venerdì 25 gennaio 2019

Il Fatto 25.1.19
L’America Latina s’è destra
Barricate e prigioni. Gli scontri a Caracas e, sotto, el Helicoide, l’ex centro commerciale fiore all’occhiello di Caracas divenuto poi centro di tortura della Sebin, il servizio di intelligence della polizia politica
di Guido Gazzoli


Dieci anni fa, il volto del Sudamerica era composto dai tratti indio di Evo Morales, quelli meticci di Hugo Chávez, quelli europei di Lula, tutti incorniciati dalla barba di Fidel Castro. E grande era il seguito delle loro figure dall’altra parte dell’Atlantico settentrionale. L’alba del 2019 sorge su un continente che ha cambiato completamente indirizzo politico e ideologico: il presidente indigeno è ancora in sella in Bolivia, ma la sua aura di sinistra si è molto appannata – offuscata anche dal presidente-contadino uruguaiano “Pepe” Mujica – i due giganti dell’America meridionale sono in mano a un liberista moderato (l’argentino Macrì) e a un iper-populista (il brasiliano Bolsonaro) e i due rivoluzionari “caraibici” Chávez-Castro, deceduti, sopravvivono abbracciati nell’immaginario, sempre meno collettivo, antiamericano.
La crisi venezuelana rappresenta solo l’ultimo atto della disgregazione del modello populista e progressista, che ha provocato politicamente una svolta verso un ritorno del liberalismo che ha investito gran parte dei Paesi del continente. Le ragioni del cambio, per fortuna avvenuto finora attraverso lo strumento elettorale, sono molteplici e differenti per ogni Paese, ma hanno due caratteristiche comuni: la concezione di “potere eterno” che ha ridotto in alcuni casi le garanzie democratiche e conseguentemente l’estrema corruzione che ha portato, complice anche la crisi mondiale, a un aumento della povertà. Nel 2003, l’elezione del sindacalista Lula costituì l’atto più significativo della svolta progressista sudamericana.
Chi pensava in un principio di “cubanizzazione” del Brasile venne presto smentito dai fatti, visto che “l’eterno perdente” (Lula era stato sconfitto in tutte le elezioni cui aveva partecipato) si rivelò un conciliatore di grande spessore politico puntando alla partecipazione di tutti i settori della società verso un cambio che, complice anche la situazione internazionale e la scoperta di ingenti giacimenti petroliferi, portò non solo nel giro di pochi anni il Paese tra le principali potenze economiche mondiali ma ridusse notevolmente la povertà: dopo l’India, il Brasile è la nazione dove si è registrata per anni la percentuale più alta di incremento dalle classi meno abbienti a quelle medie.
Scaduto il mandato, nel 2011 venne rimpiazzato dalla sua delfina politica nel PT (Partido do trabalhadores) Dilma Rouseff che purtroppo ha smentito le aspettattive. Lo scandalo del Lava jato, che ha coinvolto lo stesso Lula, la mutata situazione internazionale e l’insicurezza nel Paese l’hanno portata a decisioni che hanno trascinato il Brasile in una crisi totale, culminata con la destituzione di Rousseff e l’assunzione prima di Temer e successivamente del “duro” Bolsonaro eletto nell’autuno scorso ed entrato in carica il 1° gennaio.
Caso simile quello dell’Argentina, dove dopo la crisi del dicembre del 2001, nel 2003 assume la carica di presidente il peronista Nestor Kirchner. La soluzione dei problemi del debito del Paese con il Fmi fatta dal suo predecessore Eduardo Duhalde e il contemporaneo rincaro della soia, di cui l’Argentina è tra i principali produttori, nel mercato mondiale provocano anche qui un certo benessere ma anche la mancanza di uno sviluppo, dovuto principalmente all’utilizzo dei giganteschi introiti statali in una corruzione mai registrata nella storia (calcolata in 35 miliardi di euro dall’Università di Buenos Aires) del Paese e nella creazione di piani sociali concepiti come intercambio politico, fatti continuati anche durante la presidenza di sua moglie, Cristina Fernandez de Kirchner. Nel 2015 il liberale Mauricio Macri vince le elezioni, ma sia a causa della pesante situazione economica ereditata, sia per incapacità del suo governo, la situazione non migliora e le elezioni di quest’anno si svolgeranno in una Argentina con un’inflazione vicina al 50%.
Da sottolineare che nei casi di Cile e Uruguay, la grande tradizione democratica promuove da sempre un’alternanza di potere, sebbene la socialista Bachelet abbia perso le elezioni a causa della corruzione e la conduzione di Mujica in Uruguay non abbia brillato soprattutto a causa dell’incapacità dei suoi governi nelle scelte economiche del Paese.