martedì 29 gennaio 2019

Il Fatto 29.1.19
Il Vaticano, “la più grande comunità gay del mondo”
di Carlo Tecce


“Questo libro rivela il volto nascosto della Chiesa: un sistema costruito, dai seminari più piccoli alla curia romana, sulla doppia vita omosessuale e sull’omofobia più radicale”. Dal 21 febbraio, tradotto in otto lingue e diffuso in venti paesi, dall’Italia agli Stati Uniti, dalla Polonia alla Spagna, dall’Australia al Regno Unito, Sodoma di Frédéric Martel sarà in libreria e promette di scatenare un putiferio in Vaticano. Sodoma, come la città biblica distrutta da dio per la sua empietà. Il francese Martel è giornalista, scrittore, sociologo dichiaratamente gay, non attivista Lgbt, autore di una dozzina di volumi, tra cui Mainstream e Global Gay, insegna all’Università di Zurigo, conduce un programma su Radio France, da ragazzo fu consigliere del primo ministro Michel Rocard. Martel ha lavorato quattro anni a Sodoma con un gruppo di oltre 80 ricercatori, ha visitato 30 Paesi e intervistato 41 cardinali, 52 vescovi, 45 nunzi apostolici, 11 guardie svizzere, ha frequentato il Vaticano per settimane. Un testo di 550 pagine e una tesi da sviluppare con i fatti: l’omosessualità repressa è il vero male della Chiesa cattolica. Sodoma non fa gossip, è un’inchiesta con tante voci di alti prelati. Martel sostiene che il Vaticano sia la più “grande comunità gay del mondo” e che Sodoma, molto dura nel ripercorrere le vicende del pontificato di Giovanni Paolo II e molto in sintonia con papa Francesco, possa spiegare gli scandali degli abusi sessuali nel mondo, a cominciare dal Cile e dal Messico.

Corriere 29.1.19
Napoli, la confessione
Quel bambino ucciso per un lettino rotto
«Sì li ho picchiati, giocando hanno rotto la sponda del lettino nuovo e li ho colpiti». Ha confessato il 24enne che ha ucciso Giuseppe, 7 anni, e ferito la sorellina di 8. Che dice: «Ci picchiava sempre».
di Fulvio Bufi


NAPOLI Nella stanza con un letto soltanto, nel reparto di Neurologia dell’ospedale Santobono, Noemi da domenica pomeriggio non è mai rimasta sola. Due infermiere sono sempre con lei, le fanno compagnia, oltre ad accudirla e a farle seguire le terapie. Poi ci sono i medici che vanno e vengono, e gli psicologi che già ieri l’hanno coinvolta nella prima seduta di un percorso che inevitabilmente sarà lungo e, almeno a tratti, sicuramente doloroso.
Noemi parla con tutti, risponde alle domande, qualche volta è lei a chiedere. Parla anche di Tony e delle botte che dava a lei e a suo fratello Giuseppe. Ed è allora che chiede. Chiede perché il compagno di sua madre li picchiava: saranno gli psicologi a doverglielo spiegare, a doverle far capire che una spiegazione non c’è, almeno non ce n’è una che, nel candore dei suoi otto anni, lei possa comprendere. Di che cosa è successo a Giuseppe, invece, non si parla, in quella stanza. Non è il momento. Verrà il tempo per dirle che il fratellino non c’è più ma ora è troppo presto. Ora Noemi deve essere soltanto libera di far passare il tempo come vuole. Si accuccia sotto le coperte, poi si mette seduta, guarda la tv, i cartoni, ovviamente. Li conosce tutti, sa ognuno a che ora va in onda e su quale canale.
Ieri hanno dovuto portarla in sala operatoria, ma solo per sistemarle i punti di sutura. Pare che non abbia avuto paura: purtroppo ha visto di peggio. Ora invece vorrebbe vedere la mamma, ma non è possibile. Il magistrato ha disposto che fino a quando non sarà raccolta la sua deposizione non potranno esserci contatti. Ma anche per questo ci vorrà ancora qualche giorno, dovranno essere gli psicologi dell’equipe del Santobono che stanno seguendo Noemi a stabilire quando la bambina sarà in condizioni di rivivere quei terribili momenti di due giorni fa. A quel punto i magistrati che coordinano le indagini fisseranno quello che — come sempre quando si tratta di bambini — sarà un interrogatorio protetto, con una psicologa, individuata dalla Procura, che sarà l’unica persona a gestire il contatto con Noemi e a formularle, nei modi e nei termini opportuni, le domande che gli inquirenti riterranno di volerle rivolgere.
Soltanto dopo questo passaggio la bambina potrà vedere la madre. E magari anche incontrarsi di nuovo con la sorellina più piccola, che ha solo quattro anni e che da domenica nemmeno lei è più con la mamma, anche se per fortuna Essobti l’ha risparmiata. Ora è in una struttura protetta seguita dagli assistenti sociali. Il Tribunale minorile ha deciso così, ritenendo evidentemente che non ci fossero alternative.

Il Fatto 29.1.19
“Francesco ormai è di sinistra come noi teologi ribelli”
Frei (frate, ndr) Betto, al secolo Carlos Alberto Libânio Christo
Parla il frate domenicano, imprigionato dalla dittatura brasiliana, che è stato consigliere di Fidel Castro e del presidente Lula
di Piergiorgio Odifreddi


Frei Betto è uno dei massimi esponenti della “teologia della liberazione”, che a partire dagli anni 70 ha cercato di coniugare la religione cattolica con l’impegno politico a favore dei deboli e degli oppressi, e di invertire le storiche alleanze della Chiesa con i regimi militari, dittatoriali e reazionari del Sudamerica. Abbiamo colto l’occasione della sua ultima visita in Italia per farci raccontare la sua avventurosa vita.
Quando è nata la combinazione dei suoi impegni religioso e politico?
Da quando, negli anni 50 della mia adolescenza, mi sono iscritto all’Azione Cattolica. Al contrario di ciò che succedeva in Italia con Luigi Gedda, che l’aveva indirizzata verso il centrodestra, in Brasile l’Azione Cattolica era vicina al Partito comunista. Fui poi influenzato dal pensiero e dall’esempio del guerrigliero Carlos Marighella, uno dei principali oppositori della dittatura militare negli anni 60.
Lei fu poi imprigionato dal regime.
Sì, per due volte: nel 1964, per quindici giorni, e tra il 1969 e il 1973, per quattro anni. La prima volta fui torturato, e la seconda cercarono di farmi fuori mettendomi per due anni tra i detenuti comuni. Avevo paura, ma poi mi accorsi che io e i miei tre confratelli eravamo rispettati e temuti dai carcerati: ci credevano dei terroristi, e qualcuno venne addirittura a dirci che voleva ‘arruolarsi nel nostro commando’, una volta uscito.
Ha scritto qualcosa, sulla sua esperienza in carcere?
Certo, due libri che hanno iniziato la mia carriera di giornalista e scrittore, con i proventi della quale ho sempre potuto mantenermi. Il primo è la raccolta di lettere dal carcere Dai sotterranei della storia (1971), che fu un successo. E il secondo è Battesimo di sangue (1983), la cui edizione italiana ha una prefazione di monsignor Luigi Bettazzi, e dal quale è stato tratto nel 2006 un omonimo film.
A parte monsignor Bettazzi, che era noto per le sue aperture a sinistra, quale fu la reazione del resto della Chiesa?
Nel 1970 il cardinale di San Paolo, il conservatore Agnelo Rossi, venne a trovarci in carcere, e noi gli mostrammo i segni delle percosse: lui uscì e disse alla stampa che stavamo bene, anche se qualcuno di noi si era ferito cadendo dalle scale. Paolo VI lo convocò a Roma, e al suo ritorno lui scoprì di essere stato ‘promosso e rimosso’: divenne prefetto di Propaganda Fide, e fu sostituito dal cardinale progressista Paulo Evaristo Arns.
Paolo VI non era dunque così male.
Era un uomo travagliato e indeciso, ma abbastanza aperto. Aveva letto il mio libro Dai sotterranei della storia e mi mandò in carcere un biglietto di incoraggiamento, accompagnato da un rosario realizzato con grani di ulivo della Terra Santa. La sua enciclica Populorum progressio (1967) mostra che non era contrario alla teologia della liberazione.
Al contrario di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Insieme, loro, hanno combattuto la teologia della liberazione per 36 anni. Basta ricordare l’episodio di Managua nel 1983, quando Wojtyla svillaneggiò in pubblico all’aeroporto Ernesto Cardenal, sacerdote e ministro della Cultura, che fu poi sospeso a divinis insieme agli altri preti del governo sandinista. Da confrontare con la sua stretta di mano al dittatore cileno Augusto Pinochet nel 1987. Per non parlare della sua alleanza con il presidente Ronald Reagan e dei suoi incontri con il capo della Cia William Casey, testimoniati da Carl Bernstein e Marco Politi nel loro boicottato libro Sua santità (1996).
E Ratzinger?
Di lui basta ricordare il processo al teologo Leonardo Boff, che pure era stato un suo allievo all’Università di Monaco. Un nuovo caso Galileo, che nel 1984 mise a tacere per anni la voce di uno dei maggiori teologi della liberazione. Nel 1992, dopo ulteriori minacce di reprimende, Boff decise di abbandonare il saio francescano: amica Ecclesia, sed magis amica Veritas.
Immagino le piacerà papa Francesco, nonostante l’ormai diffusa percezione che sia “molto fumo e poco arrosto”?
Il cardinal Bergoglio non era progressista, ma da papa Francesco è diventato un fautore della teologia della liberazione. Nella sua enciclica socioambientale Laudato si’ (2015) indaga le cause della devastazione della Natura. E le sue posizioni sulla comunione ai divorziati e sul battesimo ai figli di coppie omosessuali sono grandi passi avanti, anche se deve barcamenarsi tra tutti gli ostacoli che gli vengono messi di fronte.
Castro regalò a Francesco a Cuba “Fidel e la religione” (1985), la famosa intervista rilasciata a lei.
Spero che sia stata l’edizione in spagnolo, e non quella in italiano, che fu manipolata. So che Giovanni Paolo II lesse quel libro, in preparazione per il loro incontro del 1998. Io ho seguito dal vivo a Cuba tutte le visite dei tre pontefici, in qualità non solo di confidente di Castro, ma anche di suo consulente teologico. E so che il papa e il Comandante diventarono amici, e si incontrarono più volte in privato in nunziatura, durante la settimana di visita del 1998.
Quando conobbe Fidel?
Nel 1980 a Managua, alla festa per il primo anniversario del nuovo governo sandinista. Fui invitato insieme a Lula, che all’epoca era il capo dei sindacati brasiliani. Una sera il ministro degli Esteri, il sacerdote Miguel d’Escoto, fautore della teologia della liberazione, ci invitò a un incontro tra Castro e gli industriali. Quando questi se ne andarono noi rimanemmo a parlare fino all’alba: discussi con lui del modo in cui il regime trattava i religiosi, e di come l’atteggiamento ateo non fosse meno fondamentalista di quello religioso. Da quel momento egli mi considerò informalmente il suo consigliere per gli affari religiosi.
Quante volte l’ha incontrato?
Decine, ogni volta che andavo a Cuba: le ultime due nell’anno in cui morì. Mi invitava ad andarlo a trovare tardi a casa sua e parlavamo per ore di tutto. Anche di scienza, soprattutto dopo che gli diedi il mio libro con Marcelo Gleiser Conversazione su fede e scienza (2011). Una volta gli ho chiesto se era ateo, visto che molti se lo domandavano, ma lui rispose che preferiva essere definito agnostico.
Di Lula che mi dice?
Lo conosco da sempre, e so che non è personalmente corrotto: il processo che gli hanno fatto è una farsa politica, senza prove fattuali. Il suo governo è stato il migliore che il Brasile abbia mai avuto, ma purtroppo ha fatto molti errori, e molti esponenti del suo partito erano effettivamente corrotti.
E di Bolsonaro?
Le cose indecenti che dice sugli indigeni, sulle donne e sugli omosessuali lo qualificano come un fascista. E la sua ascesa democratica al potere mi ricorda quella di Hitler nel 1933. Spero di sbagliarmi, ma temo di no.

La Stampa 29.1.19
“Il sesso è un dono. Bisogna parlarne anche nelle scuole”
Svolta del Papa di ritorno dal viaggio a Panama “Serve un’educazione oggettiva, senza ideologie”
di Domenico Agasso Jr


Il sesso non è un «mostro» da cui fuggire. Non deve essere un tabù. Anzi, è «un dono di Dio». E servirebbe «un’educazione sessuale» nelle scuole. Di più: possibilmente non troppo rigida e chiusa. Così se ne capirebbe il vero valore. Queste non sarebbero parole inconsuete, se a pronunciarle non fosse un Papa. Francesco lo afferma sull’aereo che lo ha riportato a Roma da Panama, dove è stato nei giorni scorsi per la Giornata mondiale della Gioventù.
E di giovani e sesso il Pontefice ragiona durante la tradizionale conferenza stampa sul volo papale, rispondendo a una giornalista americana che lo informa di un «problema comune in tutto il Centroamerica, incluso Panama e buona parte dell’America Latina: le gravidanze precoci». Solo a Panama sono state «diecimila lo scorso anno». La domanda è: «I detrattori della Chiesa cattolica incolpano la stessa Chiesa perché si oppone all’educazione sessuale nelle scuole. Qual è l’opinione del Papa?».
Francesco non si scompone, e con tono serio e concentrato inizia a riflettere. Mai nelle sue parole ci sarà una presa di posizione in difesa del proprio «fortino». Né prevedibili formulazioni prudenti per un tema così delicato. Quello di papa Francesco è un discorso cristiano e concreto. E umano. E innovativo, senza voler intaccare tradizione e insegnamento cattolici. Come da suo stile, insomma.
Dice: «Nelle scuole bisogna dare l’educazione sessuale». Precisando e sottolineando che innanzitutto «il sesso è un dono di Dio». E «non è un mostro». È il dono di Dio «per amare». Poi - ne è consapevole - può degenerare, ma «se qualcuno lo usa per guadagnare denaro o sfruttare l’altro, è un problema diverso», non intacca la purezza innata del dono. Bergoglio sostanzia la sua tesi per molti inaspettata: bisogna offrire «un’educazione sessuale» a scuola che sia «oggettiva, senza colonizzazioni ideologiche». Intende probabilmente le teorie del gender, spesso denunciate da Francesco come dinamiche e movimenti invasivi che possono «distruggere, fare tutto uguale», senza la capacità di «tollerare le differenze». Poi aggiunge e spiega: «Perché se nelle scuole si dà un’educazione sessuale imbevuta di colonizzazioni ideologiche, distruggi la persona». Allo stesso tempo il sesso inteso «come dono di Dio deve» essere «educato» non con «rigidezza», con chiusura mentale e ideologica. Creando tabù, appunto. Il Papa precisa che va «educato, da “educere” (condurre, trarre fuori, ndr), per far emergere il meglio della persona e accompagnarla nel cammino». Il Vescovo di Roma si immerge totalmente nella questione e avverte: «Il problema è il sistema». E mette in guardia dai rischi che possono incontrare i «responsabili dell’educazione, sia a livello nazionale che locale come pure di ciascuna unità scolastica»: in particolare, il tipo di «maestri che si trovano» per questo compito, e i «libri di testo» che si adottano per bambini e ragazzi.
«Io - confida il Papa - ne ho visti di ogni tipo», compresi alcuni inopportuni,«sporchi», li definisce. Perché anche e soprattutto in questo ambito «ci sono cose che fanno maturare e altre che fanno danno». Ciò che conta per il Papa è che le scuole spalanchino le porte a una vera e propria educazione sessuale, da trasmettere innanzitutto ai più piccoli. Anzi, l’ideale sarebbe che si «cominciasse a casa, con i genitori». Ma «non sempre è possibile per le tante situazioni della famiglia che possono essere complicate». O perché spesso papà e mamme «non sanno come affrontare il tema». Perciò la scuola può e deve «supplire» a questo, assumersi la responsabilità. «Sennò - teme il Papa - resta un vuoto che verrà riempito da qualsiasi ideologia» potenzialmente pericolosa.

Corriere 29.1.19
Il Papa e le scuole: sesso dono divino, serve l’educazione
«Il sesso non è un mostro, serve educazione nelle scuole».
Il celibato per i preti? Non sarò io ad eliminarlo
di Gian Guido Vecchi


Così papa Francesco durante la conferenza stampa sull’aereo che da Panama lo ha riportato a Roma, al termine della Giornata mondiale della gioventù. «Il sesso è un dono di Dio - ha aggiunto - , che alcuni lo sfruttino per guadagnare soldi o per sfruttare le persone è un altro discorso».

DAL VOLO PAPALE L’aereo del Papa sorvola l’Atlantico quando Francesco raggiunge i giornalisti che lo hanno seguito a Panama per la Gmg. Soddisfatto? «Sì, il termometro è la stanchezza, e io sono distrutto», dice. «Ho visto genitori che sollevavano i bambini come a dire: questo è il mio orgoglio, la mia fortuna. Nell’inverno demografico che viviamo in Europa — in Italia è sottozero — qual è l’orgoglio? Il turismo, la villa, il cagnolino... Pensiamoci».
Santità, alla Via Crucis un giovane ha usato parole radicali sulla «terribile crudeltà» dell’aborto. Ci si chiede se rispetti il dolore delle donne e il suo messaggio di misericordia...
«Il messaggio della misericordia è per tutti, anche per la persona umana in gestazione. Dopo aver compiuto questo fallimento c’è pure misericordia. Ma è una misericordia difficile perché il problema non è dare il perdono, ma accompagnare una donna che ha preso coscienza di aver abortito. Sono drammi terribili. Per capire bene, bisogna essere nel confessionale e tu lì devi dare consolazione. Per questo ho concesso la facoltà di assolvere l’aborto per misericordia. Le donne devono incontrarsi con il figlio. Quando hanno questa angoscia e piangono, io le consiglio così: “Tuo figlio è in cielo, parla con lui, cantagli la ninna nanna che non hai potuto cantargli”. Lì si trova una via di riconciliazione della mamma con il figlio. Con Dio c’è già il perdono, Dio perdona sempre».
Molte ragazze in Centroamerica restano incinte precocemente, alcuni dicono che è colpa della Chiesa contraria all’educazione sessuale. Lei cosa ne pensa?
«Nelle scuole bisogna insegnarla: il sesso non è un mostro, è un dono di Dio per amare. Ma bisogna dare un’educazione sessuale oggettiva. Se inizi dando un’educazione sessuale piena di colonizzazione ideologica, distruggi la persona. L’ideale è iniziare a casa, con i genitori, ma non sempre è possibile. E quindi la scuola supplisce, deve farlo, se no il vuoto verrà riempito da un’ideologia qualsiasi».
Permetterà a uomini sposati di diventare preti?
«Nel rito orientale possono farlo, si fa l’opzione celibataria prima del diaconato. Nel rito latino, mi viene in mente una frase di san Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato”. Penso che il celibato sia un dono per la Chiesa e io non permetterò il celibato opzionale, non me la sento davanti a Dio. Soltanto rimarrebbe qualche possibilità in posti lontanissimi, come le isole del Pacifico, dove mancano i sacerdoti. C’è un libro interessante di padre Lobinger: la sua tesi è che si potrebbe ordinare prete un anziano sposato. Il vescovo gli darebbe il munus sanctificandi : messa, confessione, unzione degli infermi. Non dico si debba fare, non ho riflettuto e pregato a sufficienza. Ma i teologi devono studiare».
Che accadrà nell’incontro di fine febbraio sulla pedofilia?
«L’idea è nata nel G9 perché vedevamo che alcuni vescovi non capivano bene o non sapevano cosa fare. Per dare una “catechesi” alle conferenze episcopali. Primo: si prenda coscienza. Secondo: sappiano cosa si deve fare, la procedura. Si pregherà per chiedere perdono per tutta la Chiesa. Il problema degli abusi continuerà perché è un problema umano, dappertutto. Risolvendolo nella Chiesa, aiuteremo a risolverlo nella società».
Cosa prova davanti alla chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto?
«Ho sentito voci ma ero immerso nel viaggio, non conosco con precisione. II problema dei migranti è complesso e se ne deve parlare senza pregiudizi. Richiede memoria: domandarsi se la mia patria è stata fatta da migranti. Io dico: cuore aperto per ricevere, accogliere, accompagnare, far crescere e integrare. Dico anche: il governante deve usare prudenza perché la prudenza è la virtù del governante. L’ho già detto. È una equazione difficile. È un problema di amore, di solidarietà. Ma si deve pensare realisticamente. Un modo di risolverlo è aiutare i Paesi da dove emigrano, investire dove c’è la fame: l’Europa è capace di farlo».

il manifesto 29.1.19
La vocazione globale del capitalismo
Percorsi. Un sentiero di lettura per orientarsi sui processi in corso della globalizzazione e sulle nuove necessità degli stati-nazione
di Benedetto Vecchi


La globalizzazione è un fenomeno irreversibile nonostante le forti tendenze di un ritorno alla dimensione nazionale nel governo dello sviluppo economico. Ma anche se tali tendenze prevalessero non ci sarebbe nessun ritorno al passato perché è stata proprio l’azione di alcuni stati-nazione a favorire la costituzione di una economia mondiale. Assistiamo, dunque, alla nota polarità tra la vocazione globale del capitalismo e una dimensione locale, nazionale del governo politico di tale processo.
SIGNIFICATIVO a questo proposito è il ruolo svolto da organismi sovranazionali, come la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale il Wto, nel radicalizzare la dimensione globale dell’economia capitalistica, determinando le condizioni di una «iperglobalizzazione» che manifesta l’ostilità verso la dimensione politica locale, cioè nazionale dalla quale la globalizzazione ha pur preso le mosse.
In questa situazione, emergono sulla scena pubblica identità collettive che sfoggiano con disinvoltura una critica corrosiva verso le cristallizzazioni conservatrici, talvolta reazionarie, delle identità collettive del passato. A manifestare questi punti di vista non sono apologeti della globalizzazione capitalistica, bensì studiosi – come Colin Crouch o Dani Rodrik – che hanno espresso una documentata critica alla dimensione neoliberista che l’ha contraddistinta.
LA CRISI FINANZIARIA del 2008 ha però reso manifesto l’esaurirsi della spinta propulsiva dell’economia mondiale e la necessità di una rinnovata analisi proprio sulla irreversibilità della globalizzazione, partendo dal ritorno sulla scena di quel protagonista dello sviluppo capitalista che si è soliti chiamare stato-nazione.
Infine, diviene urgente affermare che il capitalismo non prevede, come i sostenitori della «iperglobalizzazione» sostengono, un solo modello sociale e politico fondato sul lento ritirarsi dello stato nazione dalla scena pubblica. Il crescente potere politico, economico, militare acquisito dalla Cina, ma anche dalla Corea del Sud e dall’India, segnala semmai che la globalizzazione più che sull’omogeneità fa leva su una dinamica pluralità di modelli sociali e politici, attivamente promossa dai governi nazionali come valore aggiunto di una economia che aspira a diventare globale.
A dipanare questa matassa aiutano due recenti libri di Dani Rodrik e Colin Crouch. Il primo, economista di origine turche, formatosi alla scuola di Albert Hirschman e autore, alla fine degli anni Novanta, del fortunato Il Paradosso della globalizzazione (Laterza), torna in libreria con una raccolta di scritti pubblicata da Einaudi con il titolo Dirla tutta sul mercato globale (pp. 312, euro 19), una meditata riflessione su come gli ultimi decenni siano da considerare un punto di svolta irreversibile nelle relazioni economiche, sociali e politiche del capitalismo. Il secondo saggio è Identità perdute (Laterza, pp. 130, euro 15) di Colin Crouch. Sono inoltre rilevanti i riferimenti alla cultura politica «sviluppista» di Cina e India, dove lo stato nazione è stato ed è l’indiscusso protagonista nell’organizzare e gestire le risorse finanziarie e «comunitarie» (cioè la cooperazione sociale del lavoro vivo) dei rispettivi paesi per favorire lo sviluppo economico.
Per entrambi gli autori, il vero arcano da svelare è però come il capitalismo abbia usato la leva del lavoro – i suoi diritti, il suo sfruttamento, la capacità di innovazione e di cooperazione del lavoro vivo – per favorire quella vocazione globale dello sviluppo economico che richiede una gestione nazionale, locale, cioè limitata nel tempo e nello spazio da parte dei governi, sia se è segregato negli sweatshop presenti nella periferia o al centro dell’«impero», oppure regolamentato (ma sarebbe meglio dire deregolamentato) secondo le normative vigenti giuslavoriste nazionali o internazionali.
È SULLA ETEROGENEA composizione del lavoro vivo, sulla sua capacità di innovazione produttiva o nel dare forma ai diritti sociali che si misura la tenuta della globalizzazione, al di là della rappresentazione che ne danno il Fondo monetario internazionale o la Ue, diventati i cani da guardia di una austerità che viene elevata a metafisica dello sviluppo economico, nonostante la realtà abbia ampiamente smentito tale fede salvifica e anche indipendentemente dal fatto che viene periodicamente riproposta come monito verso chi persegue supposti e improbabili egoismi nazionali.
C’è tuttavia una assenza macroscopica nei saggi di Rodrik e Crouch. Riguarda i modelli organizzativi emergenti in questa tensione tra stato-nazione e globalizzazione. È su questo crinale che assume rilevanza la provocazione teorica rappresentata dal volume di Paolo Gerbaudo The Digital Party (Pluto press, pp. 323).
IL LIBRO MUOVE i passi dall’antico adagio del pensiero critico che invitava a sovvertire le forme più avanzate dell’organizzazione produttiva per costruire partiti finalizzati all’abolizione dello stato di cose presenti. Il politico più temerario in questa operazione è stato sicuramente Lenin, che propose di modellare il partito bolscevico secondo le logiche dell’organizzazione scientifica del lavoro.
Il modello del partito bolscevico leninista aveva alle spalle le esperienze maturate nella socialdemocrazia tedesca di inizio Novecento, quando i dirigenti di quel partito operaio plasmarono il loro partito sulla falsariga del modello bismarckiano: la conquista dello stato era l’obiettivo prioritario per la trasformazione della realtà capitalistica. E tuttavia la suggestione leninista si proponeva di superare quei limiti facendo leva sulla capacità di una avvertita e «colta» avanguardia intellettuale che offrisse una coscienza di classe dall’esterno dell’organizzazione politica. Gerbaudo evoca, invece, le tesi dei filosofi conservatori della politica (Robert Michels, Vilfredo Pareto) per sottolineare il fatto che il modello del partito di massa e operaio era funzionale più che al cambiamento dei rapporti sociali allo sviluppo di un potere oligarchico nella società. L’unico riferimento al marxismo eterodosso è, infatti, quello riservato a Antonio Gramsci, laddove il dirigente comunista italiano sottolineava i rischi di sclerosi burocratica del partito di massa dovuta proprio alla crescita senza controllo della burocrazia di partito preposta alla mediazione tra i militanti e la leadership.
La critica di Gerbaudo alla burocrazia di partito è indubbiamente debitrice nei confronti delle tesi dell’antropologo libertario David Graeber contro la burocrazia, responsabile del «deficit democratico» che caratterizza la democrazia rappresentativa. Gerbaudo si dilunga quindi sull’evoluzione del partito di massa attraverso il partito televisivo e l’attuale partito digitale, forme politiche che hanno provato a rimuovere o ridimensionare il ruolo della burocrazia nel limitare lo sviluppo di meccanismi «realmente democratici» per quanto riguarda il meccanismo decisionale.
Il digital party non sarebbe dunque altro che l’adattamento delle piattaforme digitali e dei modelli organizzati di Google, Facebook, Twitter a una dimensione politica. Cogliendo inoltre l’omologia tra precarietà e riduzione del numero dei funzionari, ormai un gruppo di lavoratori part time o free lancers, Gerbaudo invita a considerare le sperimentazione di democrazia radicale portata avanti da forze politiche come Podemos, France Insoumise di Melanchon e il gruppo raccolto attorno al laburista Jeremy Corbin e, soprattutto, al movimento cinque stelle.
LA PARTE PIÙ INTERESSANTE del volume di Gerbaudo non sta tuttavia negli elogi, spesso sopra le righe, rispetto il supposto superamento del deficit democratico da parte dei gruppi politici citati, bensì nel fatto che tali sperimentazioni – più che essere espressione di una democrazia diretta – sono tentativi di trovare una soluzione alla crisi della democrazia rappresentativa. I populismi digitali elencati da Gerbaudo più che rompere il monopolio della decisione politica danno forma a una «democrazia agonistica», che come scrive Chantal Mouffe coniuga il concetto di rappresentanza e la possibilità di modificare in tempo reale i meccanismi di decisione politica delle istituzioni rappresentative. Il partito digitale, dunque, più che costituire una alternativa alla democrazia rappresentativa altro non è che l’ultima incarnazione di quei tentativi oligarchici analizzati da Michels che stavano dietro alla trasformazione dell’organizzazione politica del movimento operaio in appendice allo stato-nazione.
ANCHE QUI, come nella globalizzazione, emerge l’opacità del conflitto che oppone i teorici della democrazia diretta edi quella rappresentativa, dove il primo polo altro non è che una versione mimetica del potere statale. Manca cioè ogni possibile idea di controproposte, di autonomia, di superamento delle dipendenza dal pensiero dominante. Il partito digitale, come lo stato- nazione, è parte integrante delle forme di potere contemporanee. Per rompere tale meccanismo manca ancora quel movimento auspicato proprio da Lenin che voleva ribaltare in senso radicale e antagonista le forme produttive dominanti nel capitalismo contemporaneo.
SCHEDA, I LIBRI
1) La cloud mimetica del partito
Paolo Gerbaudo è un «cervello in circolazione» che ha trovato radici in Inghilterra ( Kings College di Londra), dove hanno preso forma le sue ricerche sui movimenti sociali. Nel 2012 esce Tweets and the Streets (Pluto press) sugli indignados, Occupy Wall Street e le primavere arabe seguito da The Mask and the Flag (Hurst&Company). The Digital Party (Pluto press) è’epilogo dei precedenti saggi. L’autore si misura con le organizzazioni politiche che nascono come espressione dei movimenti sociali. Passa in rassegna forze politiche entrate nella stanza dei bottoni (i 5stelle), che intrattengono relazioni di non ostilità con partiti al potere (Podemos) o sono in attesa di elezioni dove i sondaggi le danno per vincenti. Per Gerbaudo il «partito digitale» è una evoluzione di quello televisivo, con il quale condivide la produzione di opinione pubblica attraverso la riduzione della comunicazione ad aggregato ragionato di informazioni. Il digital party non è l’ultima versione del partito politico, bensì solo una tappa di un fenomeno che continuerà a macinare sperimentazioni delle quali il movimento sociale ne è solo un povero simulacro.
2) Globalizzazione e identità multiple
Colin Crouch è ritenuto il miglior teorico socialdemocratico europeo. E lo studioso più avvertito riguardo la necessità che la sinistra debba innovare il suo bagaglio teorico. È l’intellettuale che ha indicato la cosiddetta «postdemocrazia» come il rovello su cui applicare l’intelligenza collettiva dato che è un regime politico che non vede lo spostamento della decisione politica dai parlamenti nei circoli di élite che sfuggono a qualsiasi forma di controllo popolare. Per Crouch non c’è nessuna sospensione di elezioni, i diritti civili e sociali: semmai questi elementi sono subalterni ai vincoli e compatibilità definite dalle élite globali al riparo dai media e dell’opinione pubblica. In questo volume sulle Identità Perdute (pp. 130, Laterza, euro 15), Crouch assume la provocazione di Zygmunt Bauman sulle identità liquide come una chance per immaginare un mondo dove l’identità smette di essere una camicia di forza per assumere le vesti di una pluralità e eterogeneità di appartenenze e relazioni sociali.
3) L’ospite inatteso, tra luci e zone d’ombra
Dani Rodrik è una delle figure di economista che, dopo una formazione mainstream, ha cominciato a esercitare una critica verso la globalizzazione neoliberista. Di origine turca, formatosi con Albert O. Hirschman, docente ad Harvard, ha messo a fuoco la necessità di alcune istituzioni nazionali e internazionali nel dare regole allo sviluppo economico. Convinto che il capitalismo manifesta una vocazionale globale, ha messo l’accento sul ruolo progressivo svolto dallo stato-nazionale tanto nel sviluppo economico che nella globalizzazione. Solo quando quest’ultima prende congedo dall’urgenza di un suo governo politico entra in quella fase che Rodrik chiama di «iperglobalizzazione» (limitata nel tempo). Sostenitore della pluralità delle forme di capitalismo ha visto nello sviluppo cinese e indiano uno degli esempi di modello capitalista che fonda le sue radici nella dimensione nazionale e nel ruolo propulsore dello stato. Da qui il titolo del suo libro più noto (Il paradosso della globalizzazione, Laterza), dove analizza proprio la vocazione globale dell’economia e le sue radici statali e nazionali. In Dirla tutta sul mercato mondiale (Einaudi, pp. 312, euro 19) riprende molti dei temi dei suoi precedenti saggi unendoli a una dettagliata cronaca degli ultimi decenni di globalizzazione, spaziando dall’Europa (e i conflitti attorno all’austerità, manifestando critiche ai comportamento dell’Unione europea nei confronti della Grecia) alla Cina, alla Turchia, all’India. Ne esce fuori un affresco dove le zone d’ombra prevalgono sulle luci di un periodo storico basato sulla cancellazione dei diritto sociali di cittadinanza e del lavoro.

il manifesto 29.1.19
Joe A. Buttigieg, «traduttore» di Gramsci nel mondo d’oggi
Il ricordo. Studioso di Joyce e del pensatore sardo, intellettuale comunista non dogmatico, si è spento a 72 anni
di Guido Liguori


Joseph A. Buttigieg, Joe per gli amici, per chi lo conosceva e gli voleva bene, si è spento domenica scorsa all’età di 72 anni. Era nato a Malta nel 1947, ma da molto tempo viveva e lavorava negli Stati Uniti, dove era approdato ancora giovane, dopo aver studiato in Francia e nel Regno Unito. E dove si era sposato e aveva iniziato a insegnare. Professore emerito di letteratura all’università di Notre Dame, a South Bend (Indiana), era autore di saggi e libri sull’estetica di James Joyce (A Portrait of the Artist in Different Perspective), sul postmodernismo e su altri autori e correnti letterarie e culturali del Novecento.
A QUESTA SUA ATTIVITÀ di storico, teorico e critico della letteratura, e alla sua appassionata attività di docente universitario, impegnato anche in ruoli di coordinamento e direzione, Buttigieg affiancava una grande passione per Gramsci, di cui era uno dei più insigni studiosi. Grazie a Edward Said, la prestigiosa Columbia University Press gli aveva affidato la traduzione dei Quaderni del carcere in lingua inglese, edizione ancora in corso per via degli accurati studi intrapresi per mettere a punto apparati critici in grado di restituire ai lettori di lingua inglese il background culturale e politico del grande pensatore sardo.
Buttigieg era stato, alla fine degli anni Ottanta, con John Cammett e Frank Rosengarten, tra gli ideatori e iniziatori statunitensi della International Gramsci Society (Igs), l’associazione che riunisce studiosi e appassionati di Gramsci ovunque nel mondo. Della Igs Joe era stato prima segretario, poi presidente, e aveva presenziato a tutti i suoi più importanti appuntamenti internazionali, a partire dai convegni di Napoli e Rio, nel 1997 e 2001, a quello di Cagliari-Ghilarza del 2007, fino ai recenti incontri di Roma e di Campinas, in Brasile, nel 2017.
PACATO, SORRIDENTE, ottimista, ma anche estremamente serio e competente, generoso nell’aiutare studiose e studiosi, aperto all’incontro con diverse culture e contesti, Buttigieg era invitato in molti paesi dei cinque continenti, soprattutto per parlare di Gramsci e del suo insegnamento, di come «tradurlo» nel mondo di oggi.
In Italia era di casa, fin da ragazzo, avendo viaggiato ripetutamente per la penisola dalla vicina Malta in compagnia del padre.
LA CONOSCENZA della nostra lingua e della nostra storia e cultura ne avevano fatto un interlocutore privilegiato per molti politici e intellettuali critici: vicino alla International Gramsci Society Italia, membro della commissione per l’edizione nazionale delle opere di Gramsci promossa dalla Fondazione Gramsci, membro della redazione della rivista Critica Marxista diretta da Aldo Tortorella, Buttigieg era un intellettuale comunista non dogmatico, democratico, sempre dalla parte delle classi subalterne e teso a comprendere le novità di questo «mondo grande e terribile, e complicato», per usare le parole di quel Gramsci che tanto amava e non si stancava di riproporre.
Non si dimenticherà facilmente il suo sorriso, che riassumeva la sua disponibilità umana e politica, il suo essere un «intellettuale organico» di tipo gramsciano, nei modi e nelle forme per tanti versi nuove che il mondo di oggi richiede.

Corriere 29.1.19
Il Dossier. I dati del Viminale
I 341 sbarchi fantasma: in un anno arrivati altri 5.999 migranti
di Fiorenza Sarzanini


Roma Piccole imbarcazioni con 10, al massimo 20 migranti a bordo, che sfuggono ai controlli e approdano in Italia sulle spiagge o comunque nei tratti di costa non controllati. Mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini conferma la volontà di non far scendere dalla Sea Watch i 47 stranieri e monta la protesta di chi invece vorrebbe che fosse autorizzato subito lo sbarco, si scopre che ci sono altre migliaia di stranieri giunti sulle nostre coste senza alcun ostacolo. Sono gli «sbarchi fantasma» che — come ha sottolineato qualche giorno fa il presidente della corte d’appello di Palermo, Matteo Frasca — «aumentano in maniera vertiginosa». A confermarlo sono gli stessi dati del Viminale: al 31 dicembre 2018 risultano effettuati ben 341 sbarchi e arrivate 5.999 persone. Di queste, 2.331 sono state trovate appena scese dai barchini e altre 3.668 sono state rintracciate a terra. Ma poi ci sono anche quelle che sono riuscite a non farsi individuare e che — dicono gli analisti — potrebbero essere almeno altre 2.000.
Le nuove rotte
Attraversano il Mediterraneo, ma soltanto una parte arriva dalla Libia. Altri sono gli Stati dove vengono organizzate le partenze e quindi è diverso anche l’approdo. Attraverso gli interrogatori di chi è stato rintracciato, le indagini contro i trafficanti e gli accertamenti svolti grazie al pattugliamento del mare, si è scoperto che sono quattro le rotte battute. Un punto di ritrovo è in Grecia, e chi si imbarca lì arriva in Puglia. Alternativi ai «punti di ritrovo» libici sono quelli della Tunisia, dove le organizzazioni criminali talvolta si spostano proprio per evitare i controlli. Oppure da dove partono autonomamente i giovani che vogliono tentare la fortuna in Europa. Giungono tutti in Sicilia, a Lampedusa, ma molti anche nell’isola di Pantelleria. Chi si muove dall’Algeria punta invece dritto verso la Sardegna, mentre dalla Turchia l’approdo più diretto è quello della Calabria.
L’anno scorso sono stati 1.229 gli stranieri arrivati in questo modo in Sicilia, e ben 659 sono stati fermati al momento in cui hanno toccato terra in Puglia, 275 in Calabria e 168 in Sardegna. Poi ci sono coloro che sono stati rintracciati addirittura giorni dopo lo sbarco: 2.157 in Sicilia, 634 in Calabria, 585 in Sardegna, 292 in Puglia. Numeri ben più alti di quelli trasportati sulle imbarcazioni delle Ong o sulle navi militari, di cui non si sa nulla se non quando vengono ritenuti «irregolari» e chiusi nei centri di identificazione per il rimpatrio.
L’allarme del giudice
Nella relazione resa pubblica sabato scorso, nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente Frasca ha parlato esplicitamente di «aumento degli sbarchi fantasma come effetto del mutamento delle politiche migratorie generali e del conseguente allontanamento delle imbarcazioni delle Ong dalle acque internazionali teatro del traffico di esseri umani». Non a caso — dopo aver sottolineato come non sia chiaro se il calo degli sbarchi ufficiali sia il frutto di una riduzione delle operazioni di salvataggio o dell’aumento dei «morti in mare» — l’alto magistrato ha evidenziato come «oltre alle impervie traversate con i migranti ammassati a centinaia in condizioni disumane su barconi fatiscenti, vengono realizzati sempre più spesso altri sbarchi, specie dalle coste tunisine verso quelle siciliane». E per questo sono usati «mezzi più sicuri e veloci riguardanti numeri ridotti di migranti che, giunti a destinazione, riescono a sfuggire ad ogni vigilanza e ad operare al di fuori dei circuiti istituzionali dell’accoglienza».
Numerose inchieste avviate in Sicilia hanno documentato le modalità operative di scafisti e trafficanti per riuscire a trasferire gli stranieri dall’Africa all’Italia. Nel febbraio del 2017 un tunisino, intercettato al telefono e poi arrestato, spiegava a un suo interlocutore: «Lui porta i suoi soldi e si mette d’accordo... Lo chiama e gli dice di andare in un posto ben preciso... Sale in macchina, lo accompagna dalla roccia alla roccia (per traduttori e trascrittori significa da una spiaggia all’altra, dalla Tunisia all’Italia, ndr)... Sulla roccia gli dà i suoi soldi ... Capito... Sistemato. Tre ore e mezzo, il tizio lo fa scendere qui... Sistemato».

il manifesto 29.1.19
Cédric Herrou: «Un popolo degno lotta per le persone»
Cinema . Intervista all’agricoltore francese che ha aiutato centinaia di migranti sulla frontiera con l’Italia. «Bisogna chiedere agli italiani e a Salvini se sono pronti ad accettare i morti, le torture e gli annegati pur di non far arrivare i migranti nel Paese». La sua storia è raccontata in «Libero» di Michel Toesca, dal 31 gennaio al cinema
di Silvia Nugara


Dopo l’anteprima internazionale a Cannes e un passaggio al Biografilm fest di Bologna, esce nelle sale italiane il 31 gennaio il documentario Libero di Michel Toesca (distr. I Wonder Pictures). Il film è ambientato in valle Roja, tra la Francia e l’Italia, dove vive Cédric Herrou, l’agricoltore solidale che a lungo ha accolto i migranti nella sua terra fornendo loro vitto, alloggio, assistenza legale e passaggi in auto. Toesca traccia un ritratto di Herrou e della sua opera senza eccessi di retorica né di personalismo, lasciando la parola anche ad alcuni migranti e restituendo la pluralità di presenze che compongono la rete con cui collabora il coltivatore. La sua figura resta tuttavia simbolica per la capacità che ha avuto di prendersi carico della sofferenza di molti e di puntare il dito contro le contraddizioni di un potere che si dichiara favorevole al diritto d’asilo ma non lo rispetta e criminalizza la solidarietà. Il film è stato girato tra il 2015 e la fine del 2017, periodo durante il quale Herrou è stato fermato e processato diverse volte. Da allora, ma questo nel film non si vede, la Corte costituzionale francese ha giudicato incostituzionale il «reato di solidarietà» e sollevato Herrou dalle accuse in nome del principio di fraternità. Il titolo del documentario di Toesca, Libero si riferisce dunque a Herrou, personaggio che, come auspicava Voltaire, «coltiva il suo giardino» prendendosi cura delle vite umane e vegetali che lo abitano. Per lui, la libertà è vivere con poco, condividere ciò che si ha e lottare per la giustizia. Libero è anche il film stesso, realizzato in modo indipendente da Toesca grazie al sostegno del crowdfunding, di Médecins du Monde ed Emmaüs che lo hanno sciolto dai vincoli che avrebbe posto una produzione cinematografica ufficiale. Il titolo originale, però, Libre, ricorda anche il nome di una frazione nei pressi di Breil-sur-Roja che un tempo, prima che quella mobile frontiera si spostasse a seguito del rattachement nel 1947, portava il nome italiano di Libri. Anche questo dimostra quanto siano labili e arbitrari quei confini che con tanta ferocia ci si ostina ancora a proteggere. Il film è a lieto fine, perché il suo protagonista torna alle sue terre, ma la realtà attuale non lo è affatto soprattutto per chi ancora cerca accoglienza in Europa.
Come avete lavorato con Michel Toesca?
Michel è venuto a trovarmi tre anni fa, ci conoscevamo da una decina di anni, ma trascorrendo molto tempo insieme abbiamo legato e la presenza della videocamera mi ha anche aiutato a prendere coscienza delle mie azioni, a mettere un po’ di distanza dalle cose che stavo vivendo. A differenza di tanti altri giornalisti, quella di Michel è stata una camera amica, alleata, e mi ha aiutato molto anche il rivedere le riprese e partecipare un po’ al montaggio del film, ripercorrendo tutto quello che avevamo passato. Ho capito come il cinema può servire a far riflettere chi lo vede ma anche chi lo fa sul dolore, su questioni molto serie.
Le è mai stata rimproverata la mediatizzazione del suo caso?
C’è un Herrou contadino e uno mediatico che, con i membri dell’associazione di solidali cui appartengo, chiamiamo in terza persona. «Lui» è il portavoce di una causa, non sono io come persona, e il film vuole mostrare dal di dentro anche l’altro. Malgrado ciò, secondo alcuni è troppo incentrato su di me, benché abbiano voce anche altre persone che operano con me e diversi migranti. Questo è dovuto al fatto che il film dura solo un’ora e quaranta, ma le riprese sono durate tre anni. Michel voleva fare un documentario di quattro ore ma lo abbiamo dissuaso per renderlo accessibile a più persone possibile. Molte scene e persone filmate sono state tagliate.
Il suo caso ha inasprito i controlli nella valle con il risultato di ostacolare i passaggi?
È utopico pensare che la presenza, anche massiccia, di gendarmi possa fermare i migranti. Nel 2016 ho accolto circa quattrocento persone, tra maggio e settembre 2017 ne ho viste passare circa 1300, nonostante l’attenzione dei media sul mio caso e la sbandierata chiusura della frontiera. Gli arrivi in Europa non si fermano a Ventimiglia ma purtroppo in mare.
Quale si augura possa essere l’impatto del film?
Il film mostra che noi non siamo dei semplici passeur e che ci troviamo tutti di fronte a una situazione forzata, a un dilemma: o chiudiamo gli occhi davanti alle violenze contro persone uguali a noi e degne di protezione o ci battiamo contro il sistema imposto dallo Stato. Il film può servire a mostrare la necessità dell’accoglienza per una semplice questione etica. Ci sono molti politici di destra che parlano di radici cristiane della nostra civiltà e di valori che non applicano per nulla.
Il film mostra che la sua militanza si è sempre svolta in un corpo a corpo con il diritto
Abbiamo difeso il diritto d’asilo perché abbiamo ospitato tantissimi eritrei e altri che potenzialmente ne avevano titolo. È però vero che quasi tutti i migranti, anche chi non potrebbe mai averlo, chiede l’asilo e che il sistema si è chiuso in chiave populista e a priori contro chi arriva in Europa.
Cosa pensa della politica migratoria dell’attuale governo italiano?
Gli accordi che l’Italia ha stretto con la Libia sono complici degli schiavisti e dei loro centri di detenzione disumani. Bisogna chiedere agli italiani e a Salvini se sono pronti ad accettare i morti, gli annegati, i torturati pur di non far arrivare migranti nel paese: se tutti guardano questa verità in faccia e l’approvano, allora continuate pure così ma un popolo degno è solo quello che tratta degnamente gli esseri umani. Mi ha sempre stupito che l’Italia non faccia nulla quando la Francia respinge dei minori non accompagnati in treno. Perché gli italiani non chiedono a chi è respinto dalla Francia se ha potuto chiedere il diritto d’asilo come previsto dalla legge? Il numero di richieste d’asilo in Italia è ridicolo. Si spende più a respingere che ad organizzare l’accoglienza.
A chi dice che non si può accogliere tutta la miseria del mondo, che viviamo in tempo di crisi, che manca il lavoro, mancano gli spazi, i servizi, cosa risponde?
La migrazione è inarrestabile. I discorsi anti-migranti si ripetono uguali da sempre, una volta erano contro gli italiani, d’altronde la mia bisnonna è arrivata anche lei a piedi in Francia dall’Italia con un viaggio drammatico nel 1918.
Oggi, le relazioni tra Francia e Italia sono tese per le dichiarazioni del Vice Primo Ministro italiano Luigi Di Maio secondo cui la Francia alimenta la povertà in Africa con le sue politiche neocolonialiste. Cosa ne pensa?
Ah, perché l’Italia non è stato un paese colonialista? Di Maio e Salvini utilizzano la paura per trarne profitto, ciò non è all’altezza di ministri, e i loro discorsi sono sterili. Chiaramente sono contro il neocolonialismo ma vi ricordo che gli eritrei erano colonizzati dall’Italia e il 90 % delle persone che ho accolto venivano dall’Eritrea. I discorsi del vostro governo sono strumentali. Da noi, Le Pen ora se la prende con la Germania dicendo che Macron ci venderà ai tedeschi.
Nel finale del film lei è solo nei suoi campi. Ora qual è la situazione?
Le persone continuano ad arrivare, circa 600 nel 2018. Rispetto a quanto si vede nel film abbiamo costruito cucine e strutture più accoglienti. Questo è un momento tranquillo ma è in estate che gli arrivi crescono.

Repubblica 29.1.19
Da De Gasperi a Conte
Parlamento, ministri, governi la classifica del potere senza laurea
Il titolo di studio fa grande un politico?
Certamente no.
Ma nemmeno la rivendicazione del contrario. Un libro di Irene Tinagli, economista, ex Scelta Civica e Pd, esamina formazione e carriere per raccontare l’era dell’incompetenza
Il libro.La grande ignoranza di Irene Tinagli
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Non è solo un problema di congiuntivi sbagliati, tesi astruse, consecutio impossibili. Non sono le frasi buffe o gli errori epocali che rimbalzano da un sito all’altro, a farci domandare: siamo davanti alla classe politica peggiore di sempre? Sono, piuttosto, un’ignoranza diffusa e orgogliosa. Il merito messo ai margini anziché premiato. Gli incarichi affidati per familismo o affiliazione, come se fosse normale. Come se in Italia, nel 2019, non ci fossero competenze, valori, professionalità da premiare.
Ne «La grande ignoranza.
Dall’uomo qualunque al ministro qualunque. L’ascesa dell’incompetenza e il declino dell’Italia, in uscita oggi per Rizzoli», Irene Tinagli — ex deputata di Scelta Civica e Pd — parte da un database di seimila politici. Dal 1948 a oggi, da De Gasperi a Conte, il corso della politica italiana mette in luce un primo dato, che molto racconta dell’epoca che stiamo vivendo.
Quell’ "era dell’incompetenza" di cui negli Stati Uniti ha scritto Tom Nichols, spiegando come il reale problema sia «il fatto che siamo orgogliosi di non sapere le cose» e che «l’ignoranza è diventata una virtù». La prima scoperta arriva da una circostanza molto semplice: oggi il 70 per cento dei deputati è in possesso di una laurea. Sembrerà una percentuale alta, migliore del 66 per cento del 2008 e certo superiore alla media del Paese, ma la prospettiva cambia se la si confronta a quella della prima legislatura repubblicana, che aveva il 91 per cento di deputati laureati. In un’epoca, gli anni ‘50, in cui il tasso di istruzione della popolazione italiana era molto più basso. La percentuale degli italiani che in quegli anni aveva una laurea era pari a quella di chi oggi ha un dottorato: nell’ultima legislatura, solo il 5 per cento dei parlamentari. Il che dimostra plasticamente come il rapporto tra politica, studio e competenze sia andato progressivamente sfaldandosi.
Non si tratta di considerare il sapere in quanto tale una conditio sine qua non per fare politica. Il bracciante Giuseppe Di Vittorio è uno dei moltissimi esempi di come non sia così. E non c’è, la storia lo dimostra, nessuna "superiorità" dei tecnici sui politici. Basti pensare all’esperimento dei governi Dini e Monti, alla percezione negativa che ne è rimasta nel Paese, alla fine fatta dai partiti nati da quelle esperienze. Tinagli racconta con autoritonia lo "spaesamento", nei tempi morti del Transatlantico, dei cooptati della società civile, sprovvisti delle furbizie e delle capacità dei politici di professione. Quello che però dimostra uno studio fatto nel 2013 dai bocconiani Tommaso Nannicini e Vincenzo Galasso è come le scelte della politica siano avvenute sempre di più per affiliazione e fedeltà. Lasciando da parte non solo il merito, le professionalità affermate, lo studio, ma anche — quando si tratta di fare le liste elettorali e ricandidare qualcuno — la produttività e la presenza in Parlamento. Un andazzo che vale per tutti e ancor più per le donne.
Che aumentano in politica, ma sempre più giovani e meno autonome — per formazione e carriera — degli uomini al loro fianco nei partiti o nei governi.
Le Frattocchie, la Camilluccia, i corsi di formazione a Botteghe Oscure raccontati da Miriam Mafai, sono un mondo andato perduto in nome dell’immediatezza, della simpatia, della comunicazione imposta prima dalla televisione commerciale e poi dai social network. Non è un problema solo italiano, dovuto alla crisi dell’intermediazione e al disprezzo delle competenze introdotti in politica da forze nuove come il Movimento 5 stelle. Ma nonostante se ne parli in tutto il mondo e si studi il fenomeno dai più diversi punti di vista, le ricette sono poche. Ce n’è una provocatoria, che ribalta l’idea della "patente dell’elettore" elaborata da Jason Brennan, Georgetown University, nel suo Contro la democrazia: una "patente per governare", un esame cui sottoporre chi viene scelto come ministro, sulla scorta di quanto avviene negli Stati Uniti, ma in modo più rigoroso. A esaminare i candidati non dovrebbe essere infatti il partito di appartenenza, ma una commissione mista, composta anche da esperti. Non per premiare chi ha più competenze tecniche, tutt’altro: la qualità più importante per un politico è «il pensiero critico». E sebbene uno dei problemi sia il fatto che sempre di più, e nonostante le varie "rottamazioni", in Parlamento arrivino politici di professione, oggi emerge una certezza: la politica non si improvvisa. Ma se non torna a studiare, e a premiare studio e impegno, non va lontano.

La Stampa 29.1.19
Il procuratore Giuseppe Pignatone
“Sull’omicidio Regeni non possiamo fare di più”
intervista di Francesco Grignetti


Intervistare il procuratore Giuseppe Pignatone non è facile. Le sue risposte sono distillate con cura, aliene da battute ad effetto. Eppure, i messaggi ci sono eccome. Sul caso Regeni, ad esempio, che da tre anni è in evidenza sulla sua scrivania, ha spiegato in Parlamento che la procedura giudiziaria ormai è in stallo. E quindi il senso del discorso era chiaro: o si muove il governo ed esercita le opportune pressioni politiche e diplomatiche, oppure tutto finisce qui.
È indubbio, procuratore, che l’attenzione stia calando, sulla morte atroce del ricercatore italiano.
«Guardi, la collaborazione con la procura generale del Cairo ha avuto alcuni esiti positivi, ma non ha finora consentito l’acquisizione di prove certe di colpevolezza. Io credo che dal punto di vista giudiziario, la situazione possa essere sbloccata solo da elementi nuovi che dovessero essere acquisiti, e a noi trasmessi, dall’autorità egiziana».
Lei ha sulla scrivania un altro caso delicatissimo, la morte di Stefano Cucchi, che ha portato la procura a indagare nel corpo vivo dell’Arma dei carabinieri. Dobbiamo aspettarci nuovi sviluppi?
«Naturalmente non parlo delle indagini che continueranno con il massimo impegno per accertare tutte le eventuali responsabilità. Su questo credo debbano essere condivise le sofferte parole rivolte a tutti i carabinieri dal Comandante generale dell’Arma, il generale Nistri, il quale, dopo aver parlato di “un silenzio durato troppo a lungo”, ha affermato: “La vicenda Cucchi è per noi una brutta pagina. Non dubitate, sapremo voltarla con onore, tutti insieme. Ma per riuscirci dobbiamo essere convinti che la verità va perseguita a ogni costo”».
Sta riesplodendo in tutto il suo fragore, intanto, lo scontro tra politica e giustizia, complice il caso-Salvini.
«Mmmh.. (pausa di riflessione) Ci sono processi in corso presso altri uffici, per cui non ritengo opportuno intervenire».
A forza di attizzare lo scontro, però, ne va della credibilità della magistratura. Nella sua lunga carriera l’ha vista crescere o diminuire?
«Io credo che la magistratura abbia presso i cittadini un capitale di fiducia e di credibilità acquisito con quello che ha fatto e continua a fare nel contrasto al terrorismo, alle mafie, e in modo ovviamente diversi, alla corruzione. Noi dobbiamo meritare questa fiducia e anzi accrescerla, facendo bene il nostro lavoro. In primo luogo, dimostrando con i fatti di essere indipendenti. Cioè, come dice la Costituzione, soggetti solo alla legge. Proprio per questo indagini e processi devono prescindere dal consenso. Fare bene il nostro lavoro, potrà anche limitare almeno in parte l’effetto negativo per la nostra credibilità derivante dall’insoddisfazione per i ritardi e le disfunzioni del sistema giudiziario. Insoddisfazione giustificata, ma che solo in piccola parte dipende dai magistrati. Per lo stesso motivo, è assurdo gridare all’errore dei giudici ogni volta che una decisione viene cambiata in sede di impugnazione: è la fisiologia del processo e a questo servono i tre gradi di giudizio; che sono una garanzia, ma naturalmente hanno un costo sui tempi».
Scusi se insisto: non è preoccupato dal riaprirsi di questa polemica?
«La polemica tra politica e magistratura caratterizza, con alti e bassi, la nostra vita pubblica da decenni. Io non credo che ci siano categorie perfette per definizione e altre inevitabilmente dannate. E in democrazia la libertà di pensiero e di critica sono un bene fondamentale. Ripeto: noi dobbiamo fare bene il nostro lavoro, con decisioni che siano e appiano imparziali e comprensibili. Dopo di che, il fatto che siano oggetto di indagini e processi non la politica, ma singole condotte ritenute illecite di singoli uomini politici, rientra nel sistema di pesi e contrappesi proprio della nostra Costituzione, che prevede espressamente l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale».
Sembra indiscutibile il vostro merito nell’avere svelato l’esistenza aRoma delle piccole mafie, che definiste «originarie e originali».
«Sotto il profilo criminale, dico che la cifra di Roma è la complessità, nel senso che non vi è un dato preponderante come la mafia a Palermo o Reggio Calabria, ma la presenza di fenomeni apparentemente diversi e apparentemente lontani come corruzione, criminalità economico-finanziaria, eversione politica, criminalità predatoria e associazioni per delinquere, anche di tipo mafioso. E come hanno rivelato molte indagini e molte sentenze, questi fenomeni si intrecciano moltiplicando la loro pericolosità. In questo contesto rimane gravissimo il fenomeno della corruzione in senso lato che, come dice anche Papa Francesco, corrode e corrompe le basi stesse della nostra società».
Lei ha ricordato che la corruzione resta la prima piaga di Roma.
«Come per tante altre questioni, ci sono alti e bassi nella sensibilità dell’opinione pubblica. Magari alla prossima inchiesta clamorosa avremo un nuovo picco di attenzione. E di polemiche, dato che c’è una parte dell’informazione e degli osservatori che non condivide il giudizio sulla gravità del fenomeno».

L’Espresso 28.1.19
Gialloverdi e regime
Radio Radicale, la voce della Repubblica che il governo vuol chiudere
Un archivio immenso, unico in Italia: 540 mila registrazioni, 43 anni di eventi politici e giudiziari registrati a tappeto - prima dello streaming, prima del grillismo. Ma Di Maio le ha dimezzato i finanziamenti e predica: si aprano al mercato. Come se le sedute parlamentari potessero avere un mercato
di Susanna Turco

qui

il manifesto 29.1.19
Venezuela, golpe dello Stato profondo
L'arte della guerra. Il riconoscimento di Juan Gualdó come «legittimo presidente» del Venezuela è stato preparato in una cabina di regia sotterranea all’interno del Congresso e della Casa Bianca. Principale operatore è il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio, «virtuale segretario di stato per l’America Latina, collegato al vicepresidente Mike Pence e al consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton
di Manlio Dinucci


L’annuncio del presidente Trump, che riconosce Juan Gualdó «legittimo presidente» del Venezuela è stato preparato in una cabina di regia sotterranea all’interno del Congresso e della Casa Bianca. La descrive dettagliatamente il New York Times (26 gennaio).
Principale operatore è il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio, «virtuale segretario di stato per l’America Latina, che guida e articola la strategia dell’Amministrazione nella regione», collegato al vicepresidente Mike Pence e al consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Il 22 gennaio, alla Casa Bianca, i tre hanno presentato il loro piano al presidente, che l’ha accettato. Subito dopo – riporta il New York Tmes – «Mr. Pence ha chiamato Mr. Gualdó e gli ha detto che gli Stati uniti lo avrebbero appoggiato se avesse reclamato la presidenza».
Il vicepresidente Pence ha poi diffuso in Venezuela un video messaggio in cui chiamava i dimostranti a «far sentire la vostra voce domani» e assicurava «a nome del presidente Trump e del popolo americano: estamos con ustedes, siamo con voi finché non sarà restaurata la democrazia», definendo Maduro «un dittatore che mai ha ottenuto la presidenza in libere elezioni».
L’indomani Trump ha ufficialmente incoronato Gualdó «presidente del Venezuela», pur non avendo questi partecipato alle elezioni presidenziali del maggio 2018 le quali, boicottate dall’opposizione che sapeva di perderle, hanno decretato la vittoria di Maduro, con il monitoraggio di molti osservatori internazionali.
Tale retroscena rivela che le decisioni politiche vengono prese negli Usa anzitutto nello «Stato profondo», centro sotterraneo del potere reale detenuto dalle oligarchie economiche, finanziarie e militari. Sono queste che hanno deciso di sovvertire lo Stato venezuelano. Esso possiede, oltre a grandi riserve di preziosi minerali, le maggiori riserve petrolifere del mondo, stimate in oltre 300 miliardi di barili, sei volte superiori a quelle statunitensi.
Per sottrarsi alla stretta delle sanzioni, che impediscono al Venezuela perfino di incassare i dollari ricavati dalla vendita di petrolio agli Stati uniti, Caracas ha deciso di quotare il prezzo di vendita del petrolio non più in dollari Usa ma in yuan cinesi. Mossa che mette in pericolo lo strapotere dei petrodollari. Da qui la decisione delle oligarchie statunitensi di accelerare i tempi per sovvertire lo Stato venezuelano e impadronirsi della sua ricchezza petrolifera, necessaria immediatamente non quale fonte emergetica per gli Usa, ma quale strumento strategico di controllo del mercato energetico mondiale in funzione anti-Russia e anti-Cina. A tal fine, attraverso sanzioni e sabotaggi, è stata aggravata in Venezuela la penuria di beni di prima necessità per alimentare il malcontento popolare.
È stata intensificata allo stesso tempo la penetrazione di «organizzazioni non-governative» Usa: ad esempio, la National Endowment for Democracy ha finanziato in un anno in Venezuela oltre 40 progetti sulla «difesa dei diritti umani e della democrazia», ciascuno con decine o centinaia di migliaia di dollari.
Poiché il governo continua ad avere l‘appoggio della maggioranza, è certamente in preparazione qualche grossa provocazione per scatenare all’interno la guerra civile e aprire la strada a un intervento dall’esterno. Complice l’Unione europea che, dopo aver bloccato in Belgio fondi statali venezuelani per 1,2 miliardi di dollari, lancia a Caracas l’ultimatum (concordato col governo italiano) per nuove elezioni. Le andrebbe a monitorare Federica Mogherini, la stessa che l’anno scorso ha rifiutato l’invito di Maduro di andare a monitorare le elezioni presidenziali.

il manifesto 29.1.19
La maledetta domenica
Irlanda del Nord. In centinaia alla «Bloody sunday march» per ricordare il massacro del 1972 a Derry: «Le scuse di David Cameron non bastano». In città il clima è teso, il ritorno del confine irreale
Dimitri Bettoni


DERRY Centinaia di persone si sono raccolte anche quest’anno nel quartiere di Creggan a Derry, Irlanda del Nord. Da qui il 30 gennaio 1972 partì una grande manifestazione in risposta agli arresti di massa della polizia inglese. Il clima si stava surriscaldando e la stagione che poi sarebbe stata ribattezzata Troubles, ossia il Conflitto, era appena cominciata.
«Al tempo erano finite in carcere già decine e decine di persone, internate nei campi di prigionia senza che le autorità dovessero giustificare il fermo o stabilire un termine alla detenzione» racconta Shane, uno dei partecipanti alla marcia, in attesa che questa prenda il via.
A quella gente scesa in strada il governo britannico oppose un reggimento di paracadutisti, fatti rientrare dall’estero dopo aver combattuto in paesi come Yemen e Angola. Il risultato di quella giornata furono 13 morti più un’ulteriore vittima deceduta il giorno dopo, e altrettanti feriti.
EAMONN MCCANN, giornalista, scrittore e noto attivista politico che ha dedicato molto del suo lavoro a quegli eventi, fu testimone diretto: «I colpi d’arma da fuoco cominciarono all’improvviso. All’inizio ero incredulo, perché stavano sparando? C’erano già state centinaia di manifestazioni, lanci di pietre, manganellate, ma quel che stava accadendo non aveva precedenti. Nella testa delle persone nacque la determinazione di portare la lotta alle estreme conseguenze».
La più immediata delle conseguenze fu l’abbandono da parte di molti giovani della via pacifica e l’adesione alla lotta armata. Tante persone cominciarono a mostrare scetticismo nei confronti di proteste in strada per i diritti civili sapendo che in cambio avrebbero ricevuto piombo. La Provisional Ira, formazione paramilitare che ancora non poteva contare su ingenti forze, ebbe un’ondata di adesioni senza precedenti.
Furono aperte due commissioni d’inchiesta. La prima fu l’inchiesta Widgery, partita a pochi mesi dal massacro, che sposò la linea di difesa dei militari e li assolse, ma anni dopo fu riconosciuta come falsata. La seconda, l’inchiesta Saville del 1998, giunse invece alla conclusione che i militari britannici avevano agito senza controllo, sparando su civili inermi, e avevano poi tentato di depistare le indagini. In quello stesso anno l’allora primo ministro David Cameron presentò per la prima volta scuse ufficiali: «Quel che accadde durante la Domenica di Sangue fu ingiustificato e ingiustificabile».
Alcuni tra i familiari delle vittime pensano non sia sufficiente e dal 2011 sono riuniti nel Bloody Sunday March Committee, organizzazione che mira a portare in tribunale gli ufficiali militari allora al comando. Kate Nash è tra i fondatori: «Le scuse non bastano per aver preso la vita di qualcuno. I paracadutisti sono un’unità militare altamente specializzata, che risponde ad una catena gerarchica. L’inchiesta Saville assegna la colpa a nove soldati semplici, ma gli ufficiali sono ancor più colpevoli di chi ha premuto il grilletto».
Altri tra i parenti delle vittime sentono invece il bisogno di voltare pagina. Come John, che allora perse uno zio e oggi vive non lontano da Bishop Road, dove il 19 gennaio scorso un’autobomba è stata fatta esplodere davanti ad un tribunale. «Per tanti anni la marcia è stato un appuntamento imprescindibile per la mia famiglia. Poi il governo britannico ha riconosciuto le proprie colpe e quella è stata la nostra vittoria politica. Per me è sufficiente, ora voglio andare avanti».
LA TENSIONE è però tornata a crescere nuovamente da un paio di anni, come racconta Stephen, anch’egli presente alla marcia: «Sono aumentati i fermi, i controlli, le perquisizioni della polizia. Alcune frange repubblicane dissidenti hanno rialzato la testa nella convinzione che, se riuscissero a provocare il pugno duro delle autorità britanniche, otterrebbero un nuovo moto di solidarietà dal basso». È tra queste frange che sembrano condurre le indagini della Psni, la polizia locale, che hanno indicato nella Nuova New Ira il più probabile dei responsabili dell’autobomba.
LA MARCIA termina a Bogside, il quartiere di Derry dove i militari spararono sulla folla, oggi come allora cuore urbano dei movimenti di rivendicazione dei diritti. All’ex numero 33 di Lecky road campeggia il famosissimo motto scritto per la prima volta nel lontano 1969 da Liam Hillen, che più tardi raccontò: «È stato un modo per dire a tutti “Ora stai entrando a Derry, amico, e qui non sei tu che comandi”».
Vecchie divisioni e ferite che faticano a rimarginarsi, mentre nel chiacchiericcio di sottofondo nei pub di Derry, tra il suono di tamburi e violini, si rumoreggia di Brexit e dello spauracchio del ritorno di un confine tra le due Irlande a cui, in verità, nessuno crede, che nessuno desidera, ma che inevitabilmente aleggia.

il manifesto 29.1.19
Povertà e ancora bombe, Derry non trova pace
Irlanda del Nord. Nella città con un altissimo tasso di disoccupati e il primato dei suicidi nel Regno Unito, la tensione torna a salire
di Enrico Terrinoni

Appare oramai assodato che il terreno più fertile per la propaganda dei dissidenti repubblicani in Irlanda del Nord sia la città di Derry. Forse per la sua storia, forse per il Bloody Sunday, o forse perché è lì che ha messo radici il movimento per i diritti civili.
Quella che appare come una escalation della situazione, a ridosso delle fratture previste del Brexit, è dovuta principalmente al fatto che tanti giovani, nati e vissuti durante il periodo del Peace Process, non sono mai davvero stati esposti alla pace o alle promesse di una ripresa economica dopo gli anni del conflitto.
Sono proprio i giovani di una città con il più alto tasso di disoccupati in tutto il nord e il primato dei suicidi nel Regno Unito, a prestare maggiormente orecchio al messaggio dei dissidenti repubblicani, definito astorico e privo di futuro dallo Sinn Féin.
Sono bollati come dissidenti tutti coloro che non hanno mai accettato il processo di pace, e che ora di fronte al suo stallo prolungato si sentono ancora più legittimati a contrastare le politiche di accordi tra le due comunità, sinergie che non hanno portato a una vera e propria riconciliazione, ma nel migliore dei casi solo a forme di infastidita tolleranza reciproca.
Quest’estate si è avuta una settimana di violenti scontri a ridosso del 12 di luglio, data in cui i lealisti protestanti ricordano la sconfitta dei cattolici di Giacomo II nella battaglia del Boyne. E una settimana fa l’ordigno esploso fuori dal palazzo di giustizia, e a due passi da centri di ritrovo delle logge massoniche e orangiste, ha di nuovo scosso le mura di Derry.
I movimenti principali che vengono identificati come spalla politica dei dissidenti sono Saoradh e l’Irpwa (Associazione per il sostegno dei prigionieri di guerra repubblicani), formazioni legatissime al punto da condividere spesso le proprie sedi. A ridosso della bomba esplosa la settimana passata, sono stati proprio alcuni loro affiliati a essere fermati e interrogati dalle forze di polizia. Le indagini sono ancora stranamente in alto mare, nonostante la zona dell’attentato sia costellata di telecamere. Quest’ultima circostanza fa nascere il sospetto che l’attacco possa essere una provocazione da parte di ambienti estranei al repubblicanesimo.
Alle domande di un cronista del Derry Journal che hanno toccato anche presunti legami con l’Ira o la New Ira, un non meglio identificato rappresentante di Saoradh si è limitato a rispondere che il partito non è sotto il controllo di altre organizzazioni «armate o meno che siano». L’intervistato ha definito l’attentato del 19 gennaio «rivoluzionario», ma si è guardato bene dal voler coinvolgere il partito.
Come già capitato per l’Irish Republican Socialist Party, braccio politico dell’Inla (Irish National Liberation Army), neanche Saoradh ha condannato l’attacco, ma ci si è limitati a dire che «finché l’imperialismo rimarrà il potere dominante, ci saranno sempre donne e uomini intenzionati a portare avanti la lotta rivoluzionaria armata».
Nonostante le minimizzazioni di questo nuovo tipo di resistenza ancora scomposta, le autorità e i partiti mainstream si stanno accorgendo per la prima volta in anni che i gruppi dei «duri e puri» costituiscono oramai una minaccia e non vanno più sottovalutati.

Corriere 29.1.19
La credibilità perduta della Gran Bretagna
di Antonio Armellini


L’Inghilterra, che ha rappresentato per molti un modello di democrazia capace di gestire un declino imperiale salvaguardando ruolo e influenza, si scopre impantanata in mezzo a un guado da cui non sa come uscire. La saga della Brexit è tutt’altro che conclusa e Theresa May è intanto riuscita ad assestare una mazzata potente all’immagine e alla credibilità internazionale del suo Paese.    Dopo la bocciatura «bulgara» dell’accordo sulla Brexit, la Camera dei Comuni ha reso chiaro che non intende limitarsi ad approvare, ma si riserva di discutere nella sostanza modi, tempi e contenuti di una decisione fondamentale per il Regno Unito, ponendo un argine ai poteri rivendicati dal governo in nome di regole le cui radici risalgono sino a Enrico VIII. May sta pagando lo scotto di un negoziato avviato avventatamente, senza una visione strategica degli obiettivi e senza nemmeno confrontare le opzioni che si presentavano a un Paese profondamente diviso. Ha continuato ad illuderlo — e illudersi — che il peso politico di membro permanente del Consiglio di Sicurezza, con un potenziale militare di prim’ordine, portatore di una visione minimalista dell’integrazione, bastasse per avere ragione delle resistenze e, dividendo il fronte dei Ventisette, uscire senza troppi danni aprendo la porta a una improbabile riconquista in solitario dei mercati mondiali.    Incapace di valutare correttamente la dimensione politica dell’integrazione europea non ha capito come proprio questa si sarebbe rivelata un collante capace di tenere uniti i Ventisette, allontanando l’ipotesi di altre exit che — esse sì — avrebbero potuto mettere a repentaglio l’intero edificio. Anche i più critici fra loro — non solo olandesi o scandinavi, ma anche polacchi, ungheresi e cechi — hanno ben chiaro che è la sua natura in primo luogo politica a tenere in piedi l’Unione ai cui vantaggi non intendono rinunciare.    La frustrazione di una provincia che si sente abbandonata da un centro globalizzato e sempre più distante; i timori del Nord con le sue industrie decotte nei confronti dello «straniero» europeo; la nostalgia imperiale di chi vorrebbe solcare nuovamente i mari alla ricerca del passato perduto, si combinano nei «brexiteers» in una miscela esplosiva di rancore, illusione, isolazionismo e ricerca identitaria. I «remainers» replicano rivendicando una scelta che ha una logica economica evidente, tiene conto del contesto internazionale e del peso reale della Gran Bretagna, ma non tenta nemmeno di confrontarsi con quella parte del Paese che nell’«Europa» vede soprattutto una minaccia. C’è molta «pancia» e poca razionalità in un dibattito che scardina entrambi i partiti.    È compito del Parlamento scomporre le preclusioni e mediare fra le diverse posizioni, per promuovere nuovi equilibri nel governo della situazione. Qui però entrano in gioco storie e tradizioni diverse. I Parlamenti dei Paesi europei, figli dalla Rivoluzione francese, sono il luogo in cui il confronto fra la pluralità di opinioni viene ricondotto all’interno di un recinto comune delle regole condivise; hanno non a caso una forma circolare. La Camera dei Comuni ha una forma a ranghi contrapposti, che richiama il confronto; è nata col compito di contrastare il potere della Corona e questo ruolo svolge, in forme e ruoli diversi, verso il governo. Essa ha una difficoltà, a un tempo storica e strutturale, ad affrontare una crisi che non tanto contrappone, quanto attraversa entrambi gli schieramenti, con uno sconvolgimento che non è un annuncio di «italianizzazione», come qualcuno ha detto, bensì il possibile preludio di un riallineamento radicale, come dalla Seconda Guerra Mondiale è stato tentato solo una sola volta senza successo.    May cerca di guadagnare tempo. Il suo piano non era granché ma era il meglio del peggio e i timori incrociati di chi teme di vedersi sfuggire la Brexit, e di chi vuole tenere aperto il discorso di una ricucitura, la spingono a tentare l’ennesimo surplace tattico, sfruttando la valvola offerta dalla «Dichiarazione politica» cui rinviare gli aspetti più controversi (e la bomba di Derry ha ricordato brutalmente come il nodo irlandese pesi come un macigno). I numeri le sono contrari e la via di un allungamento del termine del 29 marzo potrebbe alla fine rivelarsi l’unica possibile, anche per un secondo referendum, ma c’è nebbia assoluta su come si dovrebbe procedere oltre. Fra i Ventisette cresce intanto il timore che una rottura del fronte unitario rimasta miracolosamente in piedi sinora, sarebbe nefasta per l’Unione. E così, lo spettro di una hard Brexit, che nessuno o quasi dice di volere, continua ad aleggiare.

Repubblica 28.1.19
Tsipras inizia a cancellare la Troika: stipendio minimo su dell'11% a 650 euro
Il premier ellenico, dopo il sofferto accordo con Fyrom sulla Macedonia, gioca la prima carta per cancellare l'eredita dell'austerity e guadagnare terreno nei sondaggi in vista delle elezioni politiche
di Ettore Livini

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Il Fatto 29.1.19
Crisi cinese, la virata che sa di antico: aziende statali come volano industriale
di Mario Seminerio


Mentre il mondo si interroga ansiosamente sull’esito del braccio di ferro tra Trump e la Cina, con la scadenza di marzo che potrebbe scatenare una nuova ondata di misure protezionistiche statunitensi, cresce il numero di osservatori che ritengono che il contrasto con Washington non sia la causa unica né determinante del rallentamento cinese. Un’economia, quella di Pechino, in cui si sta verificando una progressiva compressione del ruolo delle imprese private come motori della crescita, a tutto vantaggio delle imprese statali, per scelta della leadership di Xi Jinping, che in questi anni ha enfatizzato il ruolo della politica industriale da attuare mediante le aziende pubbliche, di cui è stata incentivata la crescita dimensionale mediante fusioni. Sembrano lontani i tempi (era il 2013), in cui il partito comunista guardava al mercato come “meccanismo decisivo di allocazione delle risorse”. Nel frattempo, il Paese ha proseguito ad indebitarsi, mentre l’impatto espansivo del nuovo debito si affievoliva.
C’è stato un ulteriore giro di vite alla vigilanza bancaria per contrastare fenomeni come lo shadow banking, che aggira i limiti qualitativi e quantitativi al credito. Questo razionamento del credito concorre al rallentamento dell’economia cinese ma sta colpendo soprattutto le imprese private, visto che le banche hanno aumentato i prestiti alle aziende pubbliche foraggiate anche da sussidi statali. Il consolidamento delle imprese pubbliche crea mastodonti inefficienti, che soffocano competizione e innovazione e che continuano a sanguinare copiose perdite: il ministero delle Finanze cinese ha ammesso che oltre il 40% delle imprese pubbliche opera in persistente perdita. Ma il gigantismo delle conglomerate pubbliche si è tradotto anche nel crollo della redditività del capitale investito e in una crescente divaricazione negli indici di produttività rispetto al settore privato, che pure sta entrando in sofferenza a causa di questi incentivi distorti, con investimenti in progressiva frenata. Il sistema delle imprese pubbliche, che controlla attivi pari a oltre due volte il Pil cinese, rischia quindi di essere la vera determinante della frenata del Paese, oltre che un ostacolo allo sviluppo della produttività. Dopo aver creato enormi eccessi di capacità produttiva nell’industria pesante e nelle costruzioni, legati al decollo industriale del paese, la Cina pareva decisa a pilotare lo sviluppo privato come correttivo “di mercato” a eccessi e inefficienze della pianificazione, sia pur mantenendo un’occhiuta supervisione ideologica, con la presenza di cellule di partito nelle imprese. Questa nuova virata che sa di antico, verso giganti pubblici come cinghia di trasmissione della politica industriale, rischia di riportare il Paese indietro nel tempo, proprio mentre il mondo occidentale pare aver deciso di non essere più terreno di silenziosa conquista economica da parte di Pechino.

La Stampa 29.1.19
Cina, quattro anni e mezzo di carcere all’avvocato per i diritti umani
Il legale è accusato di sovversione ed è in carcere da tre anni e mezzo. La moglie non ha potuto assistere al dibattimento
 

AFP

Pechino È stato condannato a quattro anni e mezzo di carcere l’avvocato - specializzato in diritti umani - Wang Quanzhang. È accusato di tentata sovversione del potere dello Stato, e la sentenza è arrivata quando il legale è già in carcere da tre anni. Lo ha annunciato la Corte intermedia del popolo di Tianjin, nel nordest della Cina, dove il 26 dicembre scorso è stato celebrato il processo. Wang è stato anche privato dei diritti politici per cinque anni. Al processo, Wang aveva licenziato il suo avvocato, nominato dal tribunale. Non è chiaro se sia difeso da solo e se ricorrerà in appello, ha riferito la moglie, Li Wenzu, che non ha avuto accesso all’aula.
Il legale si trovava in stato di detenzione dal luglio 2015, quando venne preso in consegna dalle forze dell’ordine durante una retata che ha portato all’arresto di circa 250 tra avvocati e attivisti in Cina. L’avvocato lavorava per lo studio legale Fengrui, noto per avere accettato casi sensibili: lui stesso aveva rappresentato attivisti politici e membri del movimento spirituale del Fa Lun Gong, fuori legge in Cina. Il suo caso ha sollevato dubbi a livello internazionale: tra i primi a condannare la sentenza a quattro anni e mezzo di carcere inflitta a Wang è stata Amnesty International, che la ha definita «oltraggiosa» e ha chiesto il rilascio immediato e incondizionato dell’avvocato.

La Stampa 29.1.19
L’orologio dell’Apocalisse segna 2 minuti alla catastrofe
dii Cecilia Butini


La società del bollettino degli scienziati atomici di Washington ha spostato l’orologio della fine del mondo, il cosiddetto Doomsday Clock, a due minuti prima della mezzanotte, citando il rischio di una guerra nucleare e soprattutto il cambiamento climatico come i due fattori che più avvicinano il genere umano al proprio annientamento. «Il futuro della civiltà umana è più sicuro o più a rischio di com’era l’anno scorso? Ed è più sicuro o più a rischio di com’era nei sette decenni in cui è esistito l’orologio?». Sono alcune delle domande che gli scienziati si sono posti prima di annunciare la posizione delle lancette quest’anno, ha spiegato la presidente della società, Rachel Bronson.
Il rischio estinzione
Dall’anno di invenzione dell’orologio, il 1947, le lancette non sono mai state più vicine di così alla mezzanotte: l’umanità, cioè, pare non essere mai stata così a rischio estinzione.Tra il 2018 e il 2019 in realtà le lancette non sono state spostate, ma per gli scienziati non c’è da festeggiare: siamo comunque nell’era del «nuovo anormale».
L’orologio dell’Apocalisse fu pensato dall’americano Bulletin of the Atomic Scientists per dare al mondo una misura della probabilità di una catastrofe provocata dalle azioni umane in un momento in cui la guerra agli armamenti da parte di Usa e Urss era una minaccia reale. Fu impostato inizialmente a sette minuti a mezzanotte. Nel corso dei successivi 72 anni la lancetta dei minuti è stata mossa avanti e indietro 23 volte, raggiungendo la distanza massima di 17 minuti nel 1991 e quella minima di due minuti nel 1953 (quando l’Unione Sovietica testò la bomba a idrogeno), nel 2018 e nel 2019.
Se agli albori del Doomsday Clock e durante i successivi anni della Guerra Fredda la minaccia nucleare era considerata il fattore di rischio numero uno, negli ultimi anni si è aggiunto il cambiamento climatico. La decisione dell’amministrazione Trump di abbandonare l’accordo di Parigi sul clima è vista dagli scienziati come un fattore che ha contribuito al fallimento - definito «vergognoso» - delle politiche climatiche in tutto il mondo.
Ma non solo: nella concezione del Bollettino, a queste minacce misurabili scientificamente si affiancano ora fattori come la «guerra di informazione atta a indebolire la democrazia nel mondo». Come a dire: se la verità viene manipolata con disinvoltura, specialmente dalla politica, «la nostra abilità di distinguere la verità dalla fiction viene distrutta», ha detto Rachel Bronson. «E non c’è niente di normale in questo».

Corriere 29.1.19
Nel Veneto esotico di Shakespeare, terra di commerci, veleni e civiltà
Il saggio di Sergio Perosa (Cierre) su Venezia e altre città cantate dall’autore inglese. Che non le vide mai
di Pierluigi Panza


Il Veneto di Shakespeare, titolo del nuovo libro dell’anglista di fama internazionale Sergio Perosa (Cierre edizioni, con illustrazioni tratte da Cesare Vecellio), è un Veneto evocativo, non di luoghi topografici, ma di atmosfere quasi esotiche. William Shakespeare (1564-1616) non viaggiò mai in Italia, dove ambienta cinque suoi drammi. Apprese la conoscenza delle nostre città dai resoconti di altri scrittori, che decantavano lo stivale come il «Giardino d’Europa», dall’aria salubre e dai modi — specie a Venezia — piuttosto libertini, nonostante la presenza del papato.
Le città venete che più si affacciano tra le sue opere, racconta Perosa (che aveva pubblicato un omonimo libro per Bulzoni nel 2002), sono Venezia, Verona e Padova.
L’orientale Venezia, crocevia dei commerci e di tutte le genti — mori, schiavoni, tedeschi e levantini — è la capitale dei piaceri. È una città-porto, in questo simile a Londra, dove trovi ovunque locali in cui bere e discutere di commerci marittimi. Mai conquistata, è una porta verso l’Oriente, città tollerante, luogo di convivenza ma, soprattutto, di teatro. Shakespeare guarda al Veneto come palcoscenico all’aperto.
Il Mercante di Venezia e Otello sono pervasi di venezianità, città che emerge dalla laguna permeata di spirito mercantile. Il cuore di Venezia è l’area intorno a Rialto. Qui, all’ombra delle logge e nei fondaci, si tengono assemblee, si snodano affari e si svolgono scambi borsistici. Qui, chi non crede negli stessi valori crede nel denaro come mezzo unificante più delle religioni e degli imperi. Anche se per i cristiani è «sterco del diavolo», il latino denarius e il musulmano dinar sono la base del primo impero globale. E Venezia, primo impero galleggiante, è la patria delle transizioni finanziarie.
Ne Il Mercante di Venezia la città diventa anche simbolo della giustizia, che afferma la preminenza della Legge, attraverso il doge, sul potere politico cogente e sulla spregiudicatezza finanziaria. In Otello, a dominare è la Venezia Regina dei mari, quella dell’Arsenale, che apre fondaci lungo le coste mediterranee e issa il simbolo del leone di San Marco sino a Cipro. Venezia si sovrappone a Desdemona, senza la quale non sarebbe possibile né grandezza né miseria, né nobiltà né rovina.
In Shakespeare, Venezia è autonoma rispetto alla terraferma (non serve il referendum per provarlo). La terraferma è altro, qualcosa da raggiungere o da dove si proviene. Nell’opera del bardo ci sono riferimenti agli spostamenti su barche e burchielli da Padova a Venezia, sino a Fusina, con rimandi a ponti e attracchi piuttosto generici. È vero che Jacopo de’ Barbari aveva già inciso la sua portentosa mappa della città (al Museo Correr), ma questa è senza nomi e poco dice della laguna. Sulla terraferma, Shakespeare colloca le ville e il luogo dove avviene la spoliazione dell’ebreo Shylock.
«Fuor delle mura di Verona non c’è mondo, / ma purgatorio, tortura, inferno…»: il passo è ancora sigillato (in differente traduzione) nelle mura che immettono in piazza Bra. Ma Shakespeare non la vedeva in maniera così tragica come Romeo! In Giulietta e Romeo Verona è anche una città vivace, quasi del Sud, dominata dalla presenza cattolica. Attraverso i buffoni Shakespeare invita spesso a ridere dei drammi che si compiono. E in I due gentiluomini di Verona l’ambientazione oscilla tra Verona e Milano; per Shakespeare c’era vita anche altrove.
In La bisbetica domata Padova è una città di approdo: ci si arriva la mattina per mare e fiume. «To see fair Padua, nursery of arts, I am arriv’d for fruitful Lombardy, The pleasant garden of fair Italy», scrive il bardo. La Lombardia è già industriosa, Padova è colta, città di dottori e avvocati con un’antichissima università. Qui è evidente la contrapposizione tra città e campagna.
A partire dalle sue consolidate basi filologiche, Perosa ci fa visitare il Veneto guidati da Shakespeare e non si sa «se ammirare di più la precisione di certi riferimenti o il fascino delle atmosfere evocate». In definitiva, nel bardo operava la visione divisa che la cultura elisabettiana aveva dell’Italia, «luogo di tradimenti, di veleni e complotti, di corruzione e delitti», come sperimentavano già allora i giovani inesperti in cerca di avventure del Gran Tour e come nel dramma Volpone or the fox di Ben Jonson, ma anche di sfarzo, «splendido paesaggio naturale, culla della civiltà e della raffinatezza, laboratorio delle arti, sede dell’esplosione culturale del Rinascimento».

La Stampa 29.1.19
“Metodo Torino” per il Cairo
Rinasce il museo di piazza Tahrir L’Egizio sarà il capofila del progetto
Una sala del Museo Egizio di piazza Tahrir, al Cairo, fondato nel 1902: quando sarà ultimato il Grand Egyptian Museum di Giza, rinascerà a nuova vita grazie alla sua capacità di fare ricerca e far girare le idee. In alto uno dei suoi pezzi più pregiati, il sarcofago d’oro di Tutankhamon
di Emanuela Minucci


Ci sono il Louvre, il British Museum, l’Ägyptisches Museum di Berlino. Ma soprattutto il Museo Egizio di Torino, che sarà il capofila di tutto il progetto. L’unione dei più prestigiosi siti museali europei che custodiscono la storia della civiltà egizia produrrà la forza per dare nuova linfa al museo di piazza Tahrir, al Cairo, nel momento in cui all’ombra della piramide di Cheope sta crescendo il Grand Egyptian Museum, che sarà il più grande museo archeologico del mondo.
Sbaglia chi pensa che l’antica sede museale fondata nel 1902 sia alla ricerca di un’identità perduta con l’emigrazione dei suoi pezzi nel nuovo edificio a Giza. Gli egittologi sono tutti d’accordo: in piazza Tahir sono custoditi tanti e importanti reperti da poterci allestire almeno altri dieci musei. La mission del progetto «Transforming the Egyptian Museum of Cairo», identificata dall’Unione Europea che ha stanziato 3,1 milioni di euro, è quella di restituire al museo un nuovo slancio e soprattutto un linguaggio globale e contemporaneo. «Perché la grandezza di un museo oggi», spiega il direttore dell’Egizio di Torino Christian Greco, «non è il risultato della sommatoria dei tesori che contiene, ma sta nella sua capacità di fare ricerca, non restare immobile nell’auto-contemplazione, promuovere mostre, far girare le idee».
L'importanza della ricerca
È questo il «metodo Torino» che ha fatto breccia nell’Unione Europea al punto da trasformare il museo piemontese nel capofila di questo progetto che ha l’obiettivo di trasformare quello di piazza Tahir in Patrimonio dell’Unesco. E come si raggiunge questa nuova identità? Anche attraverso modifiche progettuali concrete come la rivisitazione delle gallerie d’ingresso e delle sale destinate al corredo delle tombe reali di Tanis.
È molto orgoglioso dell’impresa il direttore Christian Greco, che tra l’altro ieri ne ha parlato, insieme con la presidente del Museo Egizio Evelina Christillin, con un altrettanto soddisfatto Giovanni Panebianco, segretario generale del Mibac in visita a Torino: «Si tratta di un progetto di alto valore scientifico e culturale, che offre alle principali collezioni egittologiche europee l’opportunità non soltanto di operare in collaborazione ma, soprattutto, di intervenire sul campo fianco a fianco con i colleghi egiziani, in un processo reciproco di accrescimento che porterà grandi benefici alla nostra attività».
«Avventura emozionante»
Greco spiega che verrà sviluppato un masterplan capace di ripensare nella sua globalità il vecchio museo di piazza Tahrir. Una rivoluzione in grado di reinterpretarne il ruolo. I visitatori che vi entreranno potranno godere - nell’intento del progetto - anche di un nuovo dialogo che si instaurerà fra monumenti e territorio, di una biblioteca e di8 percorsi digitali e archivi nuovi e potenziati.
«Non bisogna dimenticare nulla», continua Greco, «in primis la strategia delle mostre itineranti, ma poi anche il nuovo bookshop, il sistema di retail, l’allargamento dell’audience e l’interscambio tra museo e abitanti del territorio». Se il nuovo, ciclopico «Grand Egyptian Museum» di Giza aprirà i battenti nel 2020 - e si estenderà per 850 mila metri quadri fra aree interne ed esterne diventando un’attrazione culturale senza precedenti, che accoglierà i visitatori con gli undici metri della statua di Ramesse II -, entro l’anno seguente il museo storico, quello di piazza Tahrir, mirerà altissimo valorizzando le proprie radici proiettandosi nel futuro. «Quest’avventura è molto emozionante, già solo per il fatto che è riuscita a far sedere a un solo tavolo i responsabili di tutti i maggiori musei d’Europa che si occupano di antico Egitto, ed è un’esperienza che produrrà tanti benefici per tutti: la comune discussione è già un fine in sé».

Repubblica 29.1.19
Dino Buzzati
Non solo 'Il deserto dei Tartari'. Ecco perché rileggere Dino Buzzati
Quarantasette anni fa la morte del grande scrittore autore del capolavoro pubblicato nel 1940
di Anna Bandettini

qui

La Stampa 29.1.19
Bebè con tre genitori
Un intreccio tra ricerca di frontieri e inediti problemi etici
Dna manipolato e uteri artificiali La questione è fin dove spingersi

Si moltiplicano le ricerche per creare il primo utero artificiale 2. Terza e quarta età: si trasforma anche il concetto tradizionale di «vecchiaia»
di Nicla Panciera


Trapiantare un utero, modificare geneticamente gameti ed embrioni, far sviluppare un embrione in un utero artificiale e, addirittura, far regredire cellule somatiche per creare gameti, tecnica che potrebbe donare l’autosufficienza riproduttiva. Sia alle donne sia agli uomini. Queste rivoluzionarie possibilità sono destinate a trasformare i concetti di papà e mamma.
Procreazione assistita. In 40 anni, dal primo neonato concepito con la fecondazione in vitro a oggi, i bambini nati grazie a questa tecnica sono oltre 7 milioni, secondo la Società europea di riproduzione umana ed embriologia. L’esecuzione di test genetici pre-impianto consente di individuare difetti e anomalie genetiche e questa possibilità ha spinto alcuni specialisti a ritenere che la procreazione assistita sarà la norma nei concepimenti futuri.
Ma non la pensa così Carlo Alberto Redi, responsabile del Laboratorio di biologia dello sviluppo dell’Università di Pavia e accademico dei Lincei: «Sono troppe le tematiche etiche da risolvere, affinché un simile sistema sia universale. E sono troppe le ineguaglianze messe in campo. Non penso sia auspicabile. Piuttosto, per escludere patologie del nascituro, mi auguro che divenga universale il ricorso alla diagnosi prenatale».
Gameti di laboratorio. Le tecniche di crioconservazione degli ovociti e del tessuto ovarico rispondono alle necessità di chi deve andare incontro a un trattamento chemioterapico che potrebbe danneggiare la fertilità e di chi vuole posticipare una gravidanza. Ma per chi non ha ovuli si va verso una soluzione diversa: la creazione in vitro di gameti funzionanti e geneticamente corretti a partire dalle proprie cellule somatiche, con la tecnica delle cellule staminali. Le applicazioni sono rilevanti e il dibattito sarà complicato, secondo Redi: «In particolare in relazione agli usi non terapeutici». Per esempio il farvi ricorso da parte di individui sterili o infertili per età o scelta sessuale.
Utero esterno. Protagonista del susseguirsi delle nuove tappe della biologia della riproduzione, Carlo Flamigni è uno dei padri della fecondazione assistita. È lui l’autore del primo studio sullo sviluppo di un embrione in un ambiente esterno artificiale, l’«ectogenesi»: ora ricorda come nel 1981 gli editori della rivista «Fertility and Sterility», in una nota al suo lavoro sul primo prototipo di utero artificiale, specificarono che «le problematiche etiche e legali non permetterebbero questa sperimentazione negli Usa».
Il monito non ha arginato la ricerca e oggi si lavora a un utero artificiale: «Quello parziale deve permettere la sopravvivenza di feti nati troppo prematuri, mentre quello totale deve portare a termine l’intero processo di sviluppo di un organismo, a partire dall’impianto di un embrione in un endometrio artificiale». Eppure - conclude il professore - «se queste soluzioni sono in grado di soddisfare l’istinto di procreazione, andrebbe compreso che la gravidanza è qualcosa di ben più complesso», come un corredo di sentimenti, alterazioni fisiologiche e psicologiche che accompagnano i genitori.
Mitocondri donati. La donazione mitocondriale è una tecnica in cui il nucleo con il Dna della cellula uovo della futura madre viene inserito nell’ovulo, privato di nucleo, della donatrice sana. Così si scongiura la trasmissione di malattie metaboliche, provocate da anomalie nei mitocondri, le strutture che forniscono energia alle cellule. Il nascituro avrà il Dna della madre e del padre e, allo stesso tempo, quello mitocondriale della donatrice, che diventa il «terzo genitore».
Ma, se il nuovo nato è una femmina, il Dna mitocondriale senza difetti verrà trasferito alla prole: la trasmissione alle nuove generazioni è proprio l’aspetto problematico delle tecnologie di editing genetico su cellule della linea germinale (su spermatozoi, ovuli o embrioni allo stadio iniziale), come è emerso dal dibattito sulle gemelle cinesi (e altri neonati sarebbero in arrivo), nate da embrioni con Dna modificato attraverso la celebre tecnica Crispr-Cas di «taglia e incolla» genetico. L’editing genetico sui gameti o sull’embrione sarà, forse, una soluzione futura, ma per Redi «oggi è una tecnica estremamente imprecisa». Nulla di paragonabile alle «grossolane tecniche di un tempo - ribadisce Carlo Flamigni - ma non è stata ancora dimostrata la sicurezza per l’uomo».
Chi detta la via. C’è poi la scrittura di un genoma umano ex novo, ci spiega Flamigni, che è membro del Comitato nazionale di bioetica. Per lui la questione principale è ancora un’altra: sta a monte di ogni riflessione sulle applicazioni delle innovazioni biomediche e della loro liceità e a cavallo tra morale, scienza, diritto e politica. «Bisogna chiedersi quante persone beneficeranno di queste soluzioni e chi ne ha espresso il bisogno. Chi finanzia e chi stabilisce le priorità nella ricerca? È evidente che quelli affrontati non sono i bisogni più urgenti della popolazione, ma di pochi privilegiati. Seguiamo le istruzioni di una minoranza e ci asteniamo dall’interrogare i diretti interessati».
L’idea di un «consenso sociale informato», che fa riferimento al diritto non solo di trarre benefici dal progresso scientifico, ma anche al diritto-dovere di parteciparvi attivamente, è recente, dice Flamigni: «Solo tre anni fa è nata un’organizzazione dell’Onu dedicata alla promozione di tale diritto alla scienza, “The international institute for the human right to science”». Intanto, a guidare le incredibili capacità della ricerca biomedica, «dovrebbero essere «la compassione, per chi soffre veramente, e il buon senso, per non fare nulla di dettato dalla fretta e dalla competizione, di cui potremmo non prevedere conseguenze disastrose».
C’è, infine, il bisogno di una riflessione sulla terminologia da utilizzare, come «sintetico» oppure «artificiale»: il linguaggio sarà determinante nell’influenzare il dibattito collettivo.

La Stampa 29.1.19
Così si curava l’uomo delle caverne: quelle piante preistoriche che ancora oggi servono a guarire
La storia antichissima che lega mondo naturale, intuizione umana e magia raccontata nella mostra «Le piante e l’uomo» al Museo delle Civiltà di Roma
di Andrea Cionci


Fin dalla Preistoria, l’uomo ha avuto la necessità di trovare rimedi per curare ferite e malattie. In questo è stato guidato dalla sua facoltà istintiva a scoprire le proprietà utili, curative e alimentari delle piante, un po’ come gli animali.
La storia antichissima che lega mondo naturale, intuizione umana e magia è oggi raccontata dalla mostra «Le piante e l’uomo» curata da Paolo Maria Guarrera e allestita presso il Museo delle Civiltà (arti e tradizioni popolari) di Roma (dal 21 dicembre 2018, al 21 aprile 2019).
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Uno dei problemi più importanti per l’uomo preistorico era individuare quali piante potessero essere commestibili e quali velenose. Per questo si osservavano gli animali e talvolta si somministrava loro le piante di cui si voleva vedere l’effetto.
«In quest’opera di “ricerca” delle proprietà vegetali» spiega il direttore del Museo, Filippo Maria Gambari - «le donne ricoprivano un ruolo di primo piano. Mentre infatti l’uomo si occupava della caccia, esse erano dedite alla raccolta di frutti ed erbe spontanei. Furono anche le prime a coltivare i semi dando poi avvio all’agricoltura. Questa loro attività faceva sì che nelle comunità nascesse e si affermasse la figura della “donna di medicina” che, di solito anziana, sopravvissuta a molti parti, ricopriva il ruolo di sciamana”.
Il fatto che per due milioni e mezzo di anni il mondo sia andato avanti con questa divisione dei compiti, è anche all’origine delle differenti abilità e propensioni tra il cervello maschile e quello femminile. Ancor oggi le donne possiedono dei recettori nueronali che consentono loro di distinguere meglio i colori e di individuare con più attenzione dettagli che all’uomo solitamente sfuggono.
Tra l’altro, quasi sempre l’attività di raccolta dei vegetali doveva essere condotta insieme ad altre incombenze, riguardanti la cura dei bambini e dell’abitazione, ecco perché si parla della famosa capacità “multitasking” della donna. Viceversa, il maschio grazie alla caccia, ha sviluppato una particolare capacità di concentrazione che gli consente di focalizzare tutta la propria attenzione su un solo obiettivo, escludendo tutto il resto, come poteva essere richiesto all’epoca, dalla ricerca di un odore, di una traccia della fuga di un animale.
Consolida Maggiore
Grazie alle acute capacità di osservazione, le donne di medicina avevano quindi compreso come alcune erbe avessero il potere, ad esempio, di favorire la cicatrizzazione delle ferite. Tra queste, la Consolida Maggiore, come venne poi chiamata da Plinio il Vecchio. Questa pianta, ancora oggi, in certe zone viene usata dalla medicina popolare per le sue proprietà vulnerarie (guarisce le ferite); pare inoltre che stimoli la formazione del callo osseo in caso di fratture. Sembra che il sollievo e la guarigione siano dati da una sostanza chiamata allantoina, usata, in sintesi chimica, anche dall’industria farmaceutica per gli stessi scopi.
Si ricordi poi il Luppolo che ha delle proprietà antidolorifiche tanto che si dice che chi soffre di artrosi, tragga qualche giovamento dal bere birra.
Le proprietà vermifughe dell’aglio erano, poi, ben note. La parassitosi intestinale che oggi risulta appena un lieve e frequente inconveniente «scolastico», costituiva nei tempi arcaici una delle più diffuse cause di deperimento e morte dei bambini che, sempre a contatto con il terreno facilmente ingerivano uova di ossiuri e altri vermi.
Un altro rimedio usato nelle comunità preistoriche era il papavero, i cui semi venivano impiegati per facilitare il sonno. Dopotutto, da questa pianta si estrae l’oppio e se ne distilla la morfina.
Vi era poi tutta una serie di foglie e muschi applicati come bendaggi, spesso in associazione con delle muffe particolari dall’azione antibiotica. Per quanto solo alla fine dell’800 il medico molisano Vincenzo Tiberio avesse studiato e dimostrato il potere antibiotico delle muffe - anticipando di 35 anni le scoperte di Fleming sulla penicillina - nella medicina popolare è sopravvissuto quest’uso per centinaia di migliaia di anni. Non a caso, un proverbio piemontese recita: «La ragazza che mangia il pan muffì, la vien più bella dì per dì (la ragazza che mangia il pane ammuffito diventa più bella di giorno in giorno)». Si era notato che mangiare il pane di segale muffito potesse portare, ad esempio, dei benefici a livello dermatologico.
Amanita Muscaria
Anche nelle mummie egiziane sono state trovate tracce di questi antibiotici primordiali. Naturalmente, erano da preferirsi le muffe createsi su cereali o vegetali, non certo quelle che si formavano sulla carne, che, in quanto contenenti cadaverina, sono velenose.
Uno dei proto-farmaci più straordinari fu la corteccia del salice: essa è ricca di salicina, sostanza che svolge attività analgesiche, antinfiammatorie e antipiretiche tramite l’inibizione di un enzima responsabile dell’insorgenza di infiammazione, febbre e dolore. I nostri progenitori, specie quelli dell’Europa centro-settentrionale, erano soliti mettere a macerare nell’aceto di mele la grigia scorza di questo albero ottenendo una sorta di aspirina ante litteram, che è per l’appunto acido acetil-salicilico.
Per comprendere la messa a punto di questi rimedi, bisogna immaginare l’esperienza stratificata di decine di migliaia di generazioni che ha prodotto una forma «darwiniana» di sperimentazione che l’uomo moderno non può concepire.
Nella più completa ignoranza della chimica, l’uomo preistorico attribuiva tali proprietà alla magia, come è comprensibile.
Non a caso, le arpe dei Celti erano di legno di salice, che si riteneva fosse un materiale magico utile per collegarsi alle divinità apollinee del loro pantheon.
«A tal proposito, – spiega il direttore Gambari – sono significativi i tatuaggi che sono stati ritrovati sulla pelle dell’Uomo del Similaun, mummia risalente a 5000 anni fa, ritrovata sul ghiacciaio omonimo al confine tra Italia e Austria. L’analisi osteologica su Oetzy ha dimostrato che l’uomo soffriva di osteoartrosi. Proprio nei punti che dovevano essere dolenti per il soggetto, sono ancora visibili tatuaggi realizzati con magnetite, un materiale che per le sue proprietà poteva realmente dargli sollievo. Basti pensare a quanto oggi avviene con i cerotti magnetici studiati appositamente per lenire i sintomi di questa patologia. Tuttavia è probabile che l’Uomo del Similaun attribuisse la sua guarigione più ai simboli magici che non al materiale con cui era stata dipinta la sua pelle».
Di queste eredità magiche sopravvivono ancor oggi alcuni lacerti. Ad esempio, l’usanza di baciarsi sotto al vischio a Capodanno, deriva dalla credenza antichissima per cui questa pianta, crescendo sugli alberi morti, fosse capace di rigenerare e donare nuova vita.
Anche le fiabe in cui la principessa bacia il rospo e lo fa diventare principe derivano dai reali effetti allucinogeni che l’essudato della pelle del rospo produce. Da sempre ritenuto animale magico, non è infrequente trovarlo nelle tombe antiche e, immancabilmente, nei ricettari stregoneschi.
La palma della curiosità spetta però alla leggenda secondo cui Babbo natale viaggia su una slitta volante trainata da renne. Questo si spiega con il fatto che, ancora in area celtica, gli sciamani fossero soliti assumere, durante la festività di Yule, coincidente col solstizio d’inverno, delle sostanze psicotrope che facilitassero i loro contatti col divino. Tra queste, vi era l’urina di renna: il cervide, cibandosi del fungo Amanita muscaria – velenoso per l’uomo – ne filtrava e concentrava con l’urina il solo alcaloide allucinogeno (il muscimolo) eliminando la tossicità del fungo.
Fra le allucinazioni più frequenti durante questo rito vi era quella appunto in cui le renne cominciavano a volare tutt’ intorno, anche perché gli stessi quadrupedi, sotto l’effetto dell’Amanita, sono soliti darsi a galoppate e corse pazze senza scopo apparente.

Repubblica 29.1.19
Canal Grande
L’ossessione di Hitler per l’arte
di Antonio Dipollina

Giornate televisive intense (anche) per Canale 5, dove oggi in seconda serata passa il doc Hitler contro Picasso e gli altri. C’entra il Giorno della Memoria, ma non solo: uscita per due giorni al cinema nello scorso marzo, passata in pay-tv, arriva ora in chiaro questa fitta ricostruzione dell’ossessione hitleriana per l’arte, ovvero per quella dei maestri incontrollabili, da Picasso in giù: da cui una sorta di saccheggio su scala europea — e ai danni spesso dei possessori ebrei, ricattati — di centinaia di opere considerate da Hitler e dal fido Göring arte degenerata, come da celebre definizione. Intanto, i danari entravano nelle casse personali dei gerarchi, oppure si lanciavano operazioni grottesche come le mostre affiancate (quella del bello classico, e quella delle opere in questione, presentate con didascalie offensive). Una storia imponente ricostruita qui dal regista Claudio Poli su soggetto di Didi Gnocchi. E a narrare e cucire a modo c’è Toni Servillo. Dentro un quadro che attraversa poi decenni fatti di recupero delle opere, nuove mostre in tempi liberi, dentro una narrazione di naturale impatto emotivo, tra angoscia e vaga speranza di riscatto universale.



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