Il Fatto 29.12.18
Addio Oz, soldato “di amore e di tenebra”
Se ne va il grande scrittore, voce critica di Israele
“Contro
i fanatismi”. Amos Oz nel film “Censored Voices”, costruito intorno
alle sue interviste ai soldati israeliani dopo la Guerra dei Sei Giorni
di Silvia Truzzi
Si
scelse un cognome impegnativo il giovane Amos, ancora 15enne, quando
decise di disfarsi di Klausner, nome con cui era nato da una famiglia di
sionisti di destra fuggiti dall’Europa più buia dell’antisemitismo:
“Oz” in ebraico vuol dire “forza”, e per noi il nome di un grande
scrittore, scomparso ieri all’età di 79 anni dopo una lunga malattia. A
13 anni perse l’adorata madre Fania, morta suicida: una ferita mai
rimarginata, raccontata in quello che è certamente il suo capolavoro,
Una storia di amore e di tenebra (tradotto in italiano per Feltrinelli
da Elena Loewenthal, come la maggior parte delle sue opere sia di
narrativa che di saggistica). Scelse la via del kibbutz, dove guidava il
trattore e serviva a mensa e dove incontrò la moglie Nili da cui ebbe
due figli.
Si laureò in lettere e filosofia all’Università ebraica
di Gerusalemme, la città protagonista dei suoi racconti, e poi si
specializzò ad Oxford; nel 1968 pubblicò il romanzo che gli avrebbe dato
fama internazionale, Michael mio. Fu soldato dell’esercito israeliano
durante la Guerra dei sei giorni e durante la Guerra del Kippur, ma non
scrisse mai un romanzo di guerra, come nota Susanna Nirenstein in un
affettuoso ricordo sul sito di Repubblica, perché gli era difficile
“parlare o scrivere di un campo di battaglia”. L’indicibile non si può
spiegare: “Non credo che potrei comunicare quest’esperienza a qualcuno
che non l’ha vissuta. Lo scontro consiste soprattutto in un orribile
odore. Non è immaginabile. Un misto di gomma, metallo, carni umane che
bruciano. E merda. Qualsiasi descrizione non dia conto di quel fetore e
della paura non serve a niente. Io non posso”. Aderì al movimento “Pace
ora”, insieme ad Abraham Yehoshua e David Grossman, altre due grandi
voci della letteratura israeliana contemporanea.
Sulla scrivania
teneva due penne, una politica che impugnava quando si “arrabbiava, ma
tanto e davvero”, una naturalmente da narratore: “Quando ero piccolo, da
grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché
le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è
difficile ucciderlo. Mentre un libro, quando anche lo si distrugga con
metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua
vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in
qualche sperduta biblioteca”, ha scritto in Una storia di amore e di
tenebra. Oltre alla vasta opera letteraria (in cui non mancano titoli
per ragazzi – Soumchi, Una pantera in cantina – e una favola, D’un
tratto nel folto del bosco) Oz lascia un importante contributo al
dibattito pubblico. E non solo sulla questione israelo-palestinese, di
cui si è occupato con numerosi saggi e interventi sulla stampa
internazionale. Fermo sostenitore della soluzione dei due Stati,
rifiutava lo stato binazionale perché “non occorre ricordare cosa è
capitato nella ex Jugoslavia. Basti vedere gli eventi del Medio Oriente
negli ultimi anni. Iraq, Siria, Libano, Afghanistan, con le minoranze
discriminate, se non derubate e massacrate.
Oggi è difficile
essere minoranza sotto una maggioranza musulmana, con i fanatici che
dettano la politica”. La lotta al fanatismo è un tema ricorrente, sin da
Contro i fanatismi (2004) fino al più recente Cari fanatici (2017). In
una delle ultime interviste al Corriere aveva dichiarato: “Più di tutti
temo i fanatici, che purtroppo da noi sono di casa, compresi gli ebrei.
Ci sono certi operatori umanitari delle Ong europee che sono più
fanatici degli stessi estremisti arabi. I fanatici sono dovunque,
dannosi per tutti, che parlino in nome di Dio o delle diete vegetariane.
Con loro non si ragiona. L’ho scritto anche in Cari fanatici, che
vorrei fosse letto come una sorta di mio testamento politico”.
Amos
Oz ha vinto importantissimi premi (tra cui il Premio Principe de
Asturias de Las Letras, il Premio Primo Levi e il Premio Heinrich Heine
nel 2008, il Premio Salone Internazionale del libro nel 2010, il Premio
Franz Kafka a Praga nel 2013), eppure, candidato più volte, non ha mai
vinto il Nobel. Lo scorso giugno a Taormina (dove aveva ricevuto il
Taobuk Award for Literary Excellence insieme a Elizabeth Strout) disse
che “mentre si scrive è come essere nella condizione di una donna
incinta e una donna in attesa di partorire non dovrebbe mai essere
sottoposta ai raggi X”: stava lavorando a un libro, che speriamo tanto
di poter leggere.