Corriere 29.1.19
La credibilità perduta della Gran Bretagna
di Antonio Armellini
L’Inghilterra,
che ha rappresentato per molti un modello di democrazia capace di
gestire un declino imperiale salvaguardando ruolo e influenza, si scopre
impantanata in mezzo a un guado da cui non sa come uscire. La saga
della Brexit è tutt’altro che conclusa e Theresa May è intanto riuscita
ad assestare una mazzata potente all’immagine e alla credibilità
internazionale del suo Paese. Dopo la bocciatura «bulgara»
dell’accordo sulla Brexit, la Camera dei Comuni ha reso chiaro che non
intende limitarsi ad approvare, ma si riserva di discutere nella
sostanza modi, tempi e contenuti di una decisione fondamentale per il
Regno Unito, ponendo un argine ai poteri rivendicati dal governo in nome
di regole le cui radici risalgono sino a Enrico VIII. May sta pagando
lo scotto di un negoziato avviato avventatamente, senza una visione
strategica degli obiettivi e senza nemmeno confrontare le opzioni che si
presentavano a un Paese profondamente diviso. Ha continuato ad
illuderlo — e illudersi — che il peso politico di membro permanente del
Consiglio di Sicurezza, con un potenziale militare di prim’ordine,
portatore di una visione minimalista dell’integrazione, bastasse per
avere ragione delle resistenze e, dividendo il fronte dei Ventisette,
uscire senza troppi danni aprendo la porta a una improbabile riconquista
in solitario dei mercati mondiali. Incapace di valutare
correttamente la dimensione politica dell’integrazione europea non ha
capito come proprio questa si sarebbe rivelata un collante capace di
tenere uniti i Ventisette, allontanando l’ipotesi di altre exit che —
esse sì — avrebbero potuto mettere a repentaglio l’intero edificio.
Anche i più critici fra loro — non solo olandesi o scandinavi, ma anche
polacchi, ungheresi e cechi — hanno ben chiaro che è la sua natura in
primo luogo politica a tenere in piedi l’Unione ai cui vantaggi non
intendono rinunciare. La frustrazione di una provincia che si sente
abbandonata da un centro globalizzato e sempre più distante; i timori
del Nord con le sue industrie decotte nei confronti dello «straniero»
europeo; la nostalgia imperiale di chi vorrebbe solcare nuovamente i
mari alla ricerca del passato perduto, si combinano nei «brexiteers» in
una miscela esplosiva di rancore, illusione, isolazionismo e ricerca
identitaria. I «remainers» replicano rivendicando una scelta che ha una
logica economica evidente, tiene conto del contesto internazionale e del
peso reale della Gran Bretagna, ma non tenta nemmeno di confrontarsi
con quella parte del Paese che nell’«Europa» vede soprattutto una
minaccia. C’è molta «pancia» e poca razionalità in un dibattito che
scardina entrambi i partiti. È compito del Parlamento scomporre le
preclusioni e mediare fra le diverse posizioni, per promuovere nuovi
equilibri nel governo della situazione. Qui però entrano in gioco storie
e tradizioni diverse. I Parlamenti dei Paesi europei, figli dalla
Rivoluzione francese, sono il luogo in cui il confronto fra la pluralità
di opinioni viene ricondotto all’interno di un recinto comune delle
regole condivise; hanno non a caso una forma circolare. La Camera dei
Comuni ha una forma a ranghi contrapposti, che richiama il confronto; è
nata col compito di contrastare il potere della Corona e questo ruolo
svolge, in forme e ruoli diversi, verso il governo. Essa ha una
difficoltà, a un tempo storica e strutturale, ad affrontare una crisi
che non tanto contrappone, quanto attraversa entrambi gli schieramenti,
con uno sconvolgimento che non è un annuncio di «italianizzazione», come
qualcuno ha detto, bensì il possibile preludio di un riallineamento
radicale, come dalla Seconda Guerra Mondiale è stato tentato solo una
sola volta senza successo. May cerca di guadagnare tempo. Il suo
piano non era granché ma era il meglio del peggio e i timori incrociati
di chi teme di vedersi sfuggire la Brexit, e di chi vuole tenere aperto
il discorso di una ricucitura, la spingono a tentare l’ennesimo surplace
tattico, sfruttando la valvola offerta dalla «Dichiarazione politica»
cui rinviare gli aspetti più controversi (e la bomba di Derry ha
ricordato brutalmente come il nodo irlandese pesi come un macigno). I
numeri le sono contrari e la via di un allungamento del termine del 29
marzo potrebbe alla fine rivelarsi l’unica possibile, anche per un
secondo referendum, ma c’è nebbia assoluta su come si dovrebbe procedere
oltre. Fra i Ventisette cresce intanto il timore che una rottura del
fronte unitario rimasta miracolosamente in piedi sinora, sarebbe nefasta
per l’Unione. E così, lo spettro di una hard Brexit, che nessuno o
quasi dice di volere, continua ad aleggiare.