Il Fatto 28.1.19
In Francia i gilet gialli fanno parte del paesaggio
I manifestanti hanno occupato l’Arco di Trionfo a Parigi
di Mathilde Goanec
“Il
17 novembre ho guardato i gilet gialli in tv. Il 18 ho detto a mia
moglie che mi vergognavo di essere rimasto a casa. Allora ho preso la
macchina e ho raggiunto una rotatoria”. Nel frattempo Pierre Volpi,
neo-pensionato di La-Londe-les-Maures, un comune del Var, ha recuperato
il tempo perso. Da due mesi a questa parte, una volta superata
l’esitazione del primo giorno di manifestazione, è diventato uno dei
pilastri del gruppo dei Gilet gialli presente sui comuni di
La-Londe-les-Maures, Bormes-les-Mimosas e Le Lavandou. Ha anche spento
la tv per convertirsi al web.
Con la sua “bella squadra” – come la
chiama lui -, circa 1500 iscritti su Facebook, non occupa più le
rotatorie ma si sposta in funzione del tipo di azione. Il sabato si
riuniscono tutti per manifestare a Tolone. Il 15 gennaio, Pierre
raggiunge Sarah e Robert a casa di Pascal e tutti e quattro si mettono a
discutere in giardino. Per sfondo, galline che scorazzano tra i piedi,
una voliera, che Pierre trova molto bella, e la casa di Pascal, una vera
opera da artista del bricolage.
Ebrei e musulmani
Dalla
parte opposta della Francia, Emmanuel Macron, in maniche di camicia, sta
tenendo il suo primo grande dibattito davanti a 600 sindaci riuniti in
una palestra della Normandia. Ai quattro Gilet gialli la cosa interessa
poco e scherzano sul presidente che “fa le domande e dà le risposte”.
La
lettera di Macron, pubblicata domenica 13 gennaio, li ha lasciati di
sasso. Il trucco, dicono, è fin troppo facile da trovare:
“L’immigrazione, l’identità, non sono temi per noi. Macron sta provando a
dividerci”. Robert ne approfitta per precisare ai suoi nuovi amici che
ha origini ebraiche, mentre Sarah ricorda che è musulmana. Pascal ride:
“Noi cristiani siamo in minoranza a questo tavolo”, dice. Sarah
continua: “Il fatto che Macron non risponda alle nostre domande, e anzi
sostenga che siamo una folla antisemita, omofoba e che istiga all’odio, è
molto grave”. Eppure Macron “qualcosa è riuscito a farla”. “Ci ha
svegliati”, aggunge Pierre.
All’orizzonte, continua, mostrando un
volantino, si profila il Referendum di iniziativa civica (Ric). “Se in
Islanda ci sono riusciti, perché non dovremmo farcela pure noi? –
interviene Robert -. Hanno nazionalizzato le banche, rifiutato di pagare
il debito, dissolto l’Assemblea nazionale e indetto un’Assemblea
costituente. Ci hanno messo un anno. Noi possiamo tenere altrettanto”.
Pierre nota, ridendo, che “chiedendo il Ric, e non misurette che
potrebbero essere prese rapidamente, i Gilet gialli hanno
paradossalmente scelto la strada più lunga”. Sarah, lavoratrice autonoma
nell’artigianato, constata comunque che il movimento, che occupa “un
posto importante” nella sua vita, provoca sempre più tensioni e
sentimenti di rigetto: “Indossare il gilet giallo, esporlo in macchina,
ora è più complicato. Le persone ci dicono che abbiamo vinto, che
dobbiamo tornarcene a casa, ci trattano come casi sociali”. Il governo
gioca su questo progressivo disamore dell’opinione pubblica insultando
il movimento, che definisce oltranzista e istigato da “faziosi e
sovversivi”.
Il forte di Bregançon
Per i Gilet gialli del
Var, la vicenda della “presa del forte di Bregançon” è stata la classica
goccia che fa traboccare il vaso. Quando, a fine dicembre, hanno saputo
che Macron ci avrebbe passato le feste di Natale in famiglia, hanno
deciso di andare a fare un pic nic sotto il fortino, portando degli
striscioni. Tra loro c’erano anche Pierre, Robert, Pascal e Sarah. La
polizia li ha braccati, poi è intervenuta la stampa. “Fino a quel
momento nessuno si era davvero accorto di noi – confessa Florent, un
Gilet del Var incontrato a Parigi –. Eravamo dei bravi ragazzi del sud
che, a un certo punto, si sono ritrovati in mezzo ai gas lacrimogeni. E
poi c’è stata la manifestazione del 5 gennaio, che ci ha mandato su
tutte le furie”. Durante l’“Atto ottavo” della protesta, tutta la
Francia ha visto il comandante della polizia Didier Andrieux mentre
picchia un Gilet giallo di Tolone sul cofano di un’auto. La scena,
preceduta da una serie di altri episodi di violenza, ha scioccato
profondamente i manifestanti e il Var ha fatto irruzione sul campo delle
violenze poliziesche e del radicalismo giallo.
“Le violenze della polizia ci hanno obbligato a cambiare discorso”.
“Lanciare
pietre e mostrare la foto di Macron con la testa decapitata sono gesti
violenti, lo so, ma sappiamo tutti che la rivoluzione non si fa con le
rose, o no?
L’amicizia fraterna nata dal movimento potrebbe,
paradossalmente, diventare l’altro tallone d’Achille dei Gilet gialli.
Come continuare a esistere, mediaticamente e politicamente, e andare
oltre la dimensione strettamente locale, restando apolitici? “Uno dei
limiti del nostro movimento è che ci ostiniamo a non voler discutere su
cosa fare del nostro futuro – martella Elvire -. La questione vale anche
per i gestori di un gruppo Facebook che riunisce 6.000 persone, che non
sono poche. L’essere apolitici a ogni costo per me ci mette
nell’impasse”.
La linea resta apolitica
La giovane donna,
dirigente nella funzione pubblica, si è già fatta escludere due volte
dal gruppo di Bandol per la sua adesione manifesta al partito della
France Insoumise. Ogni volta ritorna, senza scoraggiarsi, ma teme che
alla lunga passare notti intorno a bidoni dati alle fiamme e a “mangiare
salsicce” sia tempo perso. “Neanche io ho aspettato i Gilet gialli per
voler cambiare la società – risponde Manu -. Ma quando sono qui con voi
non è per assistere a una riunione di partito, è per partecipare a un
movimento di contestazione”.
Olivier ritiene che sia tempo di
“trasformare il movimento, di far schiudere la crisalide”. È la sfida
degli atelier di riflessione che si tengono tutti i mercoledì sera nella
sala della Società Nautica di Bandol. La parola si libera. “Alcuni di
noi appoggiano azioni più dure, altri azioni pacifiche – spiega Olivier
-. Abbiamo deciso che le due forme possono coesistere”. Più la notte
avanza e più le domande si fanno pressanti: è il caso di partecipare al
grande dibattito? di federare i gruppi dei Gilet Gialli del sud della
Francia? di lanciare una forma di coordinamento nazionale come hanno
fatto a Commercy? Che statuto dobbiamo dare ai portavoce?
Incrociamo
un giovane diplomato a Sciences-Po, vicino all’UPR-Union Popolaire
Républicaine, il partito sovranista di François Asselineau, che confessa
di “vivere i più bei giorni” della sua vita militante, contento che il
dibattito si sia esteso al Ric. C’è anche una pensionata che, in bella
scrittura, ha riempito tre pagine di rivendicazioni nel cahier de
doléances, ma non vuole farsi coinvolgere troppo perché “teme
l’influenza dell’estrema destra sul movimento”. La linea apolitica resta
però un caposaldo per i Gilet. “Su questo punto non cediamo. Qualsiasi
cosa, ma questo no, non è negoziabile”.
A Tolone, nel 1995, un
certo Jean-Marie Le Chevallier, del Front National, è riuscito a carpire
la poltrona di sindaco, per la durata di un mandato. Da allora il Var
resta un dipartimento caro all’estrema destra. Alcuni responsabili
politici sono riusciti a radicarsi localmente e Marine Le Pen è arrivata
in testa al primo turno delle presidenziali. Eppure, alle ultime
legislative, nel Var ha spopolato il partito di Macron, La République en
marche. “Di tanto in tanto si sente parlare di immigrazione, ma non si è
mai visto tra noi nessuno che politicamente aderisca al Fronte National
– sottolinea Géraldine -. Chi vota Fn nel Var non è Gilet giallo. “Ma è
tra noi che le cose si complicano”, deve riconoscere Géraldine.
Sul
posto ci sono anche tre roulottes e uno stand dove ci si può informare
sul Ric, annotare delle idee e consultare il regolamento di come
funziona un’occupazione. Per adesso, Vinci Autoroutes, i gendarmi e i
responsabili politici locali tollerano l’accampamento e, dal momento che
la maggior parte delle rotatorie sono state sgomberate, molte persone
affluiscono al casello. Comincia poco alla volta a prendere piede l’idea
di trasferirsi a tempo indeterminato e di insediare una sorta di
fortino che domini su tutta la pianura, anche se il “gruppo di Le Luc”
si rivendica profondamente pacifista. Éric, che porta una sciarpa
militare in maglia intorno al collo, ha a lungo militato
nell’“intellighentsia locale di gauche”, con l’associazione Attac o
aderendo alla Lega per i diritti umani. “È tutta la vita che aspetto
questo movimento. I miei vecchi compagni di battaglia non sono Gilet
gialli. Qui è come essere in trincea, non ci sono né comfort né pulizia,
e non è un posto molto rassicurante. Ma ci stiamo vivendo cose
straordinarie”.