Il Fatto 4.1.19
Fine primo tempo: i gialloverdi ora dimostrino che sanno fare
di Antonio Padellaro
In
fondo, la politica è semplice. Normalmente, se prometti e poi mantieni
gli elettori ti concedono il voto. In genere, se prometti e poi non
mantieni, il voto gli elettori te lo tolgono (e comunque, puoi fregarli
per un po’ ma non per sempre). Quindi, come nel calcio, anche per il
governo SalviMaio, la partita prevede due fasi.
Nel primo tempo si
sono dette molte parole e si sono approvate alcune leggi. Consenso del
pubblico, soprattutto dalle curve popolari (e populiste). Nel secondo
tempo, che comincia adesso, parole e leggi dovranno tradursi in fatti
concreti che ciascuno potrà verificare nella vita reale: per esempio,
più sicurezza nelle strade, immigrazione sotto controllo ma gestita con
umanità, il reddito di cittadinanza che qualcuno comincerà a percepire,
la possibilità di andare in pensione in anticipo (quota 100), e così
via. Ma, ci sono 161 ma. Si chiamano decreti attuativi. Riguardano
l’attuazione dei 1.143 commi di cui si compone la manovra 2019. Il Sole
24 Ore ha calcolato che “nei prossimi mesi dovranno vedere il via libera
161 misure attuative tra decreti ministeriali, provvedimenti e
regolamenti di diversi enti”. Nell’articolo, Andrea Marini e Marta Paris
scrivono di “conto alla rovescia” poiché “quasi la metà dei
provvedimenti attuativi necessari (77) ha una scadenza ben precisa per
l’adozione”. Dai contributi per la messa in sicurezza di scuole, strade,
edifici pubblici (10 gennaio), alla definizione delle modalità di
presentazione delle domande di indennizzo ai risparmiatori coinvolti nei
crac bancari, agli incentivi all’acquisto di auto e moto non inquinanti
(entro il 20 marzo), e molto, molto altro ancora. C’è un tempo per ogni
cosa, soprattutto in politica. Un tempo per gettare sassi e un tempo
per raccoglierli, dice l’Ecclesiaste la cui saggezza dovrebbe essere
raccolta e interpretata da chi governa. Quando Luigi Di Maio e
Alessandro Di Battista, riuniti sulle nevi di Moena, annunciano il
taglio degli stipendi dei parlamentari, sono davvero convinti che lo
spirito del tempo, dominato dalla “democrazia dell’indignazione” (Juan
Luis Cebrián), possa ancora accontentarsi di atti simbolici o
immaginifici (tipo l’abolizione della povertà annunciata da un balcone)?
Quella bandiera che giusto dieci anni fa furono i Cinque stelle a
sventolare nelle piazze contro i privilegi della casta dei politici,
rappresentazione simbolica di un’ingiustizia dominante che toglieva ai
poveri per dare ai ricchi, non è più sufficiente. Con il M5S alla guida
del paese il taglio dei vitalizi di deputati e senatori non ha certo
rimpinguato le casse statali ma ha rappresentato un segno del primo
cambiamento che si voleva affermare: quello che cerca di mantenere gli
impegni presi.
Però, da oggi, per vincere anche il secondo tempo
della partita (e le successive elezioni europee) quelle battaglie
simboliche appaiono di retroguardia. Più spesa sociale e meno
disuguaglianze chiede la protesta che attraversa l’Europa. Ne sa
qualcosa il Di Maio ministro del Lavoro e dello Sviluppo alle prese con
138 tavoli di crisi che coinvolgono 210mila dipendenti. Se poi restano a
piedi quanto li potrà consolare la notizia che gli onorevoli
guadagneranno di meno? Dopo sei mesi di contratto gialloverde, l’Italia
ha evitato i Gilets jaunes con un ardito compromesso tra Bruxelles e il
governo del popolo. Atteso alla prova dei fatti e senza tempi
supplementari.