Il Fatto 4.1.18
Sfuggiti ai libici, appesi all’Europa che non trova un porto di sbarco
Frontiere chiuse per tutti. Le Ong in contatto da giorni con Malta, Italia, Spagna e Germania: ma senza risposte
di Alessandro Mantovani
La
Professor Albrecht Plenck, la più piccola delle due navi che l’Europa
non vuole, ieri pomeriggio era a circa cinque miglia nautiche a sud di
Gozo, la seconda isola di Malta, al riparo dal vento e dal mare che
vengono da nord. È stato il sesto giorno di navigazione per il cargo
affittato dalla Ong tedesca Sea Eye di Ratisbona che il 29 dicembre ha
soccorso in mare, a 28 miglia dalle coste della provincia libica di
Sabrata, a ovest di Tripoli, 17 persone su un barchino: sedici uomini
tra cui due diciassettenni non accompagnati e una donna di 24 anni,
Mercy, nigeriana, che più di tutti ha avuto bisogno di cure; tre
sudanesi, tre nigeriani, tre camerunensi, due ivoriani, due guineaiani,
un maliano, un sierraleonese, quasi tutti sui vent’anni e un paio sopra i
40.
Qualche decina di miglia più a sud, a ridosso delle coste
occidentali maltesi, c’è la Sea Watch 3 di Sea Watch, altra Ong tedesca,
50 metri di lunghezza contro i 38 dell’altra, con 32 naufraghi a bordo.
Sono in mare dal 22 dicembre, ben tredici giorni, il salvataggio è
stato nella stessa zona, a 26 miglia da Sabrata: ieri mattina hanno
diffuso un filmato della nave sbatacchiata dalle onde che salivano sul
ponte, mentre gli ospiti africani erano sotto coperta con tutto quello
che significa per chi ha subito detenzioni anche lunghe in Libia. Questa
mattina presto dovrebbero tentare un rifornimento in mare, ci sono
rischi sanitari. “Non è facile spiegare che non c’è un porto sicuro”,
raccontano da Sea Watch. Sulla nave hanno festeggiato Natale e
Capodanno.
Un po’ di sollievo è arrivato ieri con la lettera di
Luigi De Magistris al comandante, il sindaco di Napoli vuole aprire il
porto. Il ministro degli interni Matteo Salvini ha ribadito che decide
lui, in base alle regole fissate da Marco Minniti che hanno attribuito
al Viminale competenze normalmente spettanti alle Capitanerie e quindi
al ministero dei Trasporti: “Ogni sbarco – dice il capo della Lega – è
un incentivo agli scafisti per continuare il loro sporchi traffici”.
Chissà se entrassero in porto chi darebbe l’ordine di sparargli addosso e
chi lo eseguirebbe…
La sorte dei 49 a bordo della Sea Watch 3 e
della Professor Albrech Plenck è appesa al negoziato che la Commissione
europea conduce con gli Stati membri. C’è la disponibilità della
Germania, dell’Olanda e della Francia ad accogliere i migranti ma il
porto non c’è ancora. Salvini fa la faccia feroce anche se in Italia non
c’è nessuna emergenza, tra il 2017 e il 2018 siamo passati da 180 mila a
20 mila sbarchi, il calo era già vistoso con Minniti, la pressione
dalla Libia è meno forte di prima e ad ogni modo, secondo i dati del
Viminale, dal 22 dicembre sono entrate in Italia 165 persone, 359
dell’intero mese di dicembre, però “non se ne è parlato, il sospetto è
che si stia alzando la voce perché c’entrano le Ong”, ha detto al Sole
24 Ore Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale
per le migrazioni (Oim), agenzia Onu. Oltre all’Italia c’è Malta ed è lì
che le Ong vogliono portare i 49. Un accordo sulle ricollocazioni
sembra perfino banale, ma diversi accordi di questo tipo, in passato,
non sono stati rispettati.
Non c’è dubbio che entrambi gli
interventi di soccorso siano avvenuti nell’ampia zona Sar (Search and
rescue, ricerca e soccorso) dichiarata dal traballante governo
provvisorio di Tripoli, quello di Fayez al-Sarraj, precisamente a meno
di 30 miglia dalle coste libiche, circa 130 da Lampedusa e circa 170/180
da Malta. Entrambe le navi si sono rivolte ai centri di coordinamento
di Roma e La Valletta che hanno dichiarato la competenza libica. Così
anche il centro tedesco di Brema, chiamato da Sea Eye: “Si sono limitati
a dirci di seguire gli ordini dei libici” , ha raccontato Jan Ribbeck,
capo della Missione di Sea Eye. Sea Watch dice di non aver avuto
risposte dai libici, Sea Eye riferisce una risposta c’è stata. Sea Watch
ha fatto sapere di aver contattato anche le autorità della Spagna, che
proprio nei primi giorni di questa crisi avevano concesso alla nave Open
Arms della Ong catalana Proactiva Open Arms di sbarcare con 300
migranti ad Algesiras ma a loro ha detto no. Ha contattato anche
l’Olanda, di cui batte bandiera, e la Francia. Tutti no. Le Ong ad ogni
modo si sono rifiutate di consegnare i naufraghi ai libici, del resto
sono lì proprio perché non si fidano dei libici.
Il Segretariato
generale dell’Onu ha più volte documentato torture e violenze non solo
nei centri di detenzione “non ufficiali” ma anche sui migranti ripescati
in mare dai guardacoste. La Commissione europea ha detto più volte che
la Libia non è “un porto sicuro” ai sensi della Convenzioni
internazionali. E la Sea Watch 3 è stata al centro di un episodio
drammatico, nel novembre 2017, in cui persero la vita 50 persone perché
un’imbarcazione militare libica e la nave della Ong si trovarono a
intervenire contemporaneamente su un naufragio: il New York Times ha
documentato che la motovedetta su cui i guardacoste prendevano a calci i
naufraghi era una di quelle donate da Minniti a Tripoli. La questione è
all’esame della Corte europea dei diritti umani. L’Associazione studi
giuridici sull’immigrazione consiglia a Sea Watch e Sea Eye di ricorrere
ai giudici di Strasburgo anche per il rifiuto prolungato di concedere
un porto che si consuma in questi giorni, configurandolo come
respingimento collettivo vietato.