martedì 22 gennaio 2019

Corriere 22.1.19
I 150 sul cargo
«Non mandateci di nuovo in quei lager»
Cresce la tensione a bordo della Lady Sham
dopo la notizia che la nave è diretta in Africa
di Marta Serafini


«Preferiamo ucciderci piuttosto che tornare in Libia». Voci, grida, suppliche. Il ponte è quello della Lady Sham, il cargo battente bandiera della Sierra Leone, che domenica sera su istruzione della Guardia costiera di Tripoli ha recuperato un gommone partito da Homs e rimasto in acqua oltre 24 ore.
«Siamo preoccupati davvero, temiamo che si profili un nuovo caso Nivin». Il precedente è quello di un altro cargo che lo scorso novembre rimase fermo nel porto di Misurata per 12 giorni, con 71 migranti che si rifiutavano di scendere, fino a quando le forze libiche fecero irruzione ferendo almeno 10 persone. Un caso che riaccese i riflettori sulle costanti violazioni dei diritti umani e sulle torture denunciate da tutte le organizzazioni, governative e non, in questi ultimi due anni.
Ora, tra i 150 sulla Lady Sham ci sono persone da Ghana, Sudan e Costa d’Avorio, almeno una dozzina di minori, compreso un bambino che i migranti domenica pomeriggio hanno descritto come «privo di sensi o morto» e di cui non si hanno più notizie. «Sono 50 di più di quanti pensavamo ieri. Forse fanno parte di due salvataggi diversi. Ci sono 60 donne, molte delle quali incinte. E sono in uno stato terribile». A tenere i contatti via satellitare, i volontari di Alarm Phone. «Ieri (domenica, ndr) alle 19.45 abbiamo temporaneamente perso i contatti», spiega al Corriere Maurice Stierl della piattaforma di monitoraggio del Mediterraneo. Poi la Lady Sham si avvicina, effettua il trasbordo e, come da indicazione di Tripoli, fa rotta verso Misurata.
I migranti però ancora non lo sanno. «Quando sono stati recuperati, si trovavano in acque internazionali, dunque si tratta di un ritorno forzato, tanto più che la Libia non è un porto sicuro», sottolinea Stierl. Tripoli da fine giugno 2018 ha però delimitato i confini della sua «Sar Zone». Dunque secondo i libici — con l’avvallo dei centri che coordinano i soccorsi di Malta e Roma — è Tripoli responsabile del salvataggio.
Dopo il trasbordo dalla Lady Sham tutto tace. Probabilmente c’è chi piange di gioia perché l’incubo è finito. «Siamo in salvo, ora», deve aver detto qualcuno. Poi alle 16.20 di ieri l’incubo ricomincia. «Due sopravvissuti ci hanno contattato dicendo che preferiscono uccidersi piuttosto che tornare indietro».
L’allarme
«Ci sono 60 donne, molte delle quali incinte. E sono in uno stato terribile»
A quel punto il cargo è in prossimità della costa di Misurata ma sta girando su stesso. Segno che a bordo o a terra sta succedendo qualcosa. «Crediamo che la crew abbia mentito ai migranti dicendo loro che stavano andando in Italia. E quando loro l’hanno scoperto hanno avuto uno choc. Siamo preoccupati per le loro condizioni fisiche e mentali». Intanto uomini e donne sono stati separati, il che rende ancora più difficile avere un quadro certo.
Nel frattempo anche dalla Sea Watch 3, la nave della Ong tedesca che sabato ha salvato 47 persone, non arrivano buone notizie. «Il meteo è in peggioramento e potrebbe rendere necessario l’avvicinamento alla costa». Ma un porto sicuro ancora non c’è. E non solo. «Stiamo raccogliendo testimonianze terribili sulle torture subite in Libia».
E dalla Open Arms, l’Ong catalana ancora in attesa di poter riprendere il mare, arriva un tweet: «La storia ci dirà da che parte eravamo».