giovedì 3 gennaio 2019

Il Fatto 3.1.19
Le vere incognite sul reddito
di Stefano Feltri


In questo Paese che vezzeggia ladri ed evasori definendoli “furbetti” è comprensibile che il dibattito sul reddito di cittadinanza si sia concentrato sui potenziali abusi, su quella massa (in gran parte immaginaria) di parassiti che non chiede altro che vivere di elemosina pubblica. Ora che però il decreto sul reddito è quasi pronto e se ne conoscono alcuni dettagli, che raccontiamo alle pagine 2 e 3, è il momento di farsi domande diverse: funzionerà? Al netto della patologia, guardiamo la fisiologia: come cambierà la vita di quei 4,5 milioni di famiglie che da aprile potrebbero spendere fino a 1.330 euro in più al mese (per tre adulti indigenti con due minori)? Diventeranno dei mantenuti dallo Stato? Usciranno dalla povertà trovando un impiego? O si creerà un mercato del lavoro da Oliver Twist in cui una categoria di disoccupati senza potere contrattuale sarà costretta ad accettare qualunque offerta perché altrimenti perde il sussidio con cui si mantiene e la possibilità di richiederlo per l’avvenire? È il modo migliore di spendere oltre 7 miliardi pubblici all’anno?
La proposta dei Cinque Stelle ha smussato alcune delle assurdità iniziali, grazie anche al lavoro del professor Pasquale Tridico: ora distingue tra poveri che col loro magro reddito devono pagare un affitto e quelli che vivono in case di proprietà; prevede l’ipotesi che non tutti possano lavorare, chi si occupa della cura di familiari disabili o minorenni non sarà costretto ad accettare lavori lontano da casa; l’ossessione per i centri per l’impiego pubblici, oggi inutili e lenti nell’ammodernarsi, si è attenuata e il sistema di sussidi si reggerà anche sulle agenzie private che hanno un incentivo economico a trovare un posto ai beneficiari del reddito; anche le imprese sono state coinvolte (pure troppo), e riceveranno sia una parte dei soldi che lo Stato avrebbe pagato al disoccupato che loro assumono, sia incentivi per la sua formazione.
Tutto bene, dunque? Non proprio. Le incognite sono ancora parecchie e ad alcune c’è ancora tempo per porre rimedio. Bisogna chiarire bene, per esempio, a quali condizioni le imprese possono beneficiare degli incentivi. Altrimenti la tentazione è troppo alta: per le mansioni poco qualificate, all’imprenditore basta non rinnovare un contratto a termine, magari con la scusa del decreto dignità, e assumere un disoccupato beneficiario del reddito così da intascare l’incentivo. Nessun aumento di occupazione e reddito di cittadinanza che diventa un sussidio all’impresa invece che ai poveri. I denari pubblici devono finanziare soltanto l’occupazione aggiuntiva, non il turnover.
C’è poi un punto mai affrontato: che succede alle partite Iva? Lo Stato può costringere un operaio disoccupato ad accettare un contratto da operatore delle pulizie, ma non può imporre a un giovane architetto di cercare clienti e fatturare così da pagarsi commercialista, contributi e spese varie per ritrovarsi in tasca a fine mese somme più basse di quelle che prenderebbe chiedendo il reddito di cittadinanza. Ha davvero senso pretendere che si formi come imbianchino o tecnico informatico? Sarebbe molto più utile imitare la Francia e prevedere una possibilità di cumulo tra reddito da lavoro e sussidio pubblico, così da favorire l’uscita dalla “trappola della povertà” invece che ostacolarla.
Il Rei, il Reddito di inclusione introdotto dal governo Gentiloni, considera tra i parametri di accesso un indicatore – Isr – diverso dal reddito familiare semplice che permette, nella pratica, di poter sommare un po’ di sussidio a quanto si incassa lavorando. Quando invece lo scambio è alla pari – se guadagno un euro perdo un euro di sussidio – si incentiva l’assistenzialismo. E dare a tutti i poveri in affitto un contributo di 280 euro per la casa significa trattare in modo uguale situazioni molto diverse: gli affitti di Roma non sono gli stessi di un piccolo Paese dell’appennino emiliano. Sarebbe più equo, e più efficace, dare un maggiore sostegno all’affitto a chi abita in zone dove i prezzi sono più elevati. C’è anche un’evidente sproporzione tra la quantità di risorse che va ai single (1,6 miliardi di euro) e quella alle famiglie numerose (1,4 miliardi), anche se sono queste ultime che andrebbero aiutate di più.
La serietà di ogni politica pubblica – e quella dei suoi proponenti – si misura soprattutto dal fatto che sia possibile misurarne successo o insuccesso. Per gelosie varie tra pezzi di amministrazione pubblica, che custodiscono gelosamente dati che dovrebbero essere alla portata di tutti, non è ancora stato possibile neppure analizzare l’impatto del Rei. Se i Cinque Stelle sono sicuri delle loro scelte, devono prevedere un monitoraggio trasparente e rapido degli effetti del loro reddito di cittadinanza. In modo che sia possibile darne una valutazione indipendente e tempestiva. Abolire la povertà è un nobile intento, ma per stabilire se ci si riesce o meno servono i numeri, non le parole di un leader politico.