Il Fatto 29.1.19
Crisi cinese, la virata che sa di antico: aziende statali come volano industriale
di Mario Seminerio
Mentre
il mondo si interroga ansiosamente sull’esito del braccio di ferro tra
Trump e la Cina, con la scadenza di marzo che potrebbe scatenare una
nuova ondata di misure protezionistiche statunitensi, cresce il numero
di osservatori che ritengono che il contrasto con Washington non sia la
causa unica né determinante del rallentamento cinese. Un’economia,
quella di Pechino, in cui si sta verificando una progressiva
compressione del ruolo delle imprese private come motori della crescita,
a tutto vantaggio delle imprese statali, per scelta della leadership di
Xi Jinping, che in questi anni ha enfatizzato il ruolo della politica
industriale da attuare mediante le aziende pubbliche, di cui è stata
incentivata la crescita dimensionale mediante fusioni. Sembrano lontani i
tempi (era il 2013), in cui il partito comunista guardava al mercato
come “meccanismo decisivo di allocazione delle risorse”. Nel frattempo,
il Paese ha proseguito ad indebitarsi, mentre l’impatto espansivo del
nuovo debito si affievoliva.
C’è stato un ulteriore giro di vite
alla vigilanza bancaria per contrastare fenomeni come lo shadow banking,
che aggira i limiti qualitativi e quantitativi al credito. Questo
razionamento del credito concorre al rallentamento dell’economia cinese
ma sta colpendo soprattutto le imprese private, visto che le banche
hanno aumentato i prestiti alle aziende pubbliche foraggiate anche da
sussidi statali. Il consolidamento delle imprese pubbliche crea
mastodonti inefficienti, che soffocano competizione e innovazione e che
continuano a sanguinare copiose perdite: il ministero delle Finanze
cinese ha ammesso che oltre il 40% delle imprese pubbliche opera in
persistente perdita. Ma il gigantismo delle conglomerate pubbliche si è
tradotto anche nel crollo della redditività del capitale investito e in
una crescente divaricazione negli indici di produttività rispetto al
settore privato, che pure sta entrando in sofferenza a causa di questi
incentivi distorti, con investimenti in progressiva frenata. Il sistema
delle imprese pubbliche, che controlla attivi pari a oltre due volte il
Pil cinese, rischia quindi di essere la vera determinante della frenata
del Paese, oltre che un ostacolo allo sviluppo della produttività. Dopo
aver creato enormi eccessi di capacità produttiva nell’industria pesante
e nelle costruzioni, legati al decollo industriale del paese, la Cina
pareva decisa a pilotare lo sviluppo privato come correttivo “di
mercato” a eccessi e inefficienze della pianificazione, sia pur
mantenendo un’occhiuta supervisione ideologica, con la presenza di
cellule di partito nelle imprese. Questa nuova virata che sa di antico,
verso giganti pubblici come cinghia di trasmissione della politica
industriale, rischia di riportare il Paese indietro nel tempo, proprio
mentre il mondo occidentale pare aver deciso di non essere più terreno
di silenziosa conquista economica da parte di Pechino.