Il Fatto 25.1.19
Il tic degl’imperialisti: disarcionare Maduro nuova farsa di Trump
L’ennesima ingerenza Usa, mascherata da “intervento umanitario”. Al-Sisi va bene, il leader bolivariano no
di Massimo Fini
L’avevamo
scritto sul Fatto del 15 agosto 2017: “Il prossimo obiettivo è Nicolàs
Maduro”. Ieri, dopo che il leader dell’opposizione parlamentare
venezuelana Juan Guaidó si era autoproclamato presidente del Paese,
Donald Trump è subito intervenuto non solo incoraggiando l’opposizione
ma pronunciando la sinistra frase “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Il
che significa: intervento militare. Del resto erano mesi che altri
importanti esponenti del governo americano, da Mike Pompeo a James
Mattis, auspicavano un intervento armato in Venezuela in nome dei
“diritti umani”, che in quel Paese sarebbero violati, e sobillando le
forze armate venezuelane perché si ribellassero a Maduro. Quando sento
parlare di “diritti umani” metto, metaforicamente, mano alla pistola.
Perché, come la storia recente insegna, vuol dire che si sta per
aggredire qualcuno.
Il metodo per eliminare leader sgraditi
all’Impero americano, in genere socialisti, come per esempio Slobodan
Milosevic, è sempre lo stesso, con qualche variante: prima si comminano
sanzioni al Paese indesiderato, lo si strangola economicamente, nasce
così uno scontento popolare e con esso un’opposizione che, sempre
incoraggiata da fuori, si dà a manifestazioni più o meno violente. Prima
di quelli degli ultimi giorni gli scontri fra sostenitori
dell’opposizione e sostenitori di Maduro avevano causato in tutto 147
morti, equamente divisi fra le due fazioni. Si badi bene: non erano
stati scontri con polizia o esercito, ma scontri fra fazioni politiche
opposte. La reazione del governo venezuelano non deve essere poi, a
differenza di quello che avviene nelle dittature propriamente dette o
mascherate come quella di Putin in Russia, così truce se il leader
dell’opposizione Juan Guaidó, sequestrato qualche giorno fa mentre era
in auto con la moglie, dai servizi segreti, è stato liberato dopo poche
ore e il governo ha affermato che “è stata un’iniziativa non
autorizzata” e che punirà i responsabili. Maduro è stato rieletto per la
seconda volta a maggio del 2018, col 70% dei consensi, e si è
reinsediato due settimane fa.
L’opposizione sostiene che si sia
trattato di elezioni taroccate, perché in lizza non c’erano validi
oppositori di Maduro, perché si sospetta di gravi brogli e perché
sarebbero stati violati alcuni articoli della Costituzione venezuelana
che danno potere di intervento al presidente dell’Assemblea nazionale,
il Parlamento, “in caso di necessità e vuoto di potere”. Che ci sia un
vuoto di potere in Venezuela ci par dubbio, quello che è vero è che
Maduro ha svuotato il Parlamento delle sue funzioni. Se di golpe si
tratta è un golpe istituzionale (alla Napolitano), non un golpe con le
armi. Il golpe con le armi, cioè un golpe propriamente detto, lo ha
realizzato Abd al-Fattah al-Sisi rovesciando nel luglio 2013 il governo
dei Fratelli Musulmani, usciti vincitore, con tutti i crismi della
legalità, dalle prime elezioni libere in Egitto, mettendo in galera, non
per due ore ma a vita, il presidente legittimamente eletto Mohamed
Morsi e tutta la dirigenza dei Fratelli, assassinando in varie riprese
2.500 oppositori (ma potrebbero essere molti di più) e facendone sparire
altrettanti. Eppure nella cosiddetta comunità internazionale, una gran
parte della quale ora si scandalizza e si scaglia contro Maduro
definendolo “un usurpatore”, non si levò una sola protesta.
Il
fatto è che quello di Maduro è un socialismo, un socialismo largamente
imperfetto, ma un socialismo, che ha due obiettivi di fondo: il
tentativo di una maggior perequazione sociale in un Paese dove un
migliaio di famiglie detiene la maggior parte della ricchezza e tutto il
resto della popolazione vive in povertà, e il tentativo di prendere le
distanze dall’inquietante vicino americano. È la cosiddetta ‘linea
bolivariana’, che fu ripresa da Chavez, il predecessore di Maduro, e di
cui Maduro è il continuatore. Linea che per parecchi anni ha avuto un
certo successo coinvolgendo molti altri Paesi sudamericani. Ma ora la
situazione è cambiata. Perché molti di questi Paesi, a eccezione della
Bolivia, del Messico e dell’Ecuador, sono governati dalle destre e in
qualche caso da destre estreme, vedi Bolsonaro. Se una previsione
l’avevo azzeccata, un’altra l’ho sbagliata. Avevo scritto che con Trump
non ci sarebbero più state guerre ideologiche, ma solo economiche. A
quanto pare – speriamo di sbagliarci e che The Donald torni sui suoi
passi – non è così.
Due osservazioni per finire. Fa ridere, fa
ridere amaro, che gli Stati Uniti si scaglino contro la presunta
‘dittatura’ di Maduro quando per decenni hanno sostenuto i più feroci e
sanguinari dittatori sudamericani, da Noriega a Somoza a Batista a
Pinochet. Certi esponenti europei, da Tusk a Tajani, hanno affermato che
in Venezuela alcuni oppositori sono in galera, sono quindi “prigionieri
politici”, una situazione inaccettabile. Ma in Spagna Puigdemont, che
dopo un referendum si era proclamato presidente della Catalogna, senza
che ci fosse stata alcuna violenza da parte dell’Indipendentismo
catalano, è stato costretto all’esilio, mentre altri esponenti del
governo catalano, sono in galera da più di un anno con l’accusa di
“sedizione”. Questi sì veri detenuti politici nel mezzo della
democratica Europa.
Due pesi e due misure. Come al solito, come
sempre. Maduro è un golpista, Al Sisi no, gli oppositori di Maduro, dopo
manifestazioni violente, sono “detenuti politici”, Junqueras e gli
altri, dopo un referendum, e senza violenze, sì. Ma ora, per usare un
linguaggio feltriano, ci siamo rotti i coglioni. Saremo probabilmente i
soli, in un panorama occidentale tutto allineato all’imperialismo
americano, che in Sudamerica si riassume con la frase di Henry Kissinger
dedicata al Brasile, definito “satellite privilegiato degli Usa”, a
difendere Maduro e quel che resta del socialismo, che non è il
comunismo, internazionale.