martedì 22 gennaio 2019

Il Fatto 22.1.19
Libia e migranti: non si vede alcun piano B
di Stefano Feltri


Gli attivisti, le associazioni cattoliche e alcuni intellettuali pongono una questione etica: nessuno deve morire nel Mediterraneo, anche se questo significa andare a prendere sulla costa chi parte dalla Libia e non rispedire indietro nessuno, perché la Libia non è un porto sicuro e perché non ci può essere giustificazione a rinchiudere i disperati in campi di prigionia inumani. È un approccio che si fonda su basi etiche, più che giuridiche, visto che la Convenzione di Ginevra sulla protezione umanitaria è stata approvata nel 1951 per gestire 11 milioni di europei che avevano dovuto cambiare Paese durante la Seconda guerra mondiale, non certo per regolare migrazioni di massa dall’Africa in Occidente.
Questi paladini dei diritti umani si sono assunti il compito di ricordare con intransigenza il costo di ogni scelta politica. Chi governa, però, ha un compito ancora più difficile: scegliere tra opzioni tutte incompatibili con quell’intransigenza. E optare per il male minore, che spesso significa – per quanto suoni disumano affermarlo – scegliere un male oggi per prevenirne uno maggiore domani. Il governo Gentiloni ha iniziato la strategia poi proseguita in modo più sguaiato dall’attuale esecutivo: evitare che la Libia diventi uno Stato fallito controllato dai trafficanti, cercare di riportare un ordine che possa garantire un’alternativa economica al Paese al business dei barconi, così da limitare gli sbarchi sulle nostre coste e preservare l’influenza italiana sul Paese che è tanto rilevante per il nostro interesse nazionale (categoria fuori moda in Italia ma non tra i nostri concorrenti francesi). Questo ha significato eliminare dal mare le Ong: il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa ha analizzato i dati e dalla sua sintesi non risulta che le Ong siano un fattore di pull factor, cioè che incentivino le partenze e dunque i morti, ma il nostro intelligence ha prove – non utilizzabili in processi giudiziari – che molti contatti ci sono stati tra volontari e scafisti. Con i criminali che approfittavano della buona fede delle Ong per ridurre il rischio d’impresa.
Poi, nel luglio 2018, il secondo passo di questa strategia: attribuire alla Libia una zona di competenza per le attività di ricerca e soccorso (Sar) in mare. Una zona estesa, che la Guardia costiera libica forse non sa gestire neppure con il supporto di motovedette e formazione fornito dall’Italia. O che forse non vuole gestire davvero, perché quando aumentano gli sbarchi e i morti è il momento di battere di nuovo cassa a Roma per chiedere altri aiuti. È una strategia che implica il rischio di molti morti e di molto dolore tra chi sognava l’Europa e si trova respinto in Libia. Ed è destinata a durare: le elezioni in Libia per riunificare il Paese erano auspicate per dicembre ma sono rinviate a data destinarsi.
Di alternative a questo approccio se ne vedono poche: per l’Italia rinunciare al tentativo di ricostruire una sovranità statuale in Libia significa scegliere una modalità neocoloniale (gestiamo noi il Paese: auguri!) oppure disinteressarsi delle partenze e sparare ai barconi, come una volta auspicava una certa destra. Alessandro Di Battista e i 5Stelle invitano ora a parlare delle “cause” delle migrazioni più che dei sintomi: ma l’idea che il problema si affronti facendo sviluppare l’Africa in pochi mesi è, nel migliore dei casi, ingenuità.
Chi vuole affrontare la questione e ridurre il numero dei morti deve pretendere una sola cosa, semplice e concreta: un canale legale di migrazione in Italia, tramite ambasciate, consolati, hotspot. Chi ha diritto di protezione umanitaria (o è utile all’Italia, perché no) deve essere identificato prima di partire poter entrare senza dover pagare un trafficante. Questo significa avere più migranti. E, speriamo, meno morti tra chi non ha diritto alla protezione ma cerca comunque una vita migliore. Qualche partito è disposto a proporlo sul serio? E qualcuno a votarlo?