano le mie preoccupazioni ed hanno il mio pieno sostegno». Oliverio del resto è stato fra i primi a schierarsi al fianco di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace oggi sotto inchiesta, precursore della disobbedienza civile contro le politiche che rendono impraticabile l’integrazione dei migranti e dei richiedenti asilo. Già dai tempi dei governi a guida Pd.
PROPRIO UNA FOTO con Lucano appare nel profilo facebook di Nicola Zingaretti, candidato alle primarie del Pd: «Al fianco dei sindaci che non si arrendono e che ogni giorno lavorano per cambiare il loro territorio, nonostante Salvini, nonostante Di Maio. Come Mimmo Lucano, come tanti altri amministratori», è il post. Dagli uffici della sua regione però trapela cautela sul ricorso. «La nostra amministrazione ha scelto da tempo da quale parte stare», spiega il vice Massimiliano Smeriglio, «Penso all’intervento per le reti di inclusione sociale dei migranti transitanti» e «ai 600mila euro per l’integrazione dei migranti vulnerabili che il decreto sicurezza mette in mezzo alla strada».
IL CAPOFILA DEI SINDACI «disobbedienti» Leoluca Orlando ringrazia: l’intenzione delle regioni – sempreché diventi un atto concreto – «è importante politicamente perché chiarisce ancora una volta che l’Italia non è un paese da ‘pensiero unico’ e perché formalmente permetterà di avviare il percorso verso l’annullamento di norme inumane che contrastano con la Costituzione».
UN PRIMO RISULTATO POLITICO c’è già. È l’imbarazzo dei 5 stelle. In parlamento il decreto ha portato allo scoperto i numeri del dissenso interno (5 senatori e 18 deputati, poi quasi tutti riallineati, due fin qui le espulsioni). Ma il fenomeno si allarga se si guarda ai comuni. Le sindache Raggi e Appendino perplesse, anche silenti; il sindaco di Livorno Nogarin in aperto contrasto con le norme salviniane; una trama di consiglieri e amministratori locali apertamente contrari.
VA MEGLIO AL PD, ma non del tutto. Roberto Giachetti, candidato ’renziano’ alle primarie, sta con i sindaci: «Il loro movimento si aggiunge alle tante voci che sostengono l’incostituzionalità del decreto sicurezza. Sarà molto utile se contribuirà a farlo arrivare alla Corte». Ma nel Pd l’argomento n è scivoloso. Su Huffington Post Stefano Esposito, che naturalmente solidarizza con i sindaci, apre una riflessione interna: «Nonostante molti a sinistra abbiano contestato il decreto Minniti, oggi appare ancora più chiaro, di fronte alle politiche salviniane, quanto quelle critiche fossero sbagliate e poco connesse alla reale percezione di una grande maggioranza dei cittadini». Invece nel Pd c’è chi, come il candidato Martina, propone un referendum per abrogare il decreto. Idea che va fortissimo in rete.
IL GUAIO È CHE è va molto meno forte nel Pd. Persino fra i simpatizzanti dello stesso Martina. Per esempio il presidente della Campania De Luca, quello che ha consegnato un giovane nigeriano alla polizia perché chiedeva spiccioli fuori da un supermercato di Salerno. De Luca ammette – come tutti – le ragioni dei comuni contro il decreto Salvini. Ma poi non resiste e lamenta: «Ancora una volta la sinistra italiana si pone sul piano di chi vuole accogliere tutti in maniera indiscriminata».
il manifesto 6.1.19
La Toscana alla Consulta contro il ‘decreto sicurezza’
Diritti negati. Una delibera ad hoc della giunta, che permetterà anche ai Comuni di aggregarsi nel ricorso alla Corte Costituzionale. In arrivo anche una legge regionale per garantire tutele di base ai migranti, dalla sanità all'istruzione, dalla casa all'alimentazione.Rossi sfida Salvini: "Confrontiamoci in pubblico e vediamo chi ha fatto di più per la sanità e le persone in difficoltà".
di Riccardo Chiari
FIRENZE Contro il ‘decreto sicurezza’ del governo la Toscana ha già pronto un ricorso alla Consulta, attraverso una delibera ad hoc che sarà approvata domani in giunta regionale. Ad annunciarlo il presidente Enrico Rossi, confermando il suo sostegno alla protesta dei sindaci: “Fanno bene a ribellarsi ad una legge disumana che mette sulla strada, allo sbando, decine di migliaia di persone, che così diventano facile preda dello sfruttamento e della criminalità organizzata, aumentando l’insicurezza”. Già prima della conversione del decreto la Regione aveva denunciato, insieme all’Anci, gli effetti che può produrre sul territorio. Solo in Toscana sono state stimate 5.000 persone costrette all’irregolarità.
E’ il braccio destro di Rossi, l’assessore Vittorio Bugli (Pd), che spiega la genesi del provvedimento: “Da giorni stiamo lavorando al ricorso contro alcune norme contenute nel decreto. Tratteremo anche il problema relativo all’iscrizione all’anagrafe, che va ad incidere negativamente sull’effettiva possibilità di accedere ai servizi essenziali, ai quali tutte le persone hanno diritto”.
A ruota da Bugli arriva una puntualizzazione, importante: “Diamo tutta la nostra disponibilità a valutare, insieme ai sindaci, l’esercizio previsto dalla legge La Loggia, una norma che prevede la possibilità per i Comuni di richiedere attraverso il Consiglio delle autonomie locali che sia la Regione a farsi carico del ricorso alla Consulta, in tempi più rapidi e modalità coerenti con il dettato costituzionale. In questo senso si rafforzerebbe, in un percorso Regione-Comuni, l’obiettivo di far valutare la norma alla Corte Costituzionale”.
“Nel frattempo – sottolinea a sua volta Rossi – per aiutare e assistere i migranti e tutti coloro che hanno bisogno, almeno in Toscana si avranno tutele stabilite da una legge regionale. Lo scorso 22 dicembre abbiamo approvato in giunta una proposta di legge, che sarà votata in Consiglio il 15 gennaio prossimo, e per la quale abbiamo già previsto in bilancio due milioni di finanziamento. La legge tutela i diritti della persona umana, a prescindere dalla cittadinanza: diritti per tutti, non solo per i cittadini italiani, ad essere curati, ad avere un tetto sulla testa, un’alimentazione adeguata e un’istruzione”.
Sul punto il presidente toscano, che aveva annunciato la legge nell’anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, di fronte a ottomila studenti, osserva: “I temi sanitari, assistenziali e dell’istruzione sono materie concorrenti su cui le Regioni, per il titolo V della Costituzione, hanno potere di legiferare. Già nel 2010 la Corte Costituzione si era pronunciata contro il governo Berlusconi, e aveva dato ragione alla Toscana su una legge analoga che riconosceva il diritto di ogni persona alle cure di base. Forte di quella sentenza la giunta propone al Consiglio regionale una legge più estesa e precisa. L’esatto contrario di quella del governo, che invece viola i diritti fondamentali della persona umana. Confidiamo che possa essere approvata in via definitiva per la metà di gennaio”.
La risposta del ministro Salvini non si fa attendere: “Sono 119mila i toscani, 53mila famiglie, in condizioni di povertà assoluta, si contano quasi 22mila domande per ottenere una casa popolare, e c’è una sanità criticata da medici e utenti per le liste d’attesa, i tagli e i turni di lavoro massacranti. Eppure Rossi straparla del decreto sicurezza. Lui pensa ai clandestini, noi agli italiani”. Secca la controreplica del presidente toscano: “Sia io che lei – avverte Rossi – dovremmo sicuramente fare di più per le famiglie in povertà assoluta e per il servizio sanitario. Ma vediamo se ha il coraggio di confrontarsi in pubblico, dove vuole e quando vuole, per dimostrare ai toscani e agli italiani cosa lei e cosa io abbiamo fatto fino ad ora, per sostenere le persone in difficoltà e per la sanità pubblica”.
Il Fatto 6.1.19
“Disobbedire al dl sicurezza è solo un favore a Salvini”
Michele Emiliano, governatore della Puglia: “Sono d’accordo con i sindaci, il decreto è una catastrofe. Ma si lotta con i ricorsi”
di Luca De Carolis
“Questo decreto rappresenta un errore catastrofico da parte di un governo neo-autoritario, ma disapplicare la legge sarebbe solo un favore a Matteo Salvini”. Il governatore della Puglia Michele Emiliano assicura di “condividere totalmente l’indignazione dei sindaci italiani”, ma respinge la linea della disobbedienza al decreto sicurezza annunciata da Leoluca Orlando e Luigi de Magistris. “Forse – sorride – anche per la mia forma mentis di magistrato”. Piuttosto, consiglia di fare ricorso. E rigetta ogni possibile dialogo con i Cinque Stelle: “Ora non è possibile parlare con loro, sono in trance”.
Perché il decreto sarebbe così sbagliato?
Perché fa saltare il sistema della seconda accoglienza, quello affidato agli Sprar, che era molto flessibile, ossia adattabile ai vari contesti territoriali. Non incentivava nuovi arrivi e integrava le persone, con l’insegnamento della lingua italiana e dando loro lavoro, soprattutto nell’agricoltura. E poi aveva ripopolato tante zone del Paese.
Però costava troppo, secondo Salvini. E in effetti sui migranti tanti hanno lucrato.
Non ho mai avuto l’impressione che quel sistema costasse troppo. E poi metà di quei soldi rimanevano sui territori. Ma soprattutto ora i costi verranno scaricati sui Comuni, perché svariate migliaia di persone, da anni in Italia, verranno gettate nell’illegalità. E chi si dovrà occupare di loro? I sindaci, con il loro welfare. Per questo sono tutti preoccupati.
Il premier Giuseppe Conte ha promesso che incontrerà l’Associazione nazionale dei Comuni. Si aspetta miglioramenti al testo?
Spero che Salvini prenda atto di aver preso una cantonata.
Ci sono contatti in corso con l’Anci?
Mah, i contatti questo governo li tiene con i post e le dirette su Facebook. Siamo alla finzione della politica.
E allora i sindaci che vogliono disobbedire potrebbero avere ragione.
Va ricordato ai sindaci dei piccoli Comuni che disapplicare la legge può configurare un reato. E che il sospetto di incostituzionalità di una norma può essere sollevato solo nel corso di un processo. Poi dovrà essere il giudice a rimettere eventualmente la questione alla Consulta. Non ci sono alternative per agli amministratori. Quindi neppure l’obiezione di coscienza, di cui ho pure sentito parlare. La legge la prevede solo per determinate fattispecie.
Quindi solo ricorsi?
Sì, basta provocare un giudizio tramite un cittadino o un’associazione. E comunque bisogna comportarsi in modo diverso da Salvini, che chiude i porti e decide chi salvare o no. Non dobbiamo metterci sul suo piano. La legalità è una sola.
La Toscana farà ricorso contro il decreto per conflitto di attribuzione.
Per ora non riesco a individuare la materia di esclusiva competenza della Regione che verrebbe lesa dal provvedimento. Le materie di cui si discute, dalla sicurezza all’integrazione, sono tutte di competenza perlomeno concorrente tra Stato e Regioni.
Allora strada sbarrata?
Una via può essere la legge La Loggia, che consente alle Regioni di fare ricorso per tutelare le materie di esclusiva competenza dei Comuni. Tagliando i fondi agli Sprar il decreto incide sull’assistenza diretta, che spetta ai sindaci.
Intanto il governo si è detto pronto ad accogliere donne e bambini a bordo della Sea Watch e della Sea Eye. E ha attaccato le Ong.
Questa storia delle Ong è una barzelletta. Come in tutti i settori ci sarà qualcuno che non si comporta bene, ma la maggior parte dei volontari opera per fini umanitari. Dopodiché esiste un diritto del naufrago ad essere accolto, nonostante quello che dice Salvini e chi governa con lui.
Ecco, il governo. Conte fa il mediatore, il leghista il falco e Di Maio pare barcamenarsi.
È un gioco delle parti. Uno fa il poliziotto cattivo, un altro il buono.
Lei aveva auspicato un accordo di governo tra Pd e M5S. E ora tanti glielo rinfacciano: “Pensate se avessimo fatto come consigliava Emiliano”.
È una stupidaggine, detta per coprire un grave errore. Stringendo l’accordo di governo la Lega ha raddoppiato i consensi, mentre i 5Stelle appaiono come dei pasticcioni e crollano nei sondaggi. Salvini sta distruggendo il Movimento, portandolo a una brutta deriva. Invece il Pd avrebbe potuto condurlo su un’altra rotta, recuperando punti. Se avessimo fatto l’accordo, i consensi li avremmo raddoppiati noi.
Magari il M5S aveva contraddizioni dentro di sé, prevedibili.
Non so cosa sia capitato ai 5Stelle. Sono assolutamente indignato dalla decisione di Di Maio di autorizzare nuove trivellazioni petrolifere nel golfo di Taranto. Da questo momento si dovranno aspettare da me ciò che ha patito il governo Renzi. Impugneremo in ogni sede il provvedimento di autorizzazione.
Il prossimo segretario del Pd dovrebbe comunque provare a parlare con il M5S? E lei chi sosterrà nel congresso?
In questa fase è impossibile ragionare con loro. Dopodiché io non posso svolgere attività di partito (non ha rinnovato la tessera del Pd per una sentenza della Consulta, secondo cui i magistrati possono candidarsi ma non possono partecipare alla vita dei partiti, ndr) ma voterò per Nicola Zingaretti. È l’unico che assicura la fine del renzismo.
Il Fatto 6.9.19
Il comitato per il No al referendum ora sta con i Comuni
Il decreto sicurezza è “incostituzionale” e per questo i sindaci fanno bene a non applicarlo. Il Coordinamento per la Democrazia costituzionale si schiera a difesa degli amministratori che si rifiutano di obbedire alla legge voluta dal ministro Salvini. Un provvedimento che secondo loro rischia di lasciare in strada come irregolari migliaia di immigrati. In una nota a firma di Massimo Villone, Silvia Manderino e Alfiero Grandi, già promotori dell’ex Comitato per il No nel referendum costituzionale del dicembre 2016, si esprime pieno appoggio ai sindaci. “Le decisioni del governo e in particolare parti significative della normativa sicurezza contrastano con i valori che la Costituzione ha inscindibilmente inserito nell’ordinamento giuridico”, spiegano i firmatari, ricordando anche “l’eccezionale gravità” del caso della Sea Watch, che vaga da oltre due settimane nel Mediterraneo senza che sia riconosciuta ai passeggeri la possibilità di sbarcare. “Nella legalità costituzionale non c’è posto per norme disumane e criminogene che ricordano le leggi razziali”.
il manifesto 6.1.19
Il Senatore Gregorio De Falco
«Ora gli immigrati, poi le autonomie. Così il Movimento imploderà»
intervista di Carlo Lania
Senatore Gregorio De Falco, come uomo di mare e soprattutto della Guardia costiera, cosa pensa della chiusura dei porti?
Che è tutta una bufala.
Prego?
I porti non sono mai stati chiusi. Io chiedo e pretendo dal ministro Salvini che esibisca il provvedimento, qualunque esso sia, di chiusura dei porti così ne capiamo anche i motivi. Lo faccia vedere, gli italiani lo devono vedere. È da giugno che Salvini ne parla, ma non può chiudere i porti a voce. Le cose vanno fatte secondo legge, come dice Di Maio. Anche se va detto che le leggi vanno rispettate fino a quando la loro ingiustizia non sia talmente evidente e violenta da provocare la disobbedienza civile, come per il decreto sicurezza.
Il vicepremier Di Maio chiede di verificare se i migranti a bordo delle navi delle due ong tedesche siano stati davvero salvati oppure consegnati dagli scafisti. Un sospetto pesante. Come comandante della Guardia costiera lo ritiene possibile?
In astratto tutto è possibile, ma bisognerebbe chiedere a Di Maio se ha qualche indizio di reato per il quale ritiene di pronunciare un sospetto così grave. Finora, invece, risulta che queste ong da giorni stiano legittimamente chiedendo di sbarcare. Allora se le leggi si rispettano, consentano a queste navi di mettere in sicurezza se stesse e la gente che si trova a bordo.
Il decreto sicurezza, la questione dei porti e ora i sospetti verso le ong. L’immigrazione rischia di far implodere il Movimento 5 stelle?
L’immigrazione rischia di fare da detonatore e di mettere in evidenza la distanza che il gruppo dirigente ha messo tra gli obiettivi originari del Movimento e la politica che invece si attua. Inoltre questa distanza non è stata nemmeno attenuata da un’azione di dialogo interno. Il decreto sicurezza, come ha detto in maniera chiarissima il senatore Matteo Mantero, è incostituzionale e stupido. Credo che chi fa parte del gruppo parlamentare non possa continuare nella propria indifferenza. Ognuno deve prendersi la responsabilità di valutare e immaginare le conseguenze delle sue azioni. E naturalmente anche le conseguenze della propria inerzia e indifferenza.
Ci sono altri parlamentari 5 stelle che potrebbero lasciare il Movimento?
Assolutamente sì perché, oltre all’immigrazione, un altro elemento di grande divisione rispetto al governo è la questione importantissima delle autonomie, che rischia di innescare vere e proprie forze disgregatrici. Si mina l’integrità dello Stato e un principio fondamentale che tiene unito il Paese che è quello della solidarietà. Si tratta di un’altra questione fondamentale per il Movimento della quale però finora non si è discusso. Temo che anche questa a febbraio possa essere calata dall’alto. Ma il Movimento non potrà seguire la Lega su questa strada.
Corriere 6.9.19
Il Presidente del Senato
Casellati: i sindaci disubbidienti sono l’anarchia
di Dino Martirano
Il presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati sulla questione migranti dice: «Se ora i sindaci si mettessero a non rispettare le leggi, passerebbe un messaggio devastante. Sarebbe l’anarchia». E sulla riforma Fraccaro che prevede il referendum propositivo senza quorum? «Rischia di mettere in discussione il futuro della stessa democrazia rappresentativa».
ROMA Se ora i sindaci si mettessero a non rispettare le leggi, passerebbe «un messaggio devastante per le istituzioni e i cittadini. Sarebbe l’anarchia». Quando «si contesta una norma ci sono forme e sedi appropriate». Quali la Corte costituzionale, che, «nella sua assoluta e insindacabile autonomia», a giorni sarà chiamata anche a valutare l’ammissibilità del conflitto tra poteri sollevato dal Partito democratico per il caos e le forzature cui è stata sottoposta la legge di bilancio in Aula. Così, alla vigilia della ripresa dei lavori a Palazzo Madama, il presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, si prepara a un anno già carico di tensioni. In cui si voterà, tra l’altro, anche la riforma Fraccaro sul referendum propositivo senza quorum: una novità, osserva la seconda carica dello Stato, che «mi sembra possa mettere in discussione il futuro della stessa democrazia rappresentativa».
Sull’iter della legge di bilancio, il presidente della Repubblica ha parlato di «grande compressione dell’esame parlamentare» ed ha esortato i «gruppi politici a discutere costruttivamente su quanto avvenuto». È sempre più difficile assicurare la centralità del Parlamento?
«Condivido appieno le riflessioni del presidente della Repubblica. La centralità del Parlamento è un caposaldo del nostro assetto istituzionale, che trova fondamento nella democrazia rappresentativa disegnata dalla Costituzione. Senza dubbio il percorso della legge di bilancio è stato travagliato. Io stessa mi sono trovata a dover invitare, durante il suo esame, il governo e le forze politiche di maggioranza a un più rigoroso rispetto del processo legislativo. Ma l’approvazione della manovra ha impedito l’esercizio provvisorio di bilancio che avrebbe causato danni gravissimi all’immagine dell’Italia, innescando speculazioni sui mercati e aumento dello spread, bruciando i risparmi dei cittadini. L’importante è che un epilogo parlamentare come quello registrato a fine anno sia un’eccezione e non una regola. Perché occorre sempre garantire spazi adeguati di esame, ponderazione e riflessione nei percorsi di approvazione delle leggi».
Il Pd ha sollevato un conflitto tra poteri dello Stato davanti alla Consulta. Quanto può essere rischioso esternalizzare il contrasto tra governo e Parlamento?
«Tutto ciò che è previsto dalla nostra Costituzione non può mai essere considerato rischioso per la democrazia. Sarà la Corte, nella sua assoluta e insindacabile autonomia, a stabilire l’ammissibilità del ricorso ed eventualmente a pronunciarsi sul merito».
Come giudica la riforma Fraccaro sul referendum propositivo senza quorum, che non esclude, su uno stesso tema, un ballottaggio tra «leggi scritte dal popolo» e norme varate dalle Camere?
«Gli strumenti di democrazia diretta ci sono già nel nostro ordinamento e hanno rappresentato un arricchimento straordinario per le nostre istituzioni. Penso alle stagioni referendarie e ai concreti “passi in avanti” compiuti grazie alle scelte dei cittadini su grandi temi, a partire dai diritti civili. Ma un referendum senza quorum, con la concorrenza tra proposte delle Camere e proposte d’iniziativa popolare, mi sembra possa mettere in discussione il futuro della stessa democrazia rappresentativa».
Nel discorso di fine anno, il capo dello Stato ha detto no alla «tassa sulla bontà» che raddoppia l’Ires per le associazioni di volontariato. Condivide questo giudizio?
«Non si può penalizzare un settore nevralgico per l’Italia. Sia perché rappresenta una unicità nel panorama internazionale, sia per la rilevanza economica del settore. Il mondo del volontariato, nel quale lavorano oltre 800 mila persone, è una delle tante eccellenze italiane che non hanno eguali nel mondo. Il nostro è un Paese che ha nella solidarietà di chi sta meglio verso chi è in difficoltà, una delle sue caratteristiche antropologiche. I nostri volontari rappresentano una risorsa che spesso supplisce anche alle carenze dello Stato».
Il presidente della Repubblica ha anche ricordato i «5 milioni di immigrati che vivono, lavorano, vanno a scuola e praticano sport nel nostro Paese». A loro, a Natale, è stata donata la tassa dell’1,5% sulle rimesse.
«L’illegalità incontrollata ha fin qui prevalentemente contrassegnato il fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese. Anche così il tema della sicurezza ha scalato la classifica dell’agenda politica. E di questo tema fa sicuramente parte anche il versante non sempre trasparente delle rimesse. Ma dobbiamo saper anche distinguere: il mondo degli immigrati conosce una sua declinazione assai diversificata nel tempo. Scuola, lavoro, sport: abbiamo conosciuto e conosciamo molti casi di integrazione positiva».
Quale valutazione dà sulla chiusura dei porti alle navi delle Ong?
«Non ritengo opportuno intervenire in questa fase. La questione è affidata all’esclusiva responsabilità del governo».
E come giudica la presa di posizione dei sindaci sul decreto sicurezza?
«Siamo in uno Stato di diritto, non dimentichiamolo mai. È inconcepibile che qualcuno, e a maggior ragione chi siede nelle istituzioni, possa ritenere di disapplicare la legge in base ad una propria personale convinzione. Se non si condividono i contenuti di una norma, perché ritenuta incostituzionale, ci sono forme e sedi appropriate. Diversamente, il messaggio di cui alcuni sindaci si fanno portatori diventa devastante per le istituzioni e per i cittadini, i quali, potrebbero sottrarsi all’obbligo di rispettare le leggi soltanto perché contrarie ad un loro specifico interesse. Sarebbe anarchia».
La politica del rigore sui vitalizi e sulle «pensioni d’oro» la trova d’accordo?
«Tutti siamo chiamati a dare segnali di razionalizzazione e ottimizzazione delle risorse pubbliche. Le differenze possono essere sul come ottenere i risparmi, tenendo ben presente sia le ragioni dell’equità sia quelle della legittimità dei provvedimenti. Però mi pare evidente che ragionare solo sulla politica del rigore sia un approccio riduttivo che non traccia alcuna prospettiva futura del Paese».
Presidente, cosa si aspetta dall’anno che verrà?
«Dovrà essere l’anno della ripresa. La politica è visione del futuro e non solo risoluzione dei problemi del presente. Vorrei perciò un’Italia più orgogliosa di se stessa e consapevole delle proprie potenzialità. Il primo pensiero è per l’occupazione. Troppi italiani, i giovani e le donne, e soprattutto al Sud, sono senza lavoro. Bisogna fare di più, a partire da una politica fiscale che aiuti famiglie e imprese che possono e vogliono produrre, assumere, investire. Serve poi un piano per la messa in sicurezza del Paese, sempre più a rischio a causa del dissesto idro-geologico acuito dai cambiamenti climatici. E di una politica per la natalità che consenta ai giovani di poter mettere al mondo figli con serenità e fiducia. Dovrà essere anche l’anno dei territori: solo con la loro vitalità tutto questo sarà possibile» .
il manifesto 6.1.19
«Reddito di cittadinanza», superate le norme Ue. Di Maio «Andrà solo agli italiani»
Il caso. Lo ha detto il vicepresidente del consiglio Luigi Di Maio. In realtà la nuova bozza di decreto legge su «quota 100», «reddito di cittadinanza» e «pensione di cittadinanza» include i comunitari, esclude gli stranieri non residenti da 10 anni. Possibili ricorsi alla corte costituzionale e a quella di giustizia europea. 4,3 milioni di persone è la platea potenziale del nuovo sistema di «workfare» italiano che prefigura un sistema di lavoro gratuito e di emigrazione interna coatta per i "poveri assoluti"
di Roberto Ciccarelli
Nei ventisette articoli che compongono la nuova bozza del decreto legge sulle misure bandiera del Movimento Cinque Stelle e della Lega, il cosiddetto «reddito di cittadinanza» e le pensioni «quota 100» che il governo si appresta a varare tra martedì e giovedì prossimi, non ci saranno 62 mila nuclei familiari extra-comunitari residenti in Italia, ma non da dieci anni in maniera continuativa. Il peso politico della Lega nella coalizione gialloverde ha costretto i Cinque Stelle ad escluderli esponendo così il governo Conte a ricorsi alla corte costituzionale e a quella europea di giustizia. Un altro modo per stabilire un’altra esclusione nella società, dopo avere chiuso i confini all’esterno. È la stessa visione politica che ispira il «Dl Salvini» contro i rifugiati. «È stato concepito per i cittadini italiani. Per farlo abbiamo spostato il “lungo soggiorno” a oltre 10 anni e bypassiamo le normative europee che dicono di darlo a tutti» ha confermato ieri Luigi Di Maio.
SU UN TOTALE DI 5 MILIONI di «poveri assoluti», dai 4,3 potenziali beneficiari (di cui 198 mila nuclei familiari con più di 5 figli e 387 mila single) non sono stati al momento esclusi 259 mila nuclei di cittadini comunitari che risiedono in Italia da più di dieci anni. Insieme agli italiani potranno accedere a un sistema di lavoro e emigrazione interna coatta – chiamato impropriamente «reddito di cittadinanza» – che obbligherà a lavorare otto ore gratis a settimana per lo Stato; fare formazione obbligatoria per 18 mesi (rinnovabili dopo un mese di pausa); accettare un’offerta di lavoro su tre da parte dei centri per l’impiego, entro 100 km dalla città di residenza se si è disoccupati da 6 mesi, entro 250 km se lo si è da più di 6, 500 e oltre se lo si è da oltre un anno. Per com’è stato scritto il decreto, anche i cittadini italiani di ritorno dopo qualche anno di residenza all’estero potrebbero risultare penalizzatinell’accesso a un sistema per molti aspetti vessatorio. In caso di povertà, non potranno dimostrare di avere vissuto 10 anni consecutivi in Italia. Su questo punto ha polemizzato ancora Forza Italia. Per i berlusconiani «prima gli italiani» significa escludere tutti coloro che non hanno la nazionalità, indipendentemente dalla residenza. In ogni caso, nel rispetto dello stesso principio, politicamente sensibile per i «populisti», i Cinque Stelle hanno già ceduto alla Lega aumentando da 5 a 10 anni il periodo minimo di residenza per ottenere il sussidio.
IL «REDDITO DI SUDDITANZA», come lo ha ridefinito Marco Bascetta su Il Manifesto, consiste in un sussidio pari alla differenza tra un massimale di 780 mensili e il reddito Isee inferiore ai 9.360 euro annui in cambio della cessione della loro autonomia già ridotta. L’importo non potrà superare seimila euro l’anno per un single che non ha alcun reddito; sarà incrementato a 9.360 se si è in affitto. Il beneficio è considerato un’integrazione del reddito fino a questa cifra. I prelievi di contanti da una carta elettronica non potranno superare i 100 euro al mese.
NEL CALCOLO per determinare l’importo nettamente inferiore rispetto al massimale di 780 euro rientrerà il valore della prima casa. Si potrà essere intestatari di una seconda con un valore catastale non superiore ai 30 mila euro. Sarà contemplato il «patrimonio mobiliare» non superiore a 6 mila euro, accresciuto di 2 mila euro per ogni componente il nucleo familiare, fino a un massimo di 10 mila. Potrà incrementato di mille euro per ogni figlio successivo al secondo.
NESSUN COMPONENTE della famiglia dovrà essere intestatario di un’auto, acquistata sei mesi prima della richiesta, superiore a 1.600 c.c.; motoveicoli di cilindrata superiore a 250 c.c., immatricolati nei due anni prima. A chi darà false notizie sulla condizione patrimoniale, o continuerà a lavorare in nero (due milioni per la Cgia a rischio), sono state promesse pene da «uno a sei anni». Di Maio ha detto che alla Guardia di finanza è stato dato il potere di accedere alla banca dati dell’agenzia delle entrate sulle transazioni per prevenire. Le sanzioni arriveranno anche nel caso in cui un membro della famiglia svolga attività di lavoro irregolare. Chi è maggiorenne deve dichiararsi disponibile al lavoro. In caso di mancata presentazione alle convocazioni dei centri per l’impiego (ampiamente riformati, con risorse fino a 1 miliardo) sono previste sanzioni fino alla decadenza per tutta la famiglia. Il sussidio può essere richiesto dopo 18 mesi. Tutta la famiglia sarà così sorvegliata.
A PARTE L’IMPROBABILE realizzabilità entro il primo aprile 2019 dell’imponente sistema di incrocio tra domanda e offerta prefigurato nel decreto è confermato che il sussidio non è un «reddito di cittadinanza», ma uno sgravio contributivo alle imprese pari alla differenza fra 18 mensilità e quello già goduto. Andrà alle aziende che assumeranno a tempo pieno e indeterminato, senza licenziare per 24 mesi. Dopo, eventualmente, lo si potrà fare con le regole del Jobs Act. L’incentivo non andrà alle imprese che hanno violato norme previdenziali o sulla sicurezza del lavoro.
L’INSIEME DEI VINCOLI contenuti nel decreto esplicitano il sospetto del legislatore sulla natura deviante di chi si trova in povertà. In questo sistema di «workfare» il «povero» deve dimostrare di «meritare» l’accesso ai diritti sociali attraverso il lavoro gratuito, i colloqui psicoattitudinali, le prove di selezione, i corsi di formazione o di riqualificazione professionale». Si vuole così trasformare la condizione di «povertà» in una di «occupabilità». La povertà non sarà cancellata, come auspicato avventurosamente in questi mesi. Saranno i poveri ad essere messi temporaneamente sul mercato per dimostrare l’aumento delle statistiche sull’occupazione.
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Pensioni “quota 100”: Per il triennio 2019 in via sperimentale si potrà andare in pensione anticipata con 62 anni di età e almeno 38 di contributi. Lo si legge nella bozza di decreto su Reddito di cittadinanza e Quota 100 nel quale si precisa che il requisito è «successivamente» adeguato agli incrementi della speranza di vita. La pensione con la cosiddetta Quota 100 non è cumulabile fino al raggiungimento del requisito di vecchiaia con i redditi da lavoro dipendente o autonomo a meno che non sia autonomo occasionale entro i 5 mila euro annui. È prevista una decorrenza di tre mesi per i lavoratori privati e di sei mesi per i pubblici. La prima finestra per i privati è aprile 2019 mentre la prima per i pubblici è luglio 2019. È previsto un preavviso per i pubblici alle amministrazioni di almeno sei mesi.
I dipendenti pubblici che lasciano con Quota 100 potranno chiedere alle banche l’anticipo del loro trattamento di fine servizio. Stiamo valutando insieme all’Abi la stipula di una convenzione» sostiene Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro
In arrivo la riforma di Inps e Inail. Per Inail e Inps finisce l’era della guida monocratica con il ritorno a Cda con 5 componenti «ivi compreso il Presidente». È una delle indicazioni contenute nella bozza di decreto legge su reddito cittadinanza e quota 100. Una modifica prevista, si sottolinea nell’articolo 24, «senza comportare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Per affrontare le esigenze legate alle nuove misure assumendo nuovo personale, inoltre, all’articolo 26 si autorizza per l’Inps una spesa di 50 milioni di euro.
Il Fatto 6.1.19
Perché il governo odia gli immigrati e difende i ricchi
di Giorgio Meletti
C’è una nota stonata nella canzone del conflitto cantata dal governo gialloverde. Negli stornelli improvvisati da Matteo Salvini – e accompagnati dal coro a bocca chiusa di Luigi Di Maio e dei suoi – essi si battono per i poveri, non meglio identificati. Però il conto della redistribuzione di ricchezza non viene presentato ai ricchi ma a improbabili caste di privilegiati quali i pensionati, gli immigrati con le loro pacchie, i dipendenti pubblici, i centri sociali e il settore non profit. Esempio: Salvini non ha mai speso una parola sulla scandalosa rendita autostradale dei Benetton, lasciando alla sua criptoalleata Roma-centrica Giorgia Meloni il compito di associare la parola “pacchia” alla famiglia del nord-est.
I grandi imprenditori e i loro fedeli e strapagati manager non si toccano. In perfetta continuità con la retorica dei governi precedenti (nessuno escluso), anche Lega e M5S si prostrano grati davanti a coloro che “creano i posti di lavoro”. A parte che non è neppure vero, visto che oggi in Italia di posti di lavoro ne mancano sei milioni, fa impressione l’assoggettamento di maggioranza e opposizione al vecchio paternalismo che ti fa togliere il cappello davanti al padrone, anche se sei un ministro. Ma ormai il principio è chiaro. Se uno ha mille dipendenti e ne licenzia la metà il governo italiano (oggi come ieri) corre a ringraziarlo per aver salvato i 500 posti residui.
La dimostrazione di come siamo messi male è la totale assenza di reazioni politiche ai dati sugli stipendi dei grandi manager diffusi nei giorni di Capodanno (mentre i nostri eroi erano a sciare) non da un centro sociale, non dalla Cgil, non da un economista sovranista, ma dal Centro Studi di Mediobanca. Ebbene, nel 2017 i 224 consigli d’amministrazione delle società italiane quotate al listino principale della Borsa di Milano sono costati 667 milioni. Se ai 3.300 beneficiari delle prebende consiliari si potesse chiedere un sacrificio del 15 per cento degli emolumenti, si farebbero gli stessi soldi che la manovra recentemente approvata ha “trovato” con i tagli alle pensioni cosiddette d’oro. Ma ovviamente il sacrificio non si può chiedere, perché i pensionati prendono quello che il governo decide di dare, mentre i manager si servono direttamente alla cassa delle aziende che governano.
E infatti i 224 amministratori delegati hanno guadagnato in media 952 mila euro. Vi chiederete se sono tanti o pochi, meritati o rubati. C’è un criterio di valutazione infallibile: gli ad maschi in media prendono 1 milione, le femmine 428 mila euro. Quindi i casi sono due: o le donne in quanto esseri difettosi meritano la metà degli uomini, oppure queste retribuzioni vengono decise in modo arbitrario da una casta di maschi. Ovviamente è la seconda che ho detto, infatti non è tanto la media di 952 mila euro a colpire, quanto il fatto che nel 2017, anno non certo sfolgorante per l’economia italiana, lorsignori si sono assegnati un aumento del 14,5 per cento rispetto agli 831 mila euro medi del 2016. Solo di aumento si sono messi in tasca 121 mila euro a testa, di cui 99 mila euro di premio per i risultati conseguiti e 22 mila per la cosiddetta parte fissa. Lorsignori hanno così deciso di meritarsi un aumento dello stipendio base, quello che ti danno solo per andare in ufficio indipendentemente dai risultati, pari a quanto un lavoratore italiano medio guadagna in tutto l’anno. Se vi chiedete come sia possibile che il “governo del cambiamento”, di fronte a un simile fenomeno, veda la pacchia negli smodati cedimenti al piacere degli immigrati in crociera sui barconi, la risposta è semplice: come i predecessori, hanno paura dei ricchi e credono che la loro benevolenza li aiuterà a durare. Come Matteo Renzi con i Farinetti, i Serra e i De Benedetti, si illudono.
Il Fatto 6.1.19
Salvini in divisa non rispetta la Polizia di Stato
di Giovanni Valentini
“Vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio…l’abito non fa il monaco”. (Da “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni)
Commetterebbe un grossolano errore quel magistrato della Repubblica che – Codice penale alla mano – impugnasse l’articolo 498 per contestare al vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini l’“usurpazione di titoli e onori”, come prevede la stessa norma a carico di chiunque indossi abusivamente una divisa o perfino l’abito ecclesiastico. In primo luogo, perché dal 1999 il reato è stato depenalizzato ed è diventato un illecito amministrativo, punito con una sanzione da 154 a 929 euro: spiccioli per chi deve restituire allo Stato 49 milioni di rimborsi elettorali in comode rate, senza interessi, per ottant’anni. Ma soprattutto perché quel magistrato canonizzerebbe San Matteo II, protettore della Padania, trasformandolo in una vittima della “giustizia ingiusta”, delle “toghe rosse”, della “persecuzione giudiziaria”. E forse, sul piano mediatico, rischiamo di sbagliare anche noi a parlarne se non fosse per un aspetto particolare che finora è stato offuscato dall’esibizionismo comunicativo del vicepremier leghista e su cui non si può far finta di niente.
Questo non trascurabile dettaglio riguarda i comizi, le riunioni e le manifestazioni di partito a cui Salvini si presenta con indosso la divisa o le insegne della Polizia, regolarmente ripreso dai fotografi e dalle tv. Non c’è alcun dubbio, in tal caso, che si tratta di un abuso, di una “usurpazione” come dice il Codice penale. La Polizia, infatti, è un corpo dello Stato e in quanto tale appartiene a tutti i cittadini, anche a quelli che non votano per il Carroccio o non votano affatto. Non può essere strumentalizzata a fini di parte, né tantomeno per la propaganda di un leader politico. E ciò vale, naturalmente, per tutte le altre forze dell’ordine, chiamate a garantire la pubblica sicurezza.
Quando Salvini indossa la divisa della Polizia, dunque, si appropria indebitamente di un simbolo e di un’autorità dello Stato, per identificarsi – o meglio, per essere identificato – con il potere dell’istituzione che quella uniforme rappresenta. Il suo è un travestimento politico, come se usasse una maschera o un costume di Carnevale per accreditare la propria immagine pubblica. Questa è, in primo luogo, una mancanza di rispetto nei confronti di tutti i funzionari e gli agenti che fanno ogni giorno il proprio lavoro a tutela dell’ordine pubblico e dei cittadini: tant’è che i sindacati di Polizia sono già insorti e anche gli alpini hanno protestato per l’uso della loro maglietta da parte del vicepremier.
È chiaro ormai che si tratta di una strategia di comunicazione, più o meno subliminale. Quando Salvini si “traveste” da poliziotto, da carabiniere o da vigile del fuoco, vuole lanciare un messaggio ai suoi supporter e a tutti gli elettori, per trasmettere un’idea di “Uomo forte” e incutere rispetto o timore. Ma l’abito, come si sa, non fa il monaco. E comunque, la Polizia resta e i ministri passano.
Senza farne una questione più grande di quello che è, se non altro perché alimenterebbe il vittimismo di Salvini e si tradurrebbe a suo favore, si può dire quantomeno che c’è poco di democratico in questa “moda” teatrale del vicepremier. In genere, sono i dittatori – di destra o di sinistra – che indossano in pubblico le divise: da Fidel Castro a Saddam, da Stalin a Hitler e Mussolini. E perciò sarebbe tanto più rassicurante se il nostro ministro dell’Interno rinunciasse a reprimere le proteste degli studenti, degli anti-razzisti o di qualche casalinga che per strada gli grida “Buffone, buffone!”.
Repubblica 6.1.19
Intervista a Susanna Camusso
“Restano i due problemi veri Povertà e lavoro non sono affrontati, penalizzati i giovani”
di Luisa Grion
Ora il governo potrà dire “abbiamo fatto”, ma nella realtà, reddito di cittadinanza e Quota 100 incideranno poco sui due problemi che avrebbero dovuto affrontare: povertà e cancellazione della legge Fornero. Ci siamo sui titoli, non sui contenuti e l’impostazione di fondo mi sembra superata, conservatrice». Susanna Camusso, leader della Cgil, premette che prima di dare il suo giudizio definitivo sulle misure vuol aspettare il testo ufficiale, ma nella bozza - precisa - ci sono incongruenze che «gridano vendetta».
Partiamo dal contrasto alla povertà.
«Ecco, già qui ci sono contraddizioni evidenti: un senza tetto ha un assegno inferiore di chi ha una casa un mutuo o un affitto. Manca - almeno da quanto si può vedere - qualsiasi riferimento alle misure di inclusione, ovvero sostegno all’infanzia, formazione, tutela sanitaria. servizi sociali».
L’assegno è previsto anche per gli stranieri, questa non è una mossa inclusiva?
«La necessità di essere da dieci anni di residenti sul territorio contrasta il testo unico sull’immigrazione che prevede 24 mesi e mi sembra una mossa più punitiva che inclusiva, sia per gli stranieri che per gli italiani che vogliono rientrare»
Era meglio tenersi il Rei, il sistema precedente?
«Il Rei era insufficiente, ma prevedeva l’attivazione dei servizi sociali che vedo indeboliti e che invece sono fondamentali. Così il reddito di cittadinanza non è una misura a contrasto della povertà.
Semmai è una manovra lavoristica.»
E legare l’assegno alla ricerca di un lavoro sarebbe sbagliato?
«Non dovrebbe esserlo, ma se tutto si traduce nella distribuzione di incentivi alle aziende che assumono lo diventa.
Lo sì è già visto in passato, questo tipo di intervento non funziona.
Senza contare che c’è un «baco» nel sistema».
Quale?
« Si è messo in piedi un modello che fornisce assegni di ricollocazione, ma il lavoro, prima di essere distribuito, va creato e nelle iniziative di questo governo non vedo interventi che vadano in questa direzione. Non si distribuisce un lavoro che non c’è. Mancano gli investimenti, manca la politica industriale, manca un’idea di futuro del Paese. E poi c’è lavoro e lavoro: non tutti fanno emergere una famiglia dalla povertà. L’offerta congrua che un cittadino dovrebbe accettare qui è misurata solo in termini di chilometri e spostamenti. Non si parla di compensi e livelli professionali. Il governo fa finta di non sapere che esistono i “working poor”».
Secondo lei aumenterà il
lavoro nero?
«Di certo il sistema di controllo per evitare che ciò avvenga non è sufficiente.Ci sono dichiarazioni di intenti, ma nulla è stato fatto per mettere davvero in rete le informazioni che già si hanno. Per non parlare della lotta al precariato, che vedo completamente assente. E penso anche all’assunzione di 30 mila “navigator”: da un lato c’è ancora il personale Anpal già formato da stabilizzare, dall’altro si escludono le Regioni».
Perché ha definito l’ impostazione di fondo superata e conservatrice?
«È incredibile che nel definire le famiglie che avranno diritto all’assegno si faccia ancora riferimento al matrimonio. Si vuol fare politica sociale senza tener conto delle trasformazioni che le società hanno già elaborato»
Passiamo alle pensioni: Quota 100 dovrebbe essere buona cosa per chi, come il sindacato, chiede da sempre una revisione della riforma Fornero .
«L’abrogazione della Fornero non c’è stata, questo è il punto. La combinazione 62 più 38 è buona cosa per la ristretta platea che potrà accedere al pensionamento anticipato: per lo più lavoratori con una forte stabilità contributiva. Ma non si è tenuto conto dei giovani, che a tale somma non potranno mai arrivare, del lavoratori del Sud che hanno storie contributive più discontinuo, del lavoro precario e spezzettato delle donne e tanto meno dei lavori gravosi. Per tutte queste categorie resta la Fornero.
Continua la politica dei molti annunci, compreso l’impegno del Presidente Conte di discutere con i sindacati, e dei pochi fatti».
E d’accordo con chi considera queste misure pre-elettorali?
«La coincidenza delle date potrebbe farlo pensare».
Il Fatto 6.1.19
I 5 attivisti pro curdi diventano un fumetto di Zerocalcare
Sono andati in Siria tra il 2016 e il 2018, per unirsi alle milizie curde del Rojava nella lotta contro il terrorismo islamico. Ma per questo sono considerati dalla Procura “socialmente pericolosi”, in quanto potrebbero sfruttare le loro conoscenze in materia di armi e strategie militari per compiere delitti contro la persona con “conseguenze più gravi”: la vicenda di 5 attivisti dei centri sociali torinesi, sottoposti a una misura di prevenzione di “sorveglianza speciale” per i loro trascorsi, diventa una striscia di Zerocalcare. “Tutti si riempiono la bocca di lotta al terrorismo – ha dichiarato il fumettista – poi però criminalizziamo chi si unisce a chi lo combatte.” In segno di solidarietà l’artista romano ha così pensato di dedicare loro una striscia, postata ieri sul sul suo profilo Facebook. Già autore del libro “Kobane calling”, Zerocalcare è stato personalmente nel centro di Mehser, al confine turco-siriano, insieme a un gruppo di volontari per supportare la resistenza curda e raccontare il conflitto attraverso i suoi disegni.
Repubblica 6.1.19
Intervista alla guerrigliera Eddi
"Con le donne curde per combattere l’Isis Sono pericolosa? Una farsa all’italiana"
di Fabio Tonacci
ROMA Sul profilo WhatsApp ha la foto di Anna Campbell, un’inglese femminista e combattente, morta ad Afrin nel marzo scorso. E questa frase di Anna, secondo Eddi, è la risposta buona a tante domande: «Se ami abbastanza il tuo popolo da lottare e morire per esso, allora sarai in grado di lottare o morire per tutti i popoli del mondo». Eddi, al secolo Maria Edgarda Marcucci, 27 anni, nata a Roma ma residente a Torino, è una e tante persone insieme: idealista, attivista No Tav (è stata denunciata più volte per le proteste a Chiomonte e Chianocchio) e del centro sociale Askatasuna, aderisce a #nonunadimeno, studia filosofia e lavora. A stento racconta la sua vita privata, ma della rivoluzione in Siria del Nord, del ruolo che hanno conquistato le donne laggiù, del Sogno, come lo chiama lei, non smetterebbe mai di parlare. È fatta così, prendere o lasciare.
Eddi è stata la prima donna italiana ad arruolarsi con lo Ypj, la brigata femminile dell’esercito popolare curdo. Ha partecipato alla difesa di Afrin contro le milizie jihadiste «sostenute dalla Turchia», dice lei. Tornata in Italia, rischia di essere sottoposta a sorveglianza speciale perché la procura di Torino la ritiene «socialmente pericolosa». E questa è la prima intervista che concede a un giornale.
Secondo il magistrato, lei potrebbe utilizzare in Italia le competenze militari acquisite in Siria. Cosa risponde?
«È una contraddizione palese. Lo Stato italiano fa parte della coalizione internazionale contro l’Isis, ma ritiene pericolosi gli italiani che hanno preso parte a questa lotta. Dov’è la coerenza?
Quel provvedimento è un insulto a tutti coloro che sono caduti a fianco delle forze siriane democratiche».
Continuerà il suo impegno nei movimenti antagonisti?
«Continuerò ad essere la persona che si prende la responsabilità di ciò che dice e ciò che fa. Ho scelto da che parte stare, in Siria e in Italia».
Come è nata la sua scelta di arruolarsi?
«Andai in Siria nel settembre 2017 con una delegazione civile per raccontare ciò che stava accadendo ma soprattutto come il popolo curdo stava costruendo una società diversa, un altro modo di vivere.
Quando mi hanno fatto incontrare le famiglie dei martiri e le donne guerriere, ho capito che il mio posto era accanto loro».
Perché?
«Pur essendo al contatto col peggiore dei prodotti umani, ovvero la guerra, mantenevano un fortissimo senso etico, e questo rende lo Ypj un corpo militare volontario diverso da qualunque forza statale. Lo stesso senso etico guida la loro società. Io mi sono arruolata a fine dicembre 2017».
Cos’è che l’ha colpita?
«La libertà delle donne, la democrazia, l’ecologia. Al contrario dell’Italia, il contributo sostanziale delle donne è uno dei pilastri su cui poggia la loro organizzazione. Non esiste donna che non abbia pienamente in mano le redini della propria vita».
E come? Ci spieghi meglio.
«In Italia le donne, soprattutto quelle sposate e con una famiglia, magari non riescono a emanciparsi perché non raggiungono l’autonomia economica. In Siria ci sono istituzioni pensate e gestite da donne, che si chiamano Mala Jin (Casa delle donne), in cui si aiutano per realizzare gli obiettivi della vita. E la soluzione si trova sempre. Può richiedere tempo, ma alla fine arriva la chiave per non essere schiave di ricatti economici o emotivi».
Si aiutano anche per la gestione dei figli?
«Sì, del tutto spontaneamente. C’è un fortissimo senso di coesione nel Rojava (la Siria del Nord controllata dai curdi, ndr): non esiste organizzazione politica o militare dove non ci siano due presidenti, uno uomo e uno donna».
Sembra davvero un’utopia, possibile che vada bene a tutti?
«I problemi ci sono, ma rivoluzione vuol dire avere un metodo per risolverli. E non c’è alcun tentativo di "colonizzare" con la forza chi non la pensa come noi. La mia comandante diceva: "La nostra vittoria non si misura dal numero dei cadaveri di nemici, ma da quante persone aderiranno al movimento confederale". Si sono sacrificate migliaia di persone per questo Sogno. La guerra di liberazione di Kobane, nel 2014, era simbolica anche per questo: i curdi l’hanno difesa prima dal regime di Assad, poi dall’Isis».
Cosa pensa dei movimenti femministi italiani?
«Sono fondamentali e devono continuare a crescere. L’unico movimento di massa che sta avendo successo è quello di #nonunadimeno, prova concreta che le donne sono una potenza quando si mettono in gioco».
Com’è la vita dentro lo Ypj?
«Ci si sveglia insieme, si fa sport insieme, si mangia insieme, si studia insieme... È una vita collettiva, a cui partecipano non solo le curde e le combattenti internazionali, ma anche donne arabe, turcomanne, assire. Non ti senti mai sola. C’è un addestramento iniziale, che è militare e teorico: si studia la storia delle donne e del Medio Oriente, si parla della Mesopotamia e della mentalità capitalista. Non ci si arruola per imparare a usare il fucile e basta, ma per capire perché sia necessario usarlo».
Era l’unica italiana?
«Allora sì. Adesso altre compagne hanno fatto la mia scelta».
Quale è la situazione peggiore in cui si è trovata?
«La guerra è il peggiore dei prodotti umani. Per tutti. Militari e civili. Più di questo non voglio dire...».
Eri pronta a morire?
«Ci sono cose nella vita per cui vale la pena morire. E sono quelle che le danno sognificato»
il manifesto 6.1.19
Scisma ortodosso, l’Ucraina si fa una chiesa «in casa»
Geopolitica della fede. Con una cerimonia a Istanbul dichiarato ufficialmente «autocefalo» il patriarcato di Kiev. Già tra il 1917 e il 1922, con il sostegno delle forze bianche e antibolsceviche, si assistette a un primo tentativo di staccare il capitolo ucraino da quello di Mosca
di Yurii Colombo
MOSCA La scissione nella Chiesa Ortodossa, già preannunciata da qualche mese, è da ieri ufficiale. Con una cerimonia a Istanbul a cui hanno partecipato il patriarca ecumenico Bartolomeo e il presidente ucraino Petr Poroshenko è stato firmato il «tomos» (decreto) con cui viene dichiarato «autocefalo» il patriarcato ucraino. L’indipendenza della chiesa di Kiev da quella di Mosca, sin dalla data, ha un evidente significato simbolico visto che proprio oggi in ossequio al calendario giuliano, si celebrerà il Natale in tutto il mondo ortodosso. La disputa teologica e religiosa che ha condotto alla decisione di Istanbul affonda in un passato lungo oltre 300 anni ma le sue ricadute politiche hanno già iniziato a manifestarsi e aprono un nuovo capitolo nello scontro che oppone i due paesi slavi da ormai 5 anni.
GIÀ TRA IL 1917 E IL 1922, durante la rivoluzione russa, con il sostegno delle forze bianche e antibolsceviche, si assistette a un primo tentativo di staccare il capitolo ucraino dal patriarcato di Mosca. In seguito, nel 1991, con l’indipendenza dell’Ucraina dall’Urss, il primo presidente ucraino Leonid Kuchma si adoperò per giungere alla formazione di una chiesa ucraina indipendente, ma solo il tentativo dell’attuale presidente, intrapreso nella primavera di quest’anno è riuscito nell’impresa.
L’11 ottobre scorso, il Sinodo della chiesa di Costantinopoli dichiarò la cancellazione della decisione del 1686 di trasferire la metropoli di Kiev alla giurisdizione della Chiesa russa e annunciò anche la rimozione dell’anatema precedentemente imposto al patriarcato di Kiev. Poroshenko, che ha definito la decisione di Istambul «storica per il nostro popolo e per tutta la cristianità», ora cercherà di capitalizzare questo suo successo nella battaglia elettorale delle presidenziali, indette per il 31 marzo. I sondaggi però lo danno staccato di ben 8 punti dalla favorita Yulia Timoshenko ma soprattutto solo al quinto posto nelle preferenze tra i candidati in corsa.
Il «tomos» ha inevitabilmente suscitato l’ira del patriarca di Mosca Kirill. Il patriarca ha definito non solo «avventurista e illegale la decisione» ma anche un tentativo per «peggiorare i rapporti tra ucraini e russi preparando le condizioni per la guerra».
NELLE SCORSE SETTIMANE alcuni segnali ci sono già stati in questo senso. Il governo ucraino ha fatto sequestrare alla frontiera la tiratura degli opuscoli ai fedeli per il Natale di Kirill e ha dato lo sfratto ai seguaci di Mosca dal monastero di Pecerska Lavra di Kiev, il più celebre e antico di tutta la Russia. Decisioni che hanno provocato un netta condanna del Ministero degi Esteri russo che ha accusato Poroshenko di «voler accendere il fuoco della guerra civile».
Al Cremlino si resta convinti che tutta la vicenda sia stata montata ad arte prima che a Istanbul o a Kiev, a Washington, dove secondo Sergey Lavrov «si è tramato a lungo perché andasse a buon fine». Ora la chiesa di rito moscovita si appresta a contendere a quella «autocefala» fedele dopo fedele e parrocchia dopo parrocchia ricordando che ogni credente «ora deve decidere da che parte stare». Ma guarda anche avanti. La decisione di Istanbul decreta di fatto anche lo scisma all’interno dell’ortodossia, visto che la chiesa russa, quella con maggiori fedeli a livello internazionale, ha già rotto da mesi i rapporti con Costantinopoli. «Il patriarca Bartolomeo oggi si è definitivamente separato dall’ortodossia mondiale unendosi allo scisma». ha dichiarato padre Georgy, portavoce di Kirill.
«ORA PER NOI si apre il mondo anche in termini di proselitismo su scala mondiale», ha concluso Georgy, ricordando che le chiese nazionali ortodosse sono quasi tutte indipendenti, e il Patriarca Bartolomeo è sempre stato solo considerato solo un primus inter pares, un titolo che avrebbe però definitivamente perso dopo questa vigilia di Natale che gli ortodossi sicuramente ricorderanno a lungo.
il manifesto 6.1.19
Migliaia a protestare: «Tutti contro Orbán»
Ungheria. Al primo punto della protesta la legge schiavista che aumenta le ore di straordinario
"Protestiamo contro la legge schiavista", in piazza gli ungheresi contro il governo di Orbán
Massimo Congiu
BUDAPEST Come promesso sono scesi in piazza in diverse migliaia. È stato l’esordio dei manifestanti ungheresi in questo primissimo scorcio di 2019. Un ritorno a chiusura della pausa natalizia avvenuta dopo settimane di dimostrazioni contro il sistema di Viktor Orbán.
LA PROTESTA SI CONCENTRA sulla legge che aumenta le ore annuali di straordinario, ma vengono condannate anche quella che istituiscono i tribunali speciali e le manovre compiute dal governo che, secondo i manifestanti, intende controllare sempre di più anche il mondo accademico.
Questi sono gli spunti più attuali di una protesta che è la spia del pesante malcontento esistente fra strati considerevoli della popolazione ungherese. Un malcontento cui è stata data voce più volte in questi lunghi anni di governo del Fidesz, al potere dal 2010, e che oggi vede le bandiere di Jobbik nei cortei in cui è preponderante la presenza di partiti e sostenitori liberali e di centro-sinistra. I dimostranti rumoreggiano per le vie della capitale e scandiscono il loro «Orbán vattene via», non mancano poi i già noti giochi di parole del tipo «victatura» e i cartelli e striscioni che condannano la politica del premier.
I SINDACATI SOTTOLINEANO la valenza padronale del governo in ambito lavorativo, espressa dapprima nel Codice del Lavoro entrato in vigore nel 2012 e confermata dalla legge sugli straordinari. Tali organizzazioni denunciano la logica ricattatoria di tale disposizione che solo formalmente lascia i lavoratori liberi di accettare o meno di fare straordinari. Per l’esecutivo, invece, si tratta di una norma positiva non solo per le aziende che lamentano una carenza di manodopera qualificata, ma anche per i lavoratori dipendenti che avranno modo di guadagnare di più.
I sindacati però affermano che i soldi a pagamento di questi straordinari arriveranno chissà quando. Al di là degli aspetti specifici si può dire che chi oggi scende in piazza in Ungheria rappresenti quella parte di paese stanca di una politica discriminatoria che privilegia gli amici del governo, che alimenta l’ostilità nei confronti di chi è diverso e incentiva paure e tensioni.
I MANIFESTANTI ESPRIMONO l’esasperazione dovuta ai continui appelli alla difesa della patria dai suoi nemici esterni come Soros, i migranti e la tecnocrazia di Bruxelles, e dai loro agenti in patria. La stanchezza a fronte di tutto ciò è un dato di fatto, resta il problema dell’alternativa perché è vero che l’opposizione partitica partecipa alla protesta ma non ha un programma con cui disegnare un futuro diverso per il paese.
Oggi come oggi è presente in piazza all’insegna di un «tutti contro Orbán», bisogna però vedere se saprà trarre vantaggio da questa situazione di fermento. Va inoltre considerato il fatto che non sono certo pochi quelli che continuano a credere in questo governo. Di fronte ai manifestanti c’è un sistema di potere che non resterà inerte di fronte a queste iniziative e che appare risoluto ad andare avanti per la sua strada.
Repubblica 6.1.19
Il cinese He Jiankui
Punito da Pechino lo scienziato che sfida il tabù del Dna umano
di Filippo Santelli
PECHINO È riapparso nella foresteria dell’università di Shenzhen, in una stanza del quarto piano. Qualche giorno fa, un reporter del New York Times lo ha intravisto dalla finestra discutere con un’altra ombra, forse quella della moglie. Poi uscire allo scoperto sul piccolo balconcino, camminare in tondo dietro la rete di metallo che hanno montato per impedirgli di calarsi o buttarsi giù. Gesticolava e parlava da solo He Jiankui, sequestrato in una camera del dormitorio per professori che una dozzina di energumeni in borghese piantona giorno e notte. Lo scienziato cinese che ha sfidato le leggi di uomini e dei, annunciando al mondo via Youtube di aver creato i primi bebè con il Dna modificato in laboratorio, ora vive in questo limbo. In attesa che le autorità di Pechino indaghino sui suoi esperimenti e capiscano se le gemelline Lulu e Nana, primi esemplari di Homo Sapiens Sapiens Ogm, esistono davvero.
In attesa che gli cuciano addosso un crimine e una pena adeguati all’ondata di sdegno universale che il suo esperimento ha generato.
Di lui non si avevano notizie da un mese. Il 27 novembre, mentre l’eco della sua ricerca sconvolgeva il mondo, He era salito sul palco di una conferenza sulla genetica ad Hong Kong. Aveva chiesto scusa per le modalità dell’annuncio, contrarie a ogni criterio di divulgazione scientifica. Ma aveva difeso l’esperimento, confermando la nascita delle gemelline e parlando senza ulteriori dettagli di un ulteriore feto "modificato" in fase di gravidanza. Poi più nulla.
Alcuni avevano ipotizzato una fuga all’estero, invece eccolo lì, agli arresti "grigi" con cui il regime trattiene i personaggi scomodi, avvolgendoli in un buco nero informativo. Rispetto al trattamento standard, nel suo caso la cortina è ancora più fitta: l’ufficio per la propaganda ha intimato ai media nazionali di non parlarne, i colleghi dell’Università di Scienza e Tecnologia di Shenzhen hanno le bocche cucite. Termometro dell’imbarazzo in cui He ha precipitato il Dragone. Perché è vero, a caldo il ministero per la Scienza e un centinaio di ricercatori ne hanno condannato con forza la «follia». Eppure in quell’impresa degna del dottor Frankenstein molti hanno visto l’inesorabile epilogo della giungla in cui si muove la ricerca in Cina. Del tutto indifferente all’etica, sacrificata nella forsennata corsa al primato in ogni campo.
L’ingegneria genetica è una delle tecnologie prioritarie indicate dal presidente Xi Jinping per il prossimo, strategico, balzo in avanti del Dragone. E questo, in un Paese che già guarda alle novità con minore diffidenza rispetto all’Occidente, ha portato a limitare al minimo le norme sugli esperimenti, anche i più controversi. La Cina è stata la prima ad applicare la chirurgia dei geni, la tecnica denominata CRISPR-Cas9, ai primati. Poi la prima, già nel 2015, ad utilizzarla a scopo terapeutico su malati terminali di cancro.
Test che negli Stati Uniti hanno richiesto oltre due anni per essere autorizzati, sottoposti a una profonda analisi da parte di comitati etici nazionali, qui hanno avuto luce verde in pochi giorni con il semplice timbro di un ospedale. Ed è questo contesto che ha fatto immaginare al 35enne He, figlio di umili contadini dello Hunan passato di colpo dalla fisica alla genetica, che la ricerca sugli embrioni di cui aveva parlato a molti colleghi negli Stati Uniti, ricevendo reazioni tra il freddo e l’indignato, fosse possibile in patria. Dopo un periodo da ricercatore a Stanford, è tornato in Cina grazie a Mille Talenti, il programma creato dal governo per attirare giovani scienziati. E all’insaputa dell’Università di Shenzhen, di cui è associato, ha reclutato otto coppie formate da persone malate di Aids, promettendo loro che avrebbe reso i loro figli immuni dal virus. La punizione dovrebbe essere esemplare, ne va dell’immagine del Paese. Gli strumenti legali non mancano: una legge del 2003 stabilisce che non si possano modificare embrioni destinati alla procreazione assistita, il consenso informato che He ha fatto firmare ai genitori era molto generico, senza contare che per evitare la trasmissione dell’Aids ai figli esistono già metodi efficaci. La domanda però è se tutto questo spingerà Pechino a regolare in maniera più stringente la ricerca, genetica e non. Una circolare ministeriale diffusa nei giorni scorsi ha intimato a tutti gli scienziati che hanno eseguito sperimentazioni proibite su embrioni di auto denunciarsi.
Eppure l’estrema libertà è una delle leve con cui il Dragone ha cercato di riportare a casa i suoi ricercatori più brillanti, al servizio delle ambizioni di potenza del regime.
E se da una parte i cittadini chiedono sicurezza e controlli, dall’altra lamentano il ritardo rispetto all’Occidente nella disponibilità di farmaci e terapie avanzate. Anche per l’approvazione delle nuove medicine Pechino ha creato una corsia super veloce, al limite dello spericolato; nei giorni scorsi un farmaco contro l’anemia prodotto da AstraZeneca è diventato il primo a essere commercializzato nel Paese prima che negli Stati Uniti o in Europa. La multinazionale ha potuto trasmettere alle autorità i risultati dei test clinici sull’uomo man mano che venivano eseguiti, anziché alla fine del processo.
A tanta libertà perfino molti scienziati occidentali guardavano con invidia, prima che He Jiankui ne rivelasse il lato oscuro. «Può essere un’opportunità di cambiare il modo in cui stiamo regolando questa tecnologia», ha detto Jennifer Doudna, biochimica americana tra gli inventori del CRISPR-Cas9, proponendo che siano le Nazioni Unite a discuterne. Difficile, considerato il livello di litigiosità e inconcludenza che si riscontra nelle Organizzazioni internazionali anche su temi scientifici, vedere la lotta al cambiamento climatico. Così per ora, del terremoto che un mese fa ha sconvolto il mondo, resta solo l’innaturale limbo di silenzio in cui le autorità cinesi hanno avvolto il destino di Lulu, Nana e del loro creatore. Forse una bufala pubblicitaria, forse un passo epocale nella storia dell’uomo, dalle conseguenze imprevedibili. La risposta è chiusa in una stanza al quarto piano di un dormitorio di Shenzhen. E lì potrebbe restare ancora a lungo.
il manifesto 6.1.19
Una metafora costruttivista del socialismo realizzato
Storia russa. Un gigantesco studio dello storico russo-americano Yuri Slezkine dedicato alla «La Casa del Governo», l’edificio di Boris Iofan avviato nel 1927 per protagonisti del nuovo apparato sovietico, e della cultura: da Feltrinelli
di Stefano Garzonio
Nel 1931 fu portata a termine a Mosca, sul lungofiume, nell’area insulare della Palude, la Casa del Comitato esecutivo centrale e del Consiglio dei commissari del popolo (Casa del Governo), una grandiosa opera avviata nel 1927 e affidata al celebre architetto costruttivista Boris Iofan. Dotata di 505 appartamenti, un cinema, un teatro, una banca, un asilo, la posta, biblioteche, sale sportive, un negozio interno, un campo da tennis, la Casa del Governo fu destinata ad abitazione per dirigenti e quadri del nuovo apparato sovietico, nonché per personaggi di rilievo dell’arte, della scienza e della vita pubblica della società.
Tra i molti membri dell’élite sovietica che la abitarono, i figli di Stalin, i capi bolscevichi Nikolaj Bucharin e Aleksej Rykov, Pavel Postyšev, il biochimico Boris Zbarskij, direttore del laboratorio del Mausoleo di Lenin, il poeta Dem’jan Bednyj, il critico Aleksandr Voronskij, l’eroe del lavoro Aleksej Stachanov. Insieme a loro, molti collaboratori dei servizi, che svolsero un ruolo decisivo negli anni del Terrore (per esempio il figlio di Jakov Sverdlov, Andrej). A questo complesso architettonico, che nel 1935 contava 2655 inquilini, dedicò il celebre romanzo La casa sul lungofiume lo scrittore sovietico Jurij Trifonov, che in quella casa visse in quanto figlio di un alto dirigente bolscevico. Nel 1989 all’interno della Casa fu aperto un museo che testimonia della storia dell’istituzione e della biografia dei suoi tanti inquilini.
Un gigantesco studio dello storico russo-americano Yuri Slezkine, uscito negli Stati Uniti nel 2017, ora pubblicato da Feltrinelli, La Casa del Governo Una storia russa di utopia e terrore (traduzione di Bruno Amato, pp. 1211, euro 39,00) descrive l’edificio di Boris Iofan, e i suoi inquilini. Fondato sulle loro numerose testimonianze memorialistiche, ma anche su una sterminata bibliografia relativa alla storia russa e al movimento rivoluzionario, lo studio di Slezkine si sviluppa anche in una prospettiva più articolata, di natura comparatistica, che tende a evidenziare gli aspetti culturali, filosofico-religiosi, psicologici, comportamentali del fenomeno rivoluzionario iscrivendoli nell’ampio quadro della storia dell’umanità. Metafora dell’intera patria del socialismo, la Casa acquista così un inquietante valore simbolico e la lettura che l’opera propone della storia russa si colora di riferimenti millenaristici, in una prospettiva escatologica.
La prima sezione del libro è dedicata agli anni che precedono la costruzione della Casa, all’attesa del «vero giorno», la realizzazione della «profezia bolscevica» e da lì al compimento della rivoluzione. Si passa poi alla costruzione della «casa eterna», l’avvio del piano quinquennale, visto come lo strumento per la realizzazione del nuovo mondo, fino al «secondo avvento». La nuova vita nella Casa è descritta come un processo di realizzazione degli uomini nuovi, il compiersi del «regno dei santi», il magico mondo dell’infanzia felice. In una prospettiva apocalittica, si ferma poi sull’assassinio di Kirov (nel 1934) sulle epurazioni, e i grandi processi degli anni del Terrore, nella ricerca affannosa del capro espiatorio. Accanto alla vita quotidiana dei carnefici, la sofferenza delle vedove e dei figli dei condannati e, con l’arrivo della guerra, la fine, «l’aldilà». Su questo scheletro mitopoietico, si avvolgono tre filoni, quello di una saga familiare dei tanti inquilini della Casa, quello analitico della storia del bolscevismo come «setta millenaristica», e quello propriamente letterario, legato al processo di costruzione della nuova società, che la Casa del governo doveva rappresentare.
Si può non concordare con il complesso progetto interpretativo proposto da Slezkine o, meglio, ci si può limitare a leggerlo come un grande affresco narrativo fatto di singole linee tematiche e di una grande mole di materiali memorialistici e di archivio. Accanto alle vicende più note – per esempio quella di Nikolaj Bucharin, della sua carriera politica e del suo declino fino al processo e alla fucilazione, ricostruite utilizzando le memorie della seconda moglie Anna Larina, e riportando le lettere del rivoluzionario a Stalin, o di altri dirigenti bolscevichi – Slezkine offre una prospettiva della vita sovietica che risale agli anni della rivoluzione e si conclude con il crollo dell’impero comunista.
Già i titoli dei singoli capitoli sono eloquenti definizioni delle diverse fasi della vita nella Casa: L’ammissione di colpa, Bussano alla porta, La fine dell’infanzia, La persistenza della felicità: capitolo, questo, di grande forza, per i toni e le atmosfere evocate nel descrivere il destino dei giovani figli e nipoti dei condannati. Le tante voci che partecipano a questo testo polifonico (per esempio quella del giovane Trifonov e dell’ amico Lëva Fedotov, dei ragazzi e delle donne le cui memorie contribuiscono a ricostruire un’esperienza storica che rivela ancora inesplorati tragici aspetti) tendono a confluire nel racconto di una vera e propria saga familiare, alla quale partecipano direttamente anche alcuni scrittori (da Serafimovich a Kaverin) e altri rappresentanti della vita culturale dell’epoca (è il caso della nota regista Natalija Sats, che aveva lavorato anche all’estero con Otto Klemperer).
Non è estranea a questa saga la forza narrativa della grande tradizione letteraria russa, da Tolstoj a Grossman e, in particolare, al Solženicyn del Primo cerchio. Di grande utilità, la Lista parziale degli inquilini, nella quale si riportano i dati biografici di una buona parte dei protagonisti del volume, mentre la bibliografia ragionata che lo chiude gli conferisce il valore di una enciclopedia, con l’aggiunta di tanti materiali iconografici inediti che ne sottolineano il valore documentario. «Questa è un’opera storica – avverte l’autore. Ogni riferimento a personaggi di fantasia – vivi o morti – è puramente casuale».
il manifesto 6.1.19
Nei conflitti adolescenziali, i fantasmi della collettività
Prima ancora di entrare in contrasto con il mondo adulto, i ragazzi ne denunciano le intenzioni sommerse: «Adolescenti senza tempo», un saggio di Massimo Ammaniti, da Cortina
oseph Szabo, Teenage & Almost Grown
oseph Szabo, Teenage & Almost Grown
di Franco Lolli
Il termine adolescenza deriva, com’è noto, dal verbo adolescere, il cui significato è duplice: crescere, maturare, sviluppare, da un lato, ma anche ardere, fumare. L’adolescente è, dunque, colui che cresce e «brucia», colui che – si «infuoca» diventando adulto. Non a caso, il processo di crescita postpuberale viene definito di infiammazione e di incandescenza: a prescindere dall’epoca storica e dal luogo in cui il destino del singolo essere umano si compie. Ma è pur vero – come giustamente fa notare Massimo Ammaniti nel suo ultimo libro, Adolescenti senza tempo (Raffaello Cortina,pp. 218, euro14,00) – che sul dato strutturale di tipo organico intervengono fattori contingenti che possono alterarne le specifiche qualità.
La riflessione di Ammaniti sul fenomeno adolescenziale diventa così una opportunità per riconsiderare il delicato rapporto tra i fattori biologici e quella che Lacan definiva l’azione del Linguaggio sul vivente, alludendo ai modo in cui l’Altro (inteso come l’insieme dei valori, delle aspettative, degli ideali, dei modi di imbastire legame) disturba la predeterminazione del programma genetico.
Pubertà anticipata
A questo proposito, Ammaniti sottolinea come la comparsa dei primi segni della pubertà avvenga nelle società occidentali in netto anticipo rispetto al passato (10-10 anni e mezzo per le ragazze, 11-11 anni e mezzo per i ragazzi), come l’utilizzo massiccio delle nuove tecnologie sia in grado di modificare la struttura cerebrale e favorire lo sviluppo di determinate abilità (a scapito di altre), come lo stesso meccanismo di ricerca del piacere (che si lega alla produzione di dopamina) risulti condizionato dall’uso dei social media, nei quali l’urgenza di ricevere una immediata approvazione attiva meccanismi di dipendenza che – ci ricorda l’autore – non sono poi così differenti da quelli causati dal consumo di droghe.
Sebbene regolato dalle sue inesorabili leggi di funzionamento, l’organismo non può non entrare in risonanza con l’universo significante nel quale si trova. All’invariante biologico, ovvero ai requisiti trascendentali della natura umana, fa da contrappunto la plasticità delle manifestazioni fenomeniche che ne caratterizzano la comparsa.
In un’epoca, allora, in cui una specie di catastrofismo diffuso tende a giudicare, per fare un esempio, l’uso di tablet e smartphone come una cesura insanabile e irreversibile nel progresso dell’umanità, il richiamo di Ammaniti al Fedro di Platone e al Racconto d’inverno di Shakespeare – di cui riporta la nota frase: «Vorrei che non ci fosse l’età tra i dieci e i ventitré anni o che la gioventù la passasse tutta a dormire» – ha l’indubbio merito di attenuare la portata drammatica delle più affermate analisi sull’adolescenza.
In effetti, la maggiore o minore integrazione dei ragazzi nel mondo degli adulti, la capacità di uscire più o meno velocemente dall’indefinitezza che li contraddistingue, l’espansione o la riduzione del tempo necessario per accedere a una dimensione più stabile, sono tutte variabili mutanti al mutare della Storia: e destinate, perciò, a ulteriori evoluzioni.
Citando Platone, Ammaniti ricorda al lettore come preoccupazioni analoghe a quelle che turbano chi si interessa al rapporto tra tecnologia digitale e il mondo infantile-adolescenziale, erano già presenti nel mondo greco, riferite, a quel tempo, allo sviluppo della scrittura, la nuova téchne accusata di «provocare dimenticanze in chi la usa, perché non viene esercitata la memoria».
Spie di un disagio sociale
Con provvidenziale acume, l’autore nota come «probabilmente in un futuro neppure troppo lontano, anche la téchne digitale potrà entrare a far parte del patrimonio umano e non verrà più considerata qualcosa di estraneo». Chi vent’anni fa dava per insuperabile la condizione dell’adolescente tipica dell’era berlusconiana (l’edonista tutto dedito al piacere e al godimento senza limiti) avrà dovuto oggi ricredersi nell’incontrare sempre più spesso adolescenti depressi, spaesati, angosciati, «appanicati», ansiosi, disorientati, disincantati e nichilisti, sfiancati dalla più grande crisi economica (e sociale) degli ultimi decenni. E chi aveva pensato che il tramonto del patriarcato avesse irrimediabilmente destabilizzato l’esistenza delle generazioni future, dovrà prendere atto del rigurgito autoritario e identitario che il mondo occidentale sta affrontando e dei suoi effetti (ancora sconosciuti) sulla edificazione dell’Io in chi cresce in un clima di riaffermazione del potere di Dio, della Patria e della Famiglia.
L’adolescente, in questo senso, sembra avere la capacità di portare alla luce il fantasma inconscio che agita la collettività, offrendosi come una sorta di cartina di tornasole dello spirito del tempo, che denuncia le intenzioni sommerse del mondo adulto, prima ancora di entrarne in contrasto. Le patologie dell’adolescente sono le patologie della società in cui vive: il suo disagio è il disagio della comunità di cui è figlio. L’adolescente ci indica, allora, la forma che assume, di volta in volta, questo disagio: perché lo vive in presa diretta, senza le mediazioni che intervengono nell’età adulta.
Sponde comportamentali
Le osservazioni che Ammaniti raccoglie attraverso l’ascolto dei suoi giovani pazienti, sembrano segnalare le varie declinazioni dell’influenza che la società dello spettacolo esercita sui ragazzi: ed è, in effetti, la riduzione dell’esperienza a scenario di promozione della propria immagine ciò che più accomuna le varie manifestazioni. Trattare se stessi come merce desiderabile sovraesponendosi nei selfie o, all’estremo opposto, ribellarsi a questa deriva alienante barricandosi in casa e sfuggendo al contatto con gli altri, sono le due sponde comportamentali tra le quali gli adolescenti sembrano attualmente rimbalzare. Sullo sfondo, l’imperativo spettacolare che traduce la realtà in reality: forse l’eredità più pesante che il mondo degli adulti dell’epoca postmoderna è stato in grado di lasciare ai propri figli.
Corriere 6.1.19
De Chirico pittore-filosofo
L’arte è la lingua dell’universo
Ideò forme geometriche e architettoniche per dare senso alla realtà
Un volume di Riccardo Dottori (La nave di Teseo) dedicato al grande maestro del Novecento
Schopenhauer e Nietzsche furono i punti di riferimento. Su Michelangelo sentenziò: «L’artista più stupido»
di Carlo Vulpio
Enigma, malinconia, angoscia, inquietudine, rivelazione, sono le parole chiave per capire l’arte di un grande del Novecento, il pittore, scultore, musicista, filosofo e poeta Giorgio de Chirico. A patto che ci si intenda sul termine metafisica, che quelle parole chiave tiene insieme, e si eviti, come scrive lo stesso de Chirico, «il mastodontico malinteso a cui potrebbe dar luogo la scomposizione della parola metafisica, dal greco metà tà fusikà («dopo le cose fisiche»), che farebbe pensare che quelle cose che si trovano dopo le cose fisiche debbano costituire una specie di vuoto nirvanico». Invece, la realtà delle cose in sé non è dietro o oltre l’apparenza, ma è nell’apparenza stessa e — ci si perdoni l’estrema sintesi — la realtà dell’arte è l’unica a poterla cogliere.
Siamo di fronte perciò a una realtà metafisica, che non è una anti-realtà, ma al contrario è una yper-realtà, come la definisce e la spiega Riccardo Dottori nel suo poderoso e ponderoso saggio Giorgio de Chirico. Immagini metafisiche (La nave di Teseo). Un’analisi minuziosa, completa, erudita, ma non per questo meno appassionata e brillante, oltre che ben scritta, cosa non scontata quando si tratta di accademici, che consegna al lettore gli strumenti necessari per capire de Chirico e la sua arte metafisica, che egli volle distinguere subito dall’impressionismo e poi dal surrealismo, dal futurismo e dal simbolismo.
Riccardo Dottori è un filosofo della religione, è stato assistente di Hans-Georg Gadamer all’università di Heidelberg e ha insegnato a lungo Ermeneutica filosofica all’università Tor Vergata di Roma, e quindi ha raccontato Giorgio de Chirico non solo ripercorrendone i momenti biografici più significativi, e quasi indossandone i panni, ma soprattutto non tralasciando nulla della sua formazione filosofica, letteraria, artistica.
Ci illustra bene, Dottori, come e per quali vie de Chirico ha dipinto i quadri di de Chirico, ed è convincente la sua tesi: l’educazione classica di de Chirico è il perfetto retroterra della sua arte metafisica, poiché l’artista classico è un metafisico, in quanto «vede», attraverso la rivelazione e su una dimensione estetica di grado superiore, che è una dimensione estatica, le forme dell’essere.
Quali siano queste forme dell’essere alla base dell’arte metafisica così intesa, lo dice lo stesso de Chirico: «Le prime fondamenta di una grande estetica metafisica stanno nella costruzione delle città, nella forma architetturale delle case, delle piazze, dei giardini e dei paesaggi pubblici, dei porti, delle stazioni ferroviarie. I greci ebbero un certo scrupolo in tali costruzioni, guidati dal loro senso estetico-filosofico... In Italia abbiamo moderni e mirabili esempi di tali costruzioni... ma verrà forse un giorno che tale estetica, lasciata per ora ai capricci del caso, diventerà una legge e una necessità delle classi superiori e dei dirigenti la cosa pubblica».
Le cose in Italia sono andate diversamente, come ovunque tutti possiamo vedere, ma forse non sarebbe stato così se si fosse ragionato come de Chirico, che, scrive Dottori, non poneva alla base dell’opera d’arte il solo elemento psicologico, ma una geometria «che regimenta la presenza umana nello spazio abitato, che diviene un mondo storico; e questo vuol dire comprendere la struttura metafisica, cioè geometrico-architettonica delle piazze d’Italia», piazze che sono l’oggetto di molti quadri di Giorgio de Chirico, esaminati da Dottori uno per uno.
Ci sono due de Chirico metafisici — sottolinea Dottori —, quello di prima e quello dopo la Grande Guerra, del periodo ferrarese, ma, riconosciuto il «debito» di formazione ad Arnold Böcklin, sono sempre Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche (l’enigma, la rivelazione) i punti di riferimento incrollabili di Giorgio de Chirico, anche se, rispetto a Schopenhauer, per de Chirico è la pittura e non la musica «la lingua universale al massimo grado», ciò che gli fa intraprendere la sfida di rinnovare il linguaggio pittorico dell’arte del XX secolo, in cui la poesia parli attraverso le forme geometriche e la matematica, diventando con la posa in opera «poesia architettonica», cioè realizzazione dell’estasi metafisica e della rivelazione riservata soltanto al poeta, e quindi «realtà» metafisica: non un al di là delle cose, ma «il secondo aspetto» delle cose.
Opere come Il grande metafisico, Le Muse inquietanti, Malinconia ermetica sono opere di un pittore-filosofo, che considera Arnold Böcklin «l’unico ad aver dipinto quadri profondi» e Michelangelo «l’artista più stupido», che definisce Friedrich Nietzsche «il poeta più profondo, più di Dante e di Goethe» e che a chi gli chiedeva quali fossero i più validi pittori viventi rispondeva — lo racconta Vittorio Sgarbi in Novecento (edito sempre da La nave di Teseo) —: «Nessuno, all’infuori di me». Mentre L’enigma di un pomeriggio d’autunno è nient’altro che la malinconia, cioè la domanda che inquieta l’uomo di fronte al non senso della vita, che può acquistare un senso soltanto attraverso l’arte.
Solo per questa via dunque — un’arte che non si preoccupi del buon senso e della logica, che sia «strana», che si avvicini al sogno e alla mentalità infantile — la malinconia può diventare dolce, come ne Il canto d’amore, «il più famoso quadro di de Chirico — sostiene Dottori —, il manifesto della nuova arte del XX secolo», con quel guanto rosso di gomma appeso alla parete, forse la mano del destino, che commosse René Magritte fino alle lacrime e gli fece dire: «Ho visto il pensiero».
Corriere La Lettura 6.1.19
L’impronta di Caravaggio sulla Maddalena
di Marco Nese
Nel museo Jacquemart-André, a Parigi, i visitatori di questi giorni fanno la fila per ammirare una mostra su Caravaggio. Nell’ultima sala sono attratti da un’immagine potente. Una tela alta 106,5 centimetri e larga 91. Rappresenta la Maddalena. Su uno sfondo nero, il corpo di una donna in estasi emerge dal buio e prende forma grazie a una luce abbagliante. Attorno a quest’opera i critici d’arte si sono scervellati a lungo cercando di capire se fu la mano di Caravaggio a dipingerla.
Poco più di un anno fa, per eliminare i dubbi, il quadro venne affidato alle mani sapienti degli studiosi dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, rinomati specialisti nel campo del restauro. Essi hanno visto affiorare sotto lo sfondo scuro una forma di vegetazione composta da arbusti e fogliame. Sono stati in grado di identificare la composizione chimica dei colori. I materiali usati riportano all’epoca in cui lavorava Caravaggio. Anche la tecnica pittorica concorre a rafforzare la convinzione che il dipinto sia da attribuire alla mano di Michelangelo Merisi, l’inquieto artista nato a Caravaggio nel 1571.
Le analisi dell’opera sono racchiuse in una relazione che mercoledì 9 gennaio verrà illustrata nel museo di Parigi. Sarà la storica dell’arte Cecilia Frosinini a prendere la parola e offrire le sue valutazioni. «La Lettura» ha potuto consultare in anticipo i risultati dell’indagine diagnostica.
Ma prima di entrare nei dettagli è opportuno inquadrare la fase della vita in cui Caravaggio compone l’opera. Siamo nel 1606, il pittore ha 35 anni e vive a Roma, ha trovato da tempo rifugio e protezione presso il cardinale Francesco Maria del Monte a Palazzo Madama, attuale sede del Senato. L’uomo, però, è scontroso, gira armato di pugnale, sempre incline «a far duelli e baruffe». Il 28 maggio 1606, forse per un diverbio nel gioco della pallacorda o per l’offesa a una donna, si scontra proprio a duello con Ranuccio Tomassoni. E lo colpisce a morte. Una disposizione di papa Sisto V vieta il duello: chi lo pratica è punito con la pena capitale. Da quel momento, Caravaggio rischia la vita nei territori dello Stato pontificio. Fugge nei feudi laziali della famiglia Colonna che ne assicura la protezione. E lì lavora con febbrile impeto. Dipinge la Cena in Emmaus, che oggi si può ammirare nella Pinacoteca di Brera, a Milano. Secondo gli antichi biografi dipinge anche una Maddalena a mezza figura. Adesso dalle indagini tecniche arriva la conferma che la Maddalena fu composta proprio in quel periodo. Cosa che forse consentirà una collocazione definitiva di questo capolavoro nella storia artistica di Caravaggio.
Cinque anni prima aveva dipinto un’altra tela con soggetto la Cena in Emmaus, oggi custodita alla National Gallery a Londra. La scena riflette il racconto dell’evangelista Luca, secondo il quale a Emmaus, poco lontano da Gerusalemme, due discepoli incontrano Gesù dopo la resurrezione. Le differenze fra le due opere sono abissali. Nella prima, quella della National Gallery, i colori sono vivaci, Gesù ha un viso delicato e sereno. Nella seconda Cena in Emmaus, dipinta mentre il pittore è in fuga, la scena è tenebrosa, Gesù ha un’espressione cupa mentre spezza il pane e su tutto l’ambiente grava un fosco presagio. Qualcuno ritiene che Caravaggio abbia dipinto sé stesso, disperato, nel volto di Gesù. Ma quello che a noi interessa sono i punti in comune che gli specialisti hanno riscontrato fra questa seconda Cena in Emmaus e la Maddalena in estasi, similitudini che accreditano la tesi della composizione delle due opere nei mesi trascorsi dal pittore nei feudi dei Colonna.
Il primo aspetto in comune è lo sfondo. «Quando ho lavorato sulla Cena in Emmaus — spiega il restauratore dell’Opificio, Roberto Bellucci — emerse in modo chiaro che originariamente il quadro aveva uno sfondo paesaggistico. La stanza in cui ha luogo la scena sacra presentava sulla destra un’apertura. Poteva trattarsi di una finestra o una porta spalancata attraverso la quale si vedeva un luogo alberato». Successivamente però Caravaggio aveva coperto l’intero sfondo con un colore scuro. Secondo i critici, il pittore aveva inizialmente scelto quella vegetazione per simboleggiare la rinascita della natura insieme col ritorno alla vita di Gesù. Poi però si era pentito e aveva cancellato ogni segno di letizia per creare una scena di passione e penitenza. Nella composizione della Maddalena, l’artista si comporta allo stesso modo. Prima dipinge, poi cancella. «In un primo momento — racconta Bellucci — con la tecnica fotografica ad alta definizione, grazie a numerosi scatti ricombinati insieme, abbiamo cominciato a cogliere dei dettagli, delle masse, che compaiono sotto lo strato scuro dello sfondo».
Per leggere meglio le immagini coperte servivano strumenti più potenti. Allora ci si è rivolti all’Istituto di Scienze e tecnologie molecolari del Cnr, con sede a Perugia. Lì dispongono di una delle tante cose mirabili del nostro Paese. «Lavoriamo con apparecchiature tecnologiche uniche — spiega Laura Cartechini, ricercatrice chimica —. Le abbiamo sviluppate in collaborazione con la ditta milanese XGlab. Per la Maddalena abbiamo usato uno scanner in fluorescenza ai raggi X che ha analizzato la tela punto per punto ricostruendo la distribuzione del colore nella fase creativa. I raggi X sondano l’intera stratigrafia, è come aprire delle finestre attraverso cui spingere lo sguardo su eventuali immagini sottostanti. Ci chiamano per queste ricerche in tutta Europa. Recentemente il Museo di Munch, a Oslo, ci ha commissionato un’indagine su una delle versioni dell’Urlo».
Sono intervenuti sulla Maddalena anche i tecnici dell’Istituto di Fisica nucleare di Firenze per studiare gli elementi chimici che compongono i pigmenti pittorici. «Avere una conoscenza completa dei pigmenti e della distribuzione dei colori — aggiunge Laura Cartechini — non serve solo a creare una mappa degli strati dipinti, ma è indispensabile per eventuali ritocchi conservativi». Mettendo insieme tutti i dati delle indagini in ultravioletto e radiazione nell’infrarosso, il dipinto sembra diventato trasparente. Il corpo della Maddalena semidisteso non è, come appare, avvolto da una massa buia, ma poggia su alcune rocce coperte da un pagliericcio. La figura della donna è inquadrata in una caverna sulla cui apertura campeggiano in modo chiaro, in alto a sinistra, le foglie di una vegetazione arricchita da fioriture. I rilievi tecnici non lasciano dubbi sul fatto che lo scenario paesaggistico appartiene al dipinto, che nella versione originale era stato concepito e realizzato proprio con quello sfondo naturalistico. Il pittore aveva usato una pennellata leggera, forse poco convinto del lavoro che stava realizzando. E in un secondo tempo ha deciso di nascondere quelle immagini sotto uno strato scuro. Maurizio Calvesi ha interpretato lo sfondo scuro come tenebra, «simbolo del male e del peccato», mentre la luce che inonda la figura femminile simboleggia la redenzione.
Ma l’aspetto fondamentale delle ricerche è che la stessa tavolozza di colori e stratigrafia di pigmenti accomuna le due opere, la Cena di Brera e la Maddalena, e fa ritenere che a realizzarle sia stata la stessa mano. Emerge una prevalenza del rame che è il principale componente dei pigmenti verdi delle foglie. C’è una notevole presenza delle terre combinate con l’ocra, mentre le lacche formano i rossi e intervengono nella composizione degli incarnati. Nel panneggio della Maddalena compare il cinabro, pigmento a base di mercurio. E gli ossidi di ferro sono serviti a ricoprire con un velo scuro il paesaggio sottostante.
Torniamo a Caravaggio fuggitivo. Lascia le terre dei Colonna e va a Napoli sotto la protezione di Giovanna Colonna, figlia di Marcantonio, vincitore della battaglia di Lepanto. Da Napoli fugge a Malta, infine ritorna a Napoli. Nell’estate del 1610 sale a bordo di una feluca, «con alcune poche robe per venirsene a Roma». Deodato Gentile, vescovo di Caserta, scrive al segretario di Stato cardinale Scipione Borghese che Caravaggio porta con sé tre dipinti, «doi San Joanni e una Madalena». Forse li vuole donare proprio a Scipione Borghese per ottenere la sua protezione.
Scende dall’imbarcazione a Palo, sul litorale laziale, per proseguire verso Roma. Ma il capitano delle guardie pontificie lo arresta. L’imbarcazione se ne torna a Napoli dove riporta le tre tele. Uno dei San Giovanni si ammira oggi nella Galleria Borghese a Roma. L’altro non si sa dove sia finito. La Maddalena invece trova riparo in casa della principessa Carafa-Colonna a Napoli. E diventa uno dei soggetti più copiati. Louis Finson, pittore fiammingo, nel 1612 è a Napoli dove ammira la Maddalena e ne dipinge una sua versione esposta ora nel Museo di Belle Arti di Marsiglia. Maurizio Marini ha contato almeno sedici versioni o copie della Maddalena. Ci si domanda se lo stesso Caravaggio ne avesse realizzate più copie. In ogni caso, qual è il capolavoro iniziale da cui sono discese le varie versioni? Qual è «l’archetipo»? — si domandava Roberto Longhi. Secondo il critico d’arte Giovanni Carandente, «l’originale caravaggesco» è proprio questo di cui parliamo, perché «risulta palese la superiore qualità dell’opera rispetto alle varianti».
La Maddalena rimase in casa dei Carafa-Colonna fino al 1873, quando la compra Michele Blundo, che la lascia in eredità alla nipote sposata con l’avvocato Giuseppe Klain, il quale nel 1976 la cede agli attuali proprietari, che preferiscono rimanere anonimi. «Questo quadro — osserva Roberto Bellucci, dell’Opificio fiorentino —, ha una storia documentata. A differenza di Leonardo, Caravaggio lavorava da solo, non aveva allievi. Allora, se non l’ha fatto lui chi è il pittore altrettanto bravo da realizzare un capolavoro?».
E Caravaggio? Secondo la versione ufficiale, liberato dalla prigione, fuggì lungo la costa e morì di malaria a Porto Ercole. Una versione che lo studioso Vincenzo Pacelli considera falsa. Sulla base di documenti scovati nell’Archivio segreto del Vaticano, Pacelli sostiene che Caravaggio fu assassinato a Palo Laziale.
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