Il Fatto 3.1.19
Le troppe illusioni del neoliberismo
La
nuova rabbia - Oggi c’è grande allarme in Europa per l’ascesa delle
destre, ma Luciano Gallino aveva già colto le spinte di fondo che
alimentavano il rancore: dall’apologia della disuguaglianza dei redditi
alla riduzione del lavoro a merce
di Filippomaria Pontani
Nel
leggere il recente rapporto dell’Università di Amsterdam sulla crescita
elettorale di forze definite come “populiste” e “anti-sistema” in
Europa, può venire in mente il cupo pannello dedicato ai flussi
elettorali degli anni 1920-30 nel Museo della Villa della Conferenza di
Wannsee fuori Berlino (dove il Nazismo varò nel 1942 la soluzione
finale, ora centro di documentazione sui totalitarismi).
Ma chi
abbia memoria più fresca, potrà ricordare le pagine finali di un libro
di Luciano Gallino (Finanzcapitalismo, Einaudi 2011), nel quale il
sociologo torinese constatava come le politiche di austerità, combinate
con la mancanza di regolazione dell’economia a dominante finanziaria,
con l’abbattimento diffuso del welfare, con la debolezza (corrività)
delle istituzioni, stessero portando a un’affermazione crescente di
formazioni di destra e di tendenze più o meno autoritarie.
Sull’attualità del pensiero di Gallino, scomparso nel 2015, e i suoi
potenziali sviluppi torna ora il volume Le grandi questioni sociali del
nostro tempo curato da Pietro Basso e Giuliana Chiaretti (scaricabile
dal sito delle Edizioni Ca’ Foscari), volto a demistificare alcuni
mantra del pensiero unico. Ne citeremo qui tre.
1) L’idea che
servano (a seconda che si parli da una prospettiva keynesiana o da una
neoliberista) “meno disuguaglianze per una crescita più forte” o
viceversa “più crescita per ridurre le disuguaglianze”: un denso saggio
di Fabio Perocco mostra come l’aumento delle disuguaglianze nel corso
degli ultimi 40 anni (quando il Pil mondiale è più che decuplicato) sia
un fattore strutturale dell’attuale globalizzazione, a livello
macroeconomico come a livello interno dei singoli Paesi. Spicca il caso
della Germania, dove la legislazione (il famigerato sistema Hartz IV
ecc.) ha polarizzato il mondo del lavoro tra un’élite protetta e una
sempre più vasta platea di minijobs, precari o part-time, con un
incremento delle disparità salariali paragonabile soltanto a quello di
Usa e Polonia. Nello stesso senso va l’approfondirsi del solco tra il
Nord e il Sud dell’Italia. Del resto, argomenta Perocco, non è un caso
che l’ideologia neo-liberista veda proprio nelle disuguaglianze un
fattore ineludibile e anzi propulsivo per la crescita dell’economia e
della società, e predichi come soluzione delle crisi la riduzione dei
diritti sociali e la commercializzazione di alcuni di essi (sanità,
istruzione, energia).
2) L’idea che i governi si siano ritirati
dinanzi all’iniziativa privata: al contrario, negli ultimi decenni i
governi dei Paesi occidentali si sono attivamente adoperati in appoggio e
in omaggio al capitale finanziario. Si è propagandata l’idea che la
crisi del debito sia dovuta al welfare (mentre la crescita del 20 per
cento del debito nell’Ue all’indomani della crisi non è certo stata
causata dall’aumento dei sistemi di protezione sociale); si è insistito
su ottusi dogmi di austerità (la candidatura di Manfred Weber nelle
prossime elezioni europee per la Commissione non fa presagire nulla di
buono); si sono adottate politiche sempre più influenzate dalla
governance delle multinazionali. E sono state le classi dirigenti –
ricordano Franco Rositi e Giorgio Cesarale – a togliere ogni ostacolo
normativo all’accumulazione finanziaria, a decidere di mantenere alti
profitti e dividendi pur in una situazione di bassa crescita, a limitare
la sovranità degli Stati svincolando però i più importanti centri
decisionali dell’Unione Europea da ogni investitura democratica.
L’assenza, a fronte di tutto ciò, di una “politica del lavoro globale” a
livello transnazionale è la sconfitta più grande che Gallino imputava
alla propria generazione.
3) L’idea che la flessibilità sia un
ingrediente ineludibile del mercato del lavoro: dopo l’illuminante
saggio di Gallino Il lavoro non è una merce, del 2007, la “storia e
preistoria dello stage” qui disegnata da Rossana Cillo mostra come
l’adeguamento del sistema educativo alle esigenze del mercato
neoliberista, culminato in Italia nell’arco che va dal pacchetto Treu
(1997) alla Buona Scuola renziana (2017), affondi le radici in una
svolta ideologica sancita a livello europeo nel 1993 con il libro bianco
su “Crescita, competitività e occupazione” prodotto dalla Commissione
guidata da Jacques Delors. Lì il modello sociale europeo si immolava
sull’altare dei dogmi della European Round Table of Industralists,
secondo i quali produttività e occupabilità dovevano rimanere gli unici
criteri-guida del processo d’istruzione. Il che sarebbe risultato
fors’anche tollerabile, se non si trovasse oggi che il mitico “stage”
cui tanti giovani agognano (per il 70 per cento dei casi non
retribuito), conduce a un’assunzione (spesso di breve durata) solo nel
12 per cento dei casi, finendo per sballottare il giovane da un ambiente
all’altro, togliendo a chi lavora davvero la coscienza stessa del suo
essere lavoratore, e trasformandolo in imprenditore del proprio stesso
sfruttamento.
Gallino è stato un riformista deluso, che ha
misurato la distanza della sua visione dell’impresa responsabile,
conosciuta e praticata nell’Olivetti degli anni ’60 e ’70, rispetto a un
capitalismo guidato da manager senza empatia per la loro azienda,
interessati solo ai listini azionari, e non di rado ai propri smisurati
profitti personali. Tuttavia, egli riteneva che le dimensioni
ipertrofiche del capitalismo finanziario fossero fondamentalmente una
patologia del sistema (analogamente, per altro verso, Thomas Piketty che
accusa la distribuzione polarizzata della ricchezza, o Nouriel Roubini
che addita le errate scelte istituzionali): per Pietro Basso, invece, la
deriva presente ha i tratti di una desolante e immedicabile fisiologia
del sistema capitalistico.
Comunque la si pensi, è indubbio che
l’ideologia neoliberista si serva di molte mistificazioni. Per quanto
inseriti in un discorso strutturato e allo stato privo di alternative
organiche nell’arena politica, gli inganni alla lunga mostrano la corda,
e inducono forme di turbolenze nelle urne e fuori: sfociano spesso in
urgenti richieste di protezione soddisfatte da governi nazionali più
decisi che danno mostra d’impostare la discriminazione su base etnica
anziché censitaria; monta così la sfiducia verso il parlamentarismo e la
diffidenza verso le istituzioni sovranazionali. Solo Paesi che hanno
ancora fresca la memoria della destra dittatoriale (la Spagna, la
Grecia) sanno sviluppare – con esiti alterni – risposte “da sinistra”:
altrove, “bruciato” il potenziale di resistenza di una socialdemocrazia
che ormai de facto difende (o si identifica con) il potere delle élite
transnazionali, vecchi fantasmi tornano a circolare, talora camuffati
talaltra no. La sociologia non mainstream, quella che Gallino praticava,
mira a demistificare, a raccontare la verità anziché giustificare
l’esistente, a leggere l’oggi prevedendo il domani e i suoi pericoli.
Perché, lungi da ogni nostalgia, “bisogna vivere nel proprio tempo”,
come osserva un raggelato Nagg nel Finale di partita di Samuel Beckett:
pochi giorni fa alla Scala, tra gli spettatori della prima mondiale
dell’opera dell’anziano György Kurtág, c’era un attento (e sempre più
milanese) Viktor Orbán.