lunedì 21 gennaio 2019

Il Fatto 21.1.19
Con un’app il Papa avvicina i giovani alla preghiera
di Domenico Agasso jr


Ieri dopo l’Angelus, dalla finestra del Papa è spuntato un iPad. Francesco ha cliccato. E ha dato così il via a una app, Click To Pray. È uno strumento «per pregare insieme». Funziona così: si trova su un sito web e applicazioni mobili e social network. È in sei lingue. E ha tre sezioni: «Prega con il Papa» con le intenzioni mensili del Pontefice; «Prega ogni giorno» per facilitare la preghiera tre volte al dì; «Prega in rete» che è uno spazio dove gli utenti possono condividere le loro preghiere e pregare gli uni per gli altri. E vedere chi prega per che cosa e quanti stanno pregando.
Ora, la speranza è che non si invochi la vittoria di lotterie o qualcosa di simile. E che Dio non si affidi a qualche pasticcione come Bruce Nolan, protagonista di «Una settimana da Dio». Nel film del 2003, diretto da Tom Shadyac e interpretato da Jim Carrey (Nolan), Morgan Freeman (Dio) e Jennifer Aniston, Bruce viene contattato da Dio, che gli offre i propri poteri e il proprio «posto». Bruce accetta e si diverte. Poi però Dio gli ricorda che il suo ruolo ha anche oneri: occuparsi delle preghiere della gente. Fastidiose, per Bruce. Il ragazzo si inventa perciò una scappatoia: le trasforma in e-mail, facendole automaticamente avverare, con un «rispondi sì a tutti». È l’inizio della fine: esaudire incondizionatamente le richieste di chiunque non ha reso felice nessuno, perché coloro che avevano chiesto di vincere alla lotteria si sono visti dividere il premio, ridotto a spiccioli. In poche ore, scoppiano rivolte violente.
Ovviamente gli obiettivi vaticani sono diversi: innanzitutto la nuova applicazione è un gesto per stare ancora più vicino ai giovani. Ed è la conferma di come Francesco non demonizzi la rete. Anzi: Internet e social media sono «una risorsa del nostro tempo; un’occasione per stare in contatto con gli altri, per condividere valori e progetti, e per esprimere il desiderio di comunità», ha detto.
Aggiungiamo noi che Click To Pray può diventare anche un modo per andare incontro alla «liquidità» del momento di preghiera, genericamente intesa. La gente va meno a messa, ma non ha smesso di pregare, come confermano preti e statistiche. Tra i credenti - praticanti o saltuari che siano - esiste un desiderio di un tempo da trascorrere con (qualche) dio. C’è necessità di una evasione e sospensione rigenerante dalle frenesie dell’esistenza. Di attimi in cui si riflette sull’infinito, si assapora l’eterno. Si affronta il mistero della vita. E poi ci sono periodi di disperazione. Ci sono preghiere che gridano il bisogno di sentirsi ascoltati e guardati da Qualcuno. Ora la Chiesa dà spazio a queste invocazioni più quotidiane e di vita vissuta. E incoraggia - oltre alla generosità delle intenzioni per il prossimo - l’atto del pregare attraverso lo stimolo reciproco: vedendo altri che pregano, si può trovare la forza di superare timidezza, pigrizia e vergogna. Poi, basta un click.

Repubblica 21.1.19
Quelle stragi fotocopia nell’indifferenza dell’Europa
Sei anni di morti in mare
Le chiamate di emergenza, lo scaricabarile, il terrore nelle voci dei profughi. Perché dal naufragio dei bambini a oggi le cose sono cambiare solo in peggio

di Fabrizio Gatti

ROMA - Abbiamo già raccontato tutto questo: le chiamate di emergenza da un barcone alla deriva, lo scaricabarile tra autorità, il terrore. L'abbiamo sentito al telefono nella voce disperata del dottor Mohanad Jammo, oggi anestesista in Germania, sei anni fa naufrago nel Mediterraneo con la moglie e i suoi tre figli piccoli, di cui due annegati. L'abbiamo visto nel nostro film-inchiesta "Un unico destino" sulla strage dell'11 ottobre 2013: cinque ore di rimpalli, i soccorsi partiti in assurdo ritardo e due ufficiali italiani ora sotto indagine per l'affondamento di un peschereccio e la morte di 268 siriani, tra cui sessanta bambini che potevano essere salvati.
Siamo daccapo. Ma non da oggi: lo siamo da quando gran parte di noi cittadini europei, sempre più ubriachi nell'abisso del nuovo nazionalismo, pretendiamo di punire uomini, donne e minori inermi mentre cercano di salvarsi dai guasti che i loro e i nostri Stati hanno provocato. Condanniamo loro a morte per annegamento e nemmeno biasimiamo i governi in Europa e in Africa che con le loro politiche li hanno messi nelle condizioni di fuggire.
Ieri altre cento persone, tra cui bambini e forse cadaveri, sono state per 12 ore su uno scafo che imbarcava acqua. E fino a tarda serata Libia, Malta e Italia, nel silenzio complice dell’Unione europea e di milioni di elettori accondiscendenti, hanno deliberatamente deciso di non andare ad aiutarli, salvo muoversi in extremis. Il soccorso è obbligatorio per legge e la legge non dipende dal consenso popolare. Chi riceve la prima chiamata è sempre responsabile del coordinamento fino al passaggio ufficiale delle consegne all’autorità competente: quindi risposte come “chiamate Malta”, “chiamate Roma”, “chiamate Misurata” sono illecite.
L'autorità competente in questo caso è Tripoli che però, come hanno raccontato Marco Mensurati e Fabio Tonacci su queste pagine, nemmeno risponde più al telefono. Tutto questo ha ovviamente un inizio, un punto di non ritorno nella storia recente: l'aver considerato la Libia un luogo sicuro e la sua Guardia costiera un servizio efficiente e umano, addestrato e finanziato con le tasse dei contribuenti europei. Ma ha anche una sua diabolica perseveranza: insistere nel credere che l'immigrazione irregolare si possa fermare sulle spiagge libiche, quasi alla fine del viaggio e non nei luoghi di partenza. La Libia è ancora una volta fuori controllo. Tre notizie di queste ore: giornalista dell'Associated Press morto durante i combattimenti a Tripoli, il bilancio delle vittime aumenta mentre le milizie continuano a sparare nella capitale, sospetti terroristi uccisi in una vasta operazione nel Sud.
Quale alternativa abbiamo? Richiede tempo, ma non è difficile immaginarla. Basterebbe domandare ai nostri ministri di lavorare, studiare e andare a visitare quei Paesi per aprire relazioni amichevoli, alle nostre Università di avviare gemellaggi, ai nostri imprenditori e alle nostre scuole professionali di insegnare mestieri sul posto. Come fecero i salesiani con gli operai e gli agricoltori italiani dopo la Seconda guerra mondiale e come oggi fanno in Africa, sempre i salesiani e poche altre Ong, per creare alternative concrete e sostenibili all'emigrazione. Non tutti i luoghi di partenza sono devastati dalle guerre. Non tutti sono affamati dalle carestie del riscaldamento globale. Spesso scelte corrotte e depauperamento delle risorse della terra, a favore di Europa, Stati Uniti, Canada e Cina fanno molto peggio dei bombardamenti e delle siccità. Ma corruzione e impoverimento non sono nemmeno riconosciuti tra le condizioni che permettono di ottenere qualche forma di protezione umanitaria.
L'Italia ovviamente non può fare tutto da sola. L'ha fatto per anni: proprio dal naufragio dell'11 ottobre 2013, prima con la Marina militare poi con i soccorsi delle Ong. La risposta della maggioranza degli italiani alle elezioni un anno fa non ha però proposto soluzioni diverse. Ha semplicemente allineato il nostro governo al menefreghismo di gran parte dei Paesi europei: Ungheria e Polonia in testa, con il seguito di Francia e Austria.
L’11 ottobre del 2013, mentre il dottor Jammo supplicava i soccorsi al telefono, un comandante della Marina italiana ordinava a Nave Libra di allontanarsi dall’area dell’emergenza: il pattugliatore era a meno di un’ora di navigazione e avrebbe potuto salvarli tutti, genitori e bambini. Ma in sei anni quello che allora era reato, oggi è regola: con la decisione del ministro dell’Interno Matteo Salvini e quello delle Infrastrutture Danilo Toninelli, responsabile dell’attività in mare, di chiudere i porti e impedire alla Guardia costiera di fare ciò che deve fare. Così nemmeno i capitani delle navi civili rispettano più gli obblighi di soccorso per il rischio di rimanere bloccati giorni in attesa delle decisioni di Salvini e Toninelli. Lo vediamo in queste ore: anche l’Europa è una terra di pirati.

Corriere 21.1.19
La Ue, Atene, Roma
Lacrime da non ripetere
di Paolo Mieli


C’è qualcosa di stridente e di inautentico nell’autocritica europea per le sofferenze che quattro anni fa furono inflitte dalla Ue, dalla Bce e dal Fmi alla Grecia. Ha iniziato, ai primi di gennaio, Angela Merkel che, in occasione di una visita ad Atene, ha esibito cauti segni di contrizione e ha detto essere la Germania «cosciente della propria responsabilità storica per la sofferenza inflitta al popolo greco durante l’occupazione nazista nella Seconda guerra mondiale». Parole doverose pronunciate forse anche per cancellare la memoria dei violentissimi moti di piazza che misero la stessa Merkel in grande imbarazzo qualche anno fa allorché, al culmine della crisi, si recò nella capitale ellenica per incontrare l’allora premier Antonis Samaras. Ma il riferimento all’occupazione hitleriana rimanda — non si sa se volontariamente — alla richiesta di risarcimento per la suddetta «sofferenza» che qualche esponente politico greco avanzò nel 2015 spingendosi a quantificarla in un ammontare sbalorditivo: 162 miliardi di euro. Indennizzo che, lo scorso settembre, durante una visita a Creta, l’attuale primo ministro Alexis Tsipras ha ritenuto di conteggiare al rialzo: ben 279 miliardi. La signora Merkel non ha preso ovviamente nessun impegno a ripagare i greci per i patimenti inflitti loro dai tedeschi tra il ’41 e il ’44, ma si può essere certi che la sua — ripetiamo: doverosa — ammissione di colpa avrà ripercussioni.
Sul caso greco ha poi ritenuto di dover tornare, in modo assai meno cauto di quello della cancelliera, il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker il quale, in occasione del ventesimo compleanno dell’euro, ha definito «avventata» e «scriteriata» la politica di austerità che nel 2015 fu adottata dall’Europa e dal Fondo monetario internazionale nei confronti della Grecia, ha accusato se stesso e l’intera élite europea di «mancanza di solidarietà» verso quel popolo «da noi coperto di contumelie». E di questo si è detto «profondamente rammaricato». Siamo in presenza di un tipo di autocritica assai particolare. Da quel 2015 è trascorso troppo poco tempo perché si sia persa memoria della circostanza che Juncker, all’epoca presidente dell’Eurogruppo, si schierò dalla parte opposta a quella degli intransigenti impersonatasi nel ministro tedesco dell’Economia Wolfgang Schäuble. Siamo in presenza perciò di un caso (non infrequente) di «autocelebrazione» travestita da atto di contrizione. Senza che poi l’autore di tale appena dissimulato encomio a se stesso avverta l’esigenza di essere più circostanziato su tempi e modi in cui all’epoca sarebbe stato commesso l’errore. E su cosa, a suo avviso, si possa fare adesso per ripararlo.
Per stare ai fatti di quattro anni fa, è vero che la Ue si irrigidì e che in molti già all’epoca sostennero che la Grecia fosse troppo piccola per giustificare tale irrigidimento. Ma è altrettanto vero che erano trascorsi già sei anni da quando Papandreou nell’ottobre del 2009 aveva pubblicamente ammesso il trucco dei conti del suo Paese al momento di entrare in Europa. Ed è incontestabile che la Grecia sembrava ormai essersi rassegnata a una sorta di fisiologia del default (del resto, dalla sua indipendenza, nel 1830, ne aveva conosciuto uno per ogni biennio); che dagli anni Settanta aveva aumentato gli occupati al ritmo dell’uno per cento ogni dodici mesi nel settore privato e del quattro in quello pubblico; che al momento di ridefinire le pensioni era riuscita a individuare ben 580 professioni usuranti tra le quali i presentatori tv «a rischio» per l’accumulo di flora batterica nei microfoni.
È vero anche che all’epoca, 2015, dopo l’ammissione di Papandreou, l’Europa le aveva già «prestato» 240 miliardi di euro (anche se poi gran parte di quei soldi erano finiti a rimettere in sesto le banche); che la spesa per gli statali — un settore che nei primi dieci anni del terzo millennio si era espanso a dismisura crescendo del 6,5% l’anno — tale spesa, dicevamo, aveva continuato a crescere; che le retribuzioni e le pensioni minime greche ancora nel 2015 erano più elevate di quelle di alcuni Paesi europei chiamati a partecipare ai programmi di aiuti (una pensione media in Grecia ammontava a tre volte quella dello stesso tipo in Polonia). Veronica De Romanis ha giustamente fatto notare che per andare in soccorso ai Paesi europei in difficoltà (non solo la Grecia, anche Irlanda, Spagna, Portogallo e Cipro) l’Italia ha sborsato circa 60 miliardi di euro, di cui la metà hanno preso la direzione di Atene. E che nelle tavole della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicato nel settembre scorso è evidenziato come nel 2017 il rapporto debito/Pil al lordo degli aiuti si attesti al 131,2 per cento mentre al netto degli aiuti scenda al 127,8. Non poco per un Paese, come il nostro, reduce da un dibattito sulla manovra di Stabilità nel corso del quale si è potuto costatare quanto fossero stretti i margini per portare a termine, con il consenso europeo, la manovra suddetta .
Va aggiunto che persino l’allora leader socialdemocratico nonché vicecancelliere Sigmar Gabriel si disse favorevole a un’uscita della Grecia dall’euro (sia pure solo per una durata di cinque anni). Del resto la mancata percezione della gravità della crisi in Grecia si può intuire da un episodio significativo: nel 2010 Andreas Georgiou, funzionario del Fondo monetario internazionale, era stato richiamato in patria e messo a capo dell’Eistat, l’Istituto di statistica ellenico, per fare chiarezza sulla reale entità del debito; Georgiou aveva rivisto tutti i conti, aveva scoperto che erano stati falsificati e — come era doveroso — ne aveva denunciato pubblicamente la contraffazione. Poi nel 2015, cioè al momento in cui il suo Paese avrebbe dovuto essere stabilmente in cammino sulla via del ravvedimento, per quella sua denuncia Georgiou — sulla base di una norma stabilita all’epoca dei regime dei colonnelli — fu accusato di violazione dei doveri fiduciari e persino di tradimento nei confronti dello Stato; dopodiché per difendersi dovette affrontare spese proibitive e si rese persino necessario aprire, in suo favore, una colletta internazionale.
Così quando proprio in quel 2015 quelli che oggi sono oggetto dell’«autocritica» di Juncker si mostrarono meno indulgenti con la Grecia si giunse a un divorzio tra Tsipras rassegnato a fare i conti con la realtà e il ministro dell’Economia Yanis Varoufakis deciso a insistere nella politica di sfida all’Europa. Tsipras rimase al suo posto, il Paese si rimise in carreggiata e poté conoscere un costante, progressivo allontanamento dall’orlo del precipizio. Quell’atto di Tsipras fu da considerarsi, secondo l’esponente Cdu tedesco Norbert Röttgen, importante come Bad Godesberg, evento che prende il nome della località in cui i socialdemocratici tedeschi alla fine degli anni Cinquanta accantonarono la dottrina marxista.
Fin troppo facile scoprire adesso quanto sia stato poi doloroso per i greci percorrere i sentieri dell’austerità e quanto sarebbe stato meglio per tutti, a cominciare dai greci stessi, se fosse stato possibile incamminarsi per quella via con lo spirito di chi sta compiendo una normale passeggiata. Così come è possibile, guardando all’indietro, identificare i numerosi errori che — come sempre — sono stati compiuti lungo quell’itinerario. Ma è assai pericoloso in un frangente come l’attuale lasciarsi andare a considerazioni come quelle di Juncker. Soprattutto se poi non vengono indicati percorsi alternativi destinati a produrre, tra qualche anno, un minore «rammarico». Per la Grecia e domani, può darsi, anche per l’Italia.

Corriere 21.1.19
Quel cimitero in mare
Affidarsi alla libia è una partita mortale
di Franco Venturini


Una strage nella notte tra venerdì e sabato, ieri altri morti al largo di Misurata, eppure questo Mediterraneo trasformato in cimitero commuove sempre di meno, lascia spazio semmai a una lugubre assuefazione e persino al cinismo di un ministro che ama troppo le battute. Le sembra opportuno, ministro Salvini, dire proprio ieri che «meno persone partono, meno persone muoiono»? Non è nemmeno vero, di questi tempi i migranti diminuiscono e le morti aumentano. Oggi si riunisce a Bruxelles il consiglio Affari generali. Temi in discussione: Venezuela, Siria, Yemen, Repubblica Democratica del Congo. Soltanto domani si parlerà di Africa in una riunione di routine e il ministro Moavero potrà chiedere più aiuti dall’Europa. Ma questa è una Europa che non capisce come i flussi migratori siano per lei l’unico vero pericolo di distruzione. Matteo Orfini, del Pd, dice una cosa giusta: non bisogna affidarsi alla Libia. La critica investe dunque anche il collega Minniti, come investe la linea di Salvini. L’avete sentito, quel grido di un sopravvissuto «meglio morti che in Libia»? Non sappiamo come lì vengono trattati e torturati gli aspiranti migranti? E non sappiamo in che stato è la Libia, non sappiamo che a Tripoli si spara, abbiamo il coraggio di parlare della conferenza di Palermo? La Libia è perduta, e per questo va fermata o almeno isolata dalle vie del Sahel, cosa che i nostri militari contribuiscono a fare nel Niger. Ma bisogna allargare il raggio d’azione.
Il presidente del Parlamento europeo Tajani dice che bisogna intervenire in Africa con un massiccio piano di investimenti. Giusto, anche se per vederne i frutti servirebbero molti anni e nel 2050 l’Africa avrà due miliardi e mezzo di abitanti. Nell’attesa si potrebbe dare la caccia ai basisti che i trafficanti di carne umana hanno in Italia, e modificare le lungaggini giuridiche che ci impediscono di effettuare rimpatri. Non in Libia, però. Basterà ad evitare i morti? No. Ma almeno avremo tentato di fare qualcosa, senza nasconderci dietro la chiusura dei porti.

Corriere 21.1.19
Assistiamo a un’enorme sconfitta civile
di Pierluigi Battista

Malgrado le geremiadi sulla scarsa attenzione dei media lamentata dai miei autorevoli interlocutori, è grazie alle reiterate inchieste di Goffredo Buccini sul Corriere della Sera che possiamo conoscere i dettagli di un apocalittico arretramento dei livelli di civiltà e di dignità umana in un’Italia drammaticamente incapace di una politica dell’acco-glienza e dell’integrazione. Le cifre sono impressionanti. Secondo i dati della Caritas e dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil ammontano a circa centomila (centomila, un numero che lascia sgomenti) gli immigrati che lavorano in una condizione definita «para-schiavistica». Il 70 per cento dei migranti approdato in Italia è rinchiuso in lavori «irregolari» (anche oltre il feno-meno del caporalato in senso stretto, di cui si occupa la legge Martina), e comunque senza contratto. Il 36 per cento vive in catapecchie senza acqua potabile, il 30 senza servizi igienici. Quasi tutti vivono in casolari fatiscenti, baracche, tendopoli, stalle, ammassi di lamiere. Nel Ragusa-no vivono intere famiglie in pros-simità dei campi dove vengono pagati pochi euro al giorno (così si risparmia in trasporti), in capannoni che sorgono accanto al veleno dei bidoni dei fertilizzanti. Si calcolano in circa ottanta i ghetti, un vero e proprio «univer-so concentrazionario» come li ha definiti il collega Buccini, dove sono stipati i nuovi schiavi, in Puglia, in Campania, in Calabria, in Sicilia, e poi nel Metaponto, nel Lazio, nel Nord fino al Piemonte e al Trentino, in condizioni «lon-tane da ogni forma di civiltà», dove, parole di un sacerdote, «il rosso del sangue si mischia al rosso del pomodoro». Di fronte a questa catastrofica sconfitta civile i miei interlocutori si offendono perché non viene messa in luce la loro opera, evidentemente non confortata da risultati accettabili. E nemmeno si accorgono dell’in-differenza distratta con cui la totalità delle forze politiche (e sindacali) ha accolto, se si eccet-tua qualche rituale comunicato che non si nega a nessuno, la meritoria operazione di Polizia che ha sgominato la cupola del caporalato dell’Agro Pontino.

Corriere 21.1.19
L’emergenza e l’analisi
Perché sono riprese le partenze dall’Africa
di Fiorenza Sarzanini


Una forma di pressione forte nei confronti dell’Europa che non sembra più disposta a fornire aiuti e un tentativo di alzare la posta rispetto all’Italia che non ha mantenuto le promesse. Sembra essere questo il motivo che spinge i libici ad allentare ulteriormente i controlli sulle coste e soprattutto ad ignorare le richieste di aiuto che arrivano da chi si trova già in mare. I trafficanti non hanno mai smesso di riempire i barconi di uomini, donne e bambini disposti a tutto pur di fuggire dalla Libia. Prova ne sia che dopo il muro alzato dall’Italia con la chiusura dei porti e le minacce di Matteo Salvini nei confronti delle Ong, sono aumentati gli sbarchi in Spagna. Ma nei mesi scorsi le autorità di Tripoli avevano assicurato di voler effettuare pattugliamenti, quantomeno si erano impegnate a salvare chi si trovava in navigazione e rischiava il naufragio.
Ora tutto è di nuovo cambiato. Le motovedette spesso non intervengono, quando c’è un’emergenza fanno sapere di aver chiesto aiuto ai cargo che si trovano nell’area e si giustificano sostenendo di avere i mezzi in avaria. Un modo che probabilmente serve a ribadire il mancato impegno dell’Italia per mezzi navali, macchine, ambulanze, apparecchiature che dovevano essere consegnati a partire dal 2018 e invece non sono arrivati. Basti pensare che non sono state trasferite nemmeno le dieci barche che il ministro dei Traporti Danilo Toninelli aveva annunciato di aver regalato ai libici nel luglio scorso.
Al di là delle dichiarazioni di circostanza, è fin troppo chiaro che il dialogo con i libici avviato dall’Italia prima dell’arrivo di questo governo per gestire insieme il problema dei migranti a condizione che fosse garantito il rispetto dei diritti umani, è definitivamente interrotto. Roma ha dimostrato di non avere alcuna preoccupazione rispetto al destino degli stranieri che si trovano in Africa e di quelli che lì vengono riportati dopo essere stati soccorsi. E questo evidentemente spinge gli stessi libici a far esplodere nuovamente l’emergenza nel tentativo di poter presentare nuove richieste o comunque ottenere risposte su quelle già presentate. Compresa l’autostrada che deve attraversare l’intero Paese e che è diventata la più forte arma di ricatto sin da quando a palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi e a Tripoli comandava il colonnello Gheddafi.

Corriere 21.1.19
Filippo Grandi
Il commissario dell’Onu: chiudere i porti è un errore da parte di tutti i Paesi
di Paolo Valentino


Ancora non si spegne l’eco delle polemiche per la morte dei 117 migranti di venerdì nel Mediterraneo, che è stato segnalato un altro barcone in avaria con 100 persone. Pressing dell’Italia sui libici. In serata i migranti riportati verso Tripoli. Il M5S accusa la Francia: deve lasciare l’Africa
Cosa vuol dire non pensare solo agli sbarchi?
«Se guardiamo la provenienza di queste persone, vengano da aree di conflitto o da situazioni disastrate, è chiaro che gli interventi necessari sono quelli più a lungo termine. Quando sono venuto in Italia a settembre, il presidente del Consiglio e il ministro Moavero mi hanno parlato giustamente della necessità di costruire un po’ più di aiuto strategico sia politico che economico. Ma non vedo in Europa un vero sforzo in questo senso. Sento dichiarazioni velleitarie. L’Europa è concentrata solo su come utilizzare appunto il prossimo sbarco. È la sola verità in questa lunga vigilia elettorale. E intanto siccome le guerre continuano e i Paesi precipitano in situazioni economiche sempre più drammatiche, i movimenti continuano. Li puoi fermare per un certo momento, com’è successo lo scorso anno quando sono arrivate 23 mila persone, erano più di 100 mila nel 2017, ma il problema rimane».
Perché non basta aver rafforzato la guardia costiera libica?
«Perché la Libia è nel caos. È inevitabile che le misure prese si erodano, in presenza di una situazione politica caotica. Rafforzare la guardia costiera della Libia non è un errore di per sé, ma non può essere l’unica istituzione a venire rafforzata. Il resto continua a non funzionare, lo Stato non esiste, perché nessuno sa come risolvere la crisi politica e la guerra. Noi ci siamo in Libia e per esperienza diretta sappiamo che le bande continuano a fare quello che vogliono».
Lei ha definito «un tragico errore» considerare la riduzione degli sbarchi l’unico criterio del successo nell’affrontare la questione dei rifugiati e dei migranti. Perché?
«Perché l’unico parametro non può essere dire che il governo più bravo è quello che ne fa arrivare di meno, mentre su tutto il resto non c’è azione. Né a monte, guerre, crisi economica, calamità. Né sull’immediato perché rimane irrisolta la questione di avere almeno un meccanismo di sbarchi condiviso. E purtroppo sono convinto che fino alle elezioni europee non se ne parlerà o quasi. Nessuno vuole prendersi il rischio. Lo scandalo è che non sono cose così difficili da gestire con questi numeri. Se non lo facciamo adesso, cosa faremo quando saliranno di nuovo?».
Lei ha lanciato un appello contro la delegittimazione in atto delle Ong. Perché?
L’Europa sembra concentrata soltanto su come utilizzare a fini elettorali
il prossimo sbarco
«Credo sia sbagliato attribuire loro una vera influenza sul numero delle persone che si mettono in mare. È vero invece che quando le Ong possono operare si salvano più vite. Il ritiro di molte di loro ha provocato un aumento dei morti per viaggio: le vittime del 2018 rispetto alle traversate sono più del doppio in percentuale rispetto all’anno prima. E questa è una cosa grave. I salvataggi in mare rimangono una conditio sine qua non».
Il governo italiano invoca proprio il meccanismo di sbarchi cui lei accennava.
«Giusto. Ma finché non lo abbiamo, non mi sembra giusto e umano farla pagare a quelli che traversano».
Si riferisce ai porti italiani che, come ripete il ministro dell’Interno, rimangono chiusi?
«Io capisco che sia un modo per far pressione sugli altri Paesi. E trovo anche giusto che l’Italia protesti la sua relativa solitudine, anche se ora la Spagna potrebbe dire la stessa cosa. E noi come Nazioni Unite siamo al fianco dei Paesi di prima linea. Ma chiudere i porti, rifiutando alle persone di sbarcare, è sbagliato da parte di tutti i Paesi, non solo dell’Italia».
Oggi il ministro di Maio ha sollevato il tema dell’Africa, sia pure in chiave di polemica contro la Francia. Lei stesso ha invocato il tema delle cause.
«L’Europa sta discutendo il suo bilancio programmatico settennale, quello che sarà gestito dalla prossima Commissione europea. È importantissimo che in queste previsioni di spesa ci sia una somma sostanziale per aiutare l’Africa in modo mirato. Nei contesti nei quali operiamo, come la Nigeria del Nord, la situazione è drammatica. Al miglioramento della sicurezza, non sono seguiti investimenti significativi per sviluppare la regione che ha prodotto Boko Haram, il terrorismo e massicci spostamenti di popolazione. Col risultato che ora anche la sicurezza torna a peggiorare».
Serve un meccani-smo di sbarchi condiviso: con questi numeri
non sarebbe una cosa difficile
Il presidente del Consiglio Conte si è detto «scioccato» dall’ultima tragedia.
«Ho apprezzato molto l’umanità delle dichiarazioni del premier, che fra l’altro la scorsa settimana è stato in Niger dove ha visitato anche le nostre strutture, mostrando di capire che è lì che si risolvono i problemi. Non possiamo perdere di vista il fatto che si tratta di persone, non di numeri. Il salvataggio è basilare, il problema non si risolve ostacolando chi si prodiga per salvare vite umane».
Cosa vuol dire non pensare solo agli sbarchi?
«Se guardiamo la provenienza di queste persone, vengano da aree di conflitto o da situazioni disastrate, è chiaro che gli interventi necessari sono quelli più a lungo termine. Quando sono venuto in Italia a settembre, il presidente del Consiglio e il ministro Moavero mi hanno parlato giustamente della necessità di costruire un po’ più di aiuto strategico sia politico che economico. Ma non vedo in Europa un vero sforzo in questo senso. Sento dichiarazioni velleitarie. L’Europa è concentrata solo su come utilizzare appunto il prossimo sbarco. È la sola verità in questa lunga vigilia elettorale. E intanto siccome le guerre continuano e i Paesi precipitano in situazioni economiche sempre più drammatiche, i movimenti continuano. Li puoi fermare per un certo momento, com’è successo lo scorso anno quando sono arrivate 23 mila persone, erano più di 100 mila nel 2017, ma il problema rimane».
Perché non basta aver rafforzato la guardia costiera libica?
«Perché la Libia è nel caos. È inevitabile che le misure prese si erodano, in presenza di una situazione politica caotica. Rafforzare la guardia costiera della Libia non è un errore di per sé, ma non può essere l’unica istituzione a venire rafforzata. Il resto continua a non funzionare, lo Stato non esiste, perché nessuno sa come risolvere la crisi politica e la guerra. Noi ci siamo in Libia e per esperienza diretta sappiamo che le bande continuano a fare quello che vogliono».
Lei ha definito «un tragico errore» considerare la riduzione degli sbarchi l’unico criterio del successo nell’affrontare la questione dei rifugiati e dei migranti. Perché?
«Perché l’unico parametro non può essere dire che il governo più bravo è quello che ne fa arrivare di meno, mentre su tutto il resto non c’è azione. Né a monte, guerre, crisi economica, calamità. Né sull’immediato perché rimane irrisolta la questione di avere almeno un meccanismo di sbarchi condiviso. E purtroppo sono convinto che fino alle elezioni europee non se ne parlerà o quasi. Nessuno vuole prendersi il rischio. Lo scandalo è che non sono cose così difficili da gestire con questi numeri. Se non lo facciamo adesso, cosa faremo quando saliranno di nuovo?».
Lei ha lanciato un appello contro la delegittimazione in atto delle Ong. Perché?
L’Europa sembra concentrata soltanto
su come utilizzare a fini elettorali il prossimo sbarco
«Credo sia sbagliato attribuire loro una vera influenza sul numero delle persone che si mettono in mare. È vero invece che quando le Ong possono operare si salvano più vite. Il ritiro di molte di loro ha provocato un aumento dei morti per viaggio: le vittime del 2018 rispetto alle traversate sono più del doppio in percentuale rispetto all’anno prima. E questa è una cosa grave. I salvataggi in mare rimangono una conditio sine qua non».
Il governo italiano invoca proprio il meccanismo di sbarchi cui lei accennava.
«Giusto. Ma finché non lo abbiamo, non mi sembra giusto e umano farla pagare a quelli che traversano».
Si riferisce ai porti italiani che, come ripete il ministro dell’Interno, rimangono chiusi?
«Io capisco che sia un modo per far pressione sugli altri Paesi. E trovo anche giusto che l’Italia protesti la sua relativa solitudine, anche se ora la Spagna potrebbe dire la stessa cosa. E noi come Nazioni Unite siamo al fianco dei Paesi di prima linea. Ma chiudere i porti, rifiutando alle persone di sbarcare, è sbagliato da parte di tutti i Paesi, non solo dell’Italia».
Oggi il ministro di Maio ha sollevato il tema dell’Africa, sia pure in chiave di polemica contro la Francia. Lei stesso ha invocato il tema delle cause.
«L’Europa sta discutendo il suo bilancio programmatico settennale, quello che sarà gestito dalla prossima Commissione europea. È importantissimo che in queste previsioni di spesa ci sia una somma sostanziale per aiutare l’Africa in modo mirato. Nei contesti nei quali operiamo, come la Nigeria del Nord, la situazione è drammatica. Al miglioramento della sicurezza, non sono seguiti investimenti significativi per sviluppare la regione che ha prodotto Boko Haram, il terrorismo e massicci spostamenti di popolazione. Col risultato che ora anche la sicurezza torna a peggiorare».
Serve un meccani-smo di sbarchi condiviso: con questi numeri
non sarebbe una cosa difficile
Il presidente del Consiglio Conte si è detto «scioccato» dall’ultima tragedia.
«Ho apprezzato molto l’umanità delle dichiarazioni del premier, che fra l’altro la scorsa settimana è stato in Niger dove ha visitato anche le nostre strutture, mostrando di capire che è lì che si risolvono i problemi. Non possiamo perdere di vista il fatto che si tratta di persone, non di numeri. Il salvataggio è basilare, il problema non si risolve ostacolando chi si prodiga per salvare vite umane».

Corriere 21.1.19
La moneta coloniale che divide i francesi
Le parole di Macron al vertice G5 in Mali
«Chi non ci sta la lasci»
di Stefano Montefiori


PARIGI Con la frase sulla moneta africana, Luigi Di Maio interviene in una controversia che da qualche anno è diventata centrale nei rapporti tra la Francia e le sue ex colonie.
Più o meno consapevolmente, il vicepremier italiano si schiera di nuovo con i gilet gialli — stavolta centroafricani — che a fine anno hanno sfilato nella capitale Bangui invocando la fine del franco CFA e quindi, secondo loro, del sistema neocoloniale francese che sfrutta le risorse, frena la crescita e obbliga i giovani a emigrare rischiando la morte.
La questione è molto dibattuta perché i sostenitori del franco CFA lo ritengono invece un fattore di stabilità, che ha aiutato le economie di 14 Paesi africani a non farsi travolgere dall’inflazione e dai mercati paralleli come invece è successo per esempio in Zimbabwe.
Il franco CFA (che in origine stava per Colonie Francesi d’Africa) è stato creato il giorno di Natale 1945 dal generale De Gaulle ed è rimasto in vigore anche dopo l’indipendenza delle colonie.
È usato oggi in otto Paesi dell’Africa occidentale (Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guina-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) con Banca centrale a Dakar, e in sei Paesi dell’Africa centrale (Camerun, Repubblica centrafricana, Congo, Gabon, Guinea equatoriale, Ciad) con Banca centrale a Yaoundè. Il franco CFA aveva parità fissa con il franco francese e adesso è legato all’euro (1 euro = 655,957 FCFA). Il franco CFA è garantito dal Tesoro francese, che in cambio mantiene propri rappresentanti in seno alle due banche centrali. Queste, inoltre, sono tenute a mettere il 50% delle riserve di cambio in un conto speciale del Tesoro francese.
Nel luglio 2017, da poco eletto presidente, Macron ha affrontato la questione durante il vertice G5 Sahel di Bamako, in Mali: «Se non si è felici nella zona franco, la si lascia e si crea la propria moneta come hanno fatto la Mauritania e il Madagascar». Macron si è rivolto poi con franchezza ai leader africani: «Se invece si rimane, bisogna smetterla con le dichiarazioni demagogiche, che fanno del franco CFA il capro espiatorio dei vostri fallimenti politici ed economici, e della Francia la fonte dei vostri problemi». Stessa posizione ribadita nel novembre di quell’anno a uno studente di Ouagadougou, in Burkina Faso: «Non dovete avere un approccio stupidamente post-coloniale o anti-imperialista, non è questo il punto. Se i dirigenti africani vogliono cambiare il perimetro di utilizzo del franco CFA, o cambiare il nome, o sopprimerlo del tutto, sono favorevole. In ogni caso, spetta a loro decidere».
La giornalista francese Fanny Pigeaud e l’economista senegalese Ndongo Samba Sylla hanno pubblicato a settembre il libro «L’arma invisibile della Françafrique: storia del franco CFA». Ndongo Samba Sylla considera la moneta «la causa principale del sottosviluppo». Lo scorso Natale i capi di Stato della CEDEAO (comunità economica dell’Africa occidentale) hanno deciso di lavorare insieme per trovare il nome e il simbolo di una nuova moneta unica che dovrebbe sostituire — non prima del 2020 — il franco CFA.

Corriere 21.1.19
Quei terribili anni Settanta
di Pierluigi Battista


Per capire il furore, anche smisurato, che ha suscitato l’arresto del terrorista Cesare Battisti bisogna comprendere che è il ricordo anche inconscio del peggior decennio della storia repubblicana ad avvelenare tutto. Stentano a capirlo «esistenzialmente» gli amici cari (da Aldo Cazzullo a Nadia Terranova) che non lo hanno vissuto, o perché troppo piccoli o perché ancora non erano nati, ma quel decennio mortifero raggiunse un livello di violenza e di sopraffazione politica sconosciuto in tempo di pace. Non ci furono soltanto gli oltre 370 morti, vittime in quel periodo fosco e lugubre del terrorismo e dello stragismo, e gli oltre mille feriti, e il numero incalcolabile di macchine bruciate, vetrine spaccate, strade disselciate, vite rovinate. Ma c’era il clima quotidiano di violenza, onnipresente e intimidatorio, che si traduceva in un rosario interminabile di agguati notturni, pestaggi, ritorsioni, assalti armati, cruente bravate squadristiche di vario colore che insanguinarono le strade delle città grandi e piccole. I simboli di quegli anni rimangono, malgrado tutti i tentativi di restyling storiografico, le spranghe, le mazze, i bastoni, gli esplosivi, i mitra, le pistole, le dita atteggiate a stilizzare le P38, i tentativi di assalto alle armerie di Bologna, le assemblee in cui si tacitavano con la forza gli interventi di minoranza, i servizi d’ordine con il volto coperto e i caschi in testa, le sirene delle camionette della polizia e delle ambulanze, la sloganistica truculenta e (non sempre solo verbalmente) assassina. Un’atmosfera greve e scoraggiante che si traduceva anche nella sfera della letteratura, della rappresentazione estetica. Per aver affrontato i temi dei sentimenti privati nei suoi «Sillabari», Goffredo Parise fu messo sul banco degli accusati: troppo intimista e politicamente disimpegnato. E persino Elsa Morante non la passò liscia con una critica militare più che militante che l’aveva accusata di non aver proposto nella sua magnifica «Storia» radiose soluzioni politiche alla sofferenza umana. Un decennio che allungò i suoi tentacoli anche nel decennio successivo. Ma l’Italia, complessivamente, seppe voltare pagina e il tasso di violenza rientrò in un alveo meno tragico. Resta la memoria ferita di un decennio terribile, e il furore smisurato che deborda ogni volta che una sua singola pagina, come quella scritta da Battisti, viene riaperta.

Il Fatto 21.1.19
Germania, AfD sotto inchiesta. L’ex leader Petry: “Partito è diventato razzista ed estremista, ma scioglierlo sarà difficile”
L'ex leader di Alternative für Deutschland - ha lasciato il partito dopo essere stata eletta al Bundestag, perché il movimento “liberale e conservatore” che aveva sognato si è trasformato in un movimento “nazionalista e autoritario”. Ora l’Ufficio per la difesa della Costituzione indaga sul suo operato
di Gianni Rosini

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Repubblica
Racconti, di Augias: "Il grande storico Ian Kershaw svela l'enigma Hitler"
Perché un grande paese colto, avanzato e complesso come la Germania ha seguito un nullafacente austriaco? La risposta è in "Hitler", il nuovo saggio dello storico inglese Ian Kershaw edito da Bompiani. Con il passo del romanzo ma una enorme quantità di informazioni, l'autore trova la "molla" che ha portato un omuncolo poco dotato intellettualmente, privo di amicizie e di esperienza di governo, a tenere il mondo con il fiato sospeso per dodici anni, dal '33 al '45. 

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Il Fatto 21.1.19
Verso la Giornata della Memoria c’è chi sdogana temi nazifascisti
di Leonardo Coen


Il genovese Ettore Siegrist, dirigente Ansaldo molto attivo nella Resistenza, fu arrestato nel gennaio del ‘44 e trasferito pochi giorni dopo al lager di Dachau. Vi arrivò il 19 gennaio del 1944 e vi rimase sino alla liberazione del campo, il 29 aprile del 1945. Appena tornato, capì che aveva il dovere di raccontare la terribile esperienza. Temeva che il tempo e l’indifferenza avrebbero dissipato ogni ricordo. Così scelse un titolo emblematico: Dachau: dimenticare sarebbe una colpa. Il monito era diretto innanzitutto ai grandi editori che gli avevano rifiutato il testo, “senza averlo mai letto”. Fu l’Ansaldo stessa, con lungimiranza, a provvedere, incaricando gli stabilimenti grafici Federico Reale di Sampierdarena di stampare.
È una vicenda emblematica, caro Enrico: domenica ricorre il Giorno della Memoria, ogni anno che passa, purtroppo, la memoria dell’Olocausto e delle nefandezze nazifasciste tende a sfumare. Un rischio evidente fin da subito: tanto che Feltrinelli stampò, nel 1956, il polemico Perché gli altri dimenticano di Bruno Piazza. L’anno prima, Primo Levi aveva scritto: “È triste e significativo dover constatare che l’argomento dei campi di sterminio, lungi dall’essere diventato storia, si avvia alla più completa dimenticanza (…): dei lager oggi è indelicato parlarne”.
Nel 1983, intervistato per una ricerca sugli ex deportati piemontesi, Levi disse che la rimozione non era tollerabile: “Se mancherà la nostra testimonianza, in un futuro non lontano le gesta della bestialità nazista, per la loro stessa enormità, potranno essere relegate tra le leggende. Parlare, quindi, bisogna”. La memoria deve sempre essere sollecitata, lottando contro l’oblìo. E contro certi “sdoganamenti” politici. Altrimenti capita di scoprire ambigui e subdoli “ritorni” burocratici. Come la parola “razza”, inserita nel software dei macchinari per la modulistica sanitaria di alcuni ospedali lombardi, tra le generalità che identificano il paziente. Cronaca di giovedì scorso…

Il Fatto 21.1.19
Un antidoto alla rimozione: la Shoah spiegata in 34 pagine
Poche pagine, ma decisive per rompere il silenzio di cui si nutre l’incubo
di Furio Colombo


L’esperimento, anche dal punto di vista letterario, è importante e riuscito: Piccola Autobiografia di mio padre, di Daniel Vogelmann (Giuntina editore), è un libro molto piccolo che racconta una tragedia molto grande. Racconta la Shoah in 34 pagine, attraverso un frammento dell’esperienza delle leggi, della fuga, della cattura, della deportazione, della morte di donna e bambina, del ritorno dell’uomo strappato da tutto e restituito per caso alla vita.
Il libro è breve perché l’uomo sopravvissuto non racconta e non racconterà nulla. A noi giunge la voce del figlio nato dopo lo strappo. Il padre, vissuto dopo la morte, deciso a non esserne il narratore, non aggiunge quasi nulla, e ci sono poche cose che il figlio riesce a ricomporre come “la vita, prima”.
In quel poco c’è rivelazione e conoscenza di ciò che è stato: attesa, timore, ansia, sospetto, speranza sbagliata, paura e, all’improvviso, il confronto irreversibile con il volto vicinissimo del carnefice, che non ha nulla da dire e nulla da risparmiare. La Shoah è questo, La morte generata come pensiero religioso e politico che deve realizzarsi comunque senza che neppure l’assassino voglia una ragione per uccidere, a parte l’identificazione dei milioni che devono essere sterminati.
Questo libro, di poche pagine, ti dice tutto in modo pacato e perentorio perchè nulla può essere omesso, anche se basta un accenno, e tutto è già stato detto anche se non è possibile spiegarlo. Resta un incubo, e l’incubo può essere usato nei due sensi: sapere oppure negare.
La forza del negare sta nell’insensatezza, tanto crudele quanto folle, dell’incubo che non si spiega se non come esplosione del potere nelle mani di persone accecate dal furore del decidere su vita e morte degli altri, persone che sanno come trovare una lista indiscutibile di colpevoli.
Sanno anche di poter contare su immenso silenzio durante e dopo, che rende facile come una malattia il bene organizzato sterminio, e trasforma il “dopo” in sobria e saltuaria partecipazione al dolore, anche con un pò di fastidio.
Ma sempre di ebrei dobbiamo parlare? Il libro di Vogelmann non vi intrattiene a lungo. Solo 34 pagine. C’è tutto.

Corriere 21.1.19
Shoah Il pamphlet di Cynthia Ozick (La nave di Teseo) sottovaluta la forza enorme che emana dal «Diario»
Nessuna tregua per Anne Frank
La vana aggressione negazionista
Polemiche La scrittrice americana contesta una lettura edulcorata e retorica
Ossessioni Non a caso il «Diario» è un bersaglio fisso del furore antisemita
di Pierluigi Battista


Cynthia Ozick sostiene che il grande impatto simbolico del Diario di Anne Frank sia da sempre il frutto di una lettura edulcorata, distorta e persino mistificante di quello straordinario testo così sconvolgente, eppure miseramente ridotto a lettura edificante e consolatoria: una tragedia, ha scritto nel suo pamphlet Di chi è Anne Frank? proposto dalla Nave di Teseo per il pubblico italiano a oltre vent’anni dalla sua pubblicazione sul «New Yorker», che è stata declassata a commedia.
Una frase, proditoriamente estrapolata dal contesto del diario ritrovato ad Amsterdam nell’estate del 1944 da Miep Gies nel nascondiglio dei Frank braccati dai nazisti, è servita secondo Ozick come chiave della grande mistificazione: «Nonostante tutto, credo tuttavia nell’intima bontà dell’uomo». Una breve frase su cui si sono accumulate nel tempo le letture sdolcinate che si susseguono da decenni sull’«idealismo di Anne», sulla «testimonianza dell’indistruttibile nobiltà dell’animo umano», «eterna fonte di coraggio e ispirazione», «un inno alla vita», «una commovente meraviglia dell’infinito spirito umano». Un ribaltamento di significati che ancora oggi, secondo la Ozick, ignora ed elude l’atroce fine di Anne, catturata dagli aguzzini di Hitler e morta di tifo in condizioni disumane. Sorvolando su questa fine, facendo così di quel diario una lacrimevole favola per bambini, la storia di Anne Frank, conclude la Ozick, «è stata censurata, tramutata, tradotta, ridotta: è stata resa infantile, americana, uniforme, sentimentale; è stata falsificata, volgarizzata e, di fatto, spudoratamente e arrogantemente negata».
La requisitoria di Cynthia Ozick contro chi (a cominciare, purtroppo, dal padre Otto) avrebbe reso morbida e dolce la storia tragica di Anne Frank è puntuale, appassionata, ricca di dati di fatto, secondo la migliore tradizione della saggistica polemica che non disdegna le forme dell’invettiva elegante, della denuncia documentata, della demolizione dei luoghi comuni e delle interpretazioni di comodo.
Eppure in questa poderosa polemica sembra sfuggire il valore fortissimo che ancora oggi, proprio nei giorni in cui si celebra la memoria della Shoah, emana dalle pagine vergate in condizioni impossibili da una ragazzina ebrea ricercata da chi la voleva mandare al massacro insieme a tutta la famiglia. E infatti attorno al Diario si sono formate ostilità paurose, ossessioni, riti e liturgie profanatrici per indebolire la forza di quel messaggio.
Basti dire che la stagione negazionista, il frastuono neonazista camuffato da polemica storiografica che vuole disintegrare la «menzogna di Auschwitz» ha mosso proprio dalle pagine di Anne Frank suoi primi passi, proprio con il tentativo disperato di minare la credibilità dei superstiti della Shoah. Se, come sostenevano i negazionisti, il testo del diario è stato corretto e manipolato dal padre Otto (che aveva censurato le parti del diario dove sua figlia Anne attaccava la madre e quelle con più espliciti riferimenti ai turbamenti sessuali di una ragazza avviata verso l’adolescenza), allora vuol dire che un pilastro del racconto sull’Olocausto viene spazzato via. Perché fu proprio la trasposizione prima teatrale poi cinematografica (pur con tutte le interpolazioni arbitrarie dettagliatamente ricostruite in questo pamphlet) a segnare una svolta nella sensibilità contemporanea sui temi della Shoah.
La storia di quella famiglia nascosta, la vita quotidiana di una ragazzina perseguitata, la concreta, plastica rappresentazione di una vita ingiustamente stroncata, con tutte le palpitazioni, i turbamenti, le debolezze, le speranze e la disperazione di una giovane donna angariata e condannata a un destino spietato, è stata proprio questa storia ad aver cambiato l’atteggiamento nei confronti della Shoah, una tragedia che venne nascosta e avvolta in una nuvola di doloroso imbarazzo reticente negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra.
Basti ricordare il rifiuto di pubblicare da Einaudi Se questo è un uomo di Primo Levi, motivato dalla stanchezza che l’opinione pubblica, a tragedia appena conclusa e con una guerra che aveva provocato milioni di morti, si riteneva provasse per lo sterminio del popolo ebraico. O la stessa freddezza del neonato Stato di Israele in cui (come ha raccontato Tom Segev nel libro Il settimo milione) la glorificazione del nuovo ebreo, cresciuto nel kibbutz e nella religione del duro lavoro protetto dalle armi dell’esercito popolare, doveva mettere nell’ombra la vergogna degli ebrei rimasti in Europa e condotti «al macello» senza reagire, a parte l’eroismo del Ghetto di Varsavia. Fu quel diario a risvegliare una memoria intorpidita e sulla difensiva.
Lungi dal fornire dello sterminio l’immagine edulcorata appassionatamente denunciata da Cynthia Ozick, i fogli scritti da Anne Frank sono la testimonianza ineludibile della mostruosità della Shoah. Che infatti fanno infuriare gli antisemiti, come i neonazisti che a Tokio, in un raid coordinato in varie biblioteche, hanno lacerato con i temperini numerose copie del Diario. O come gli energumeni ignoranti che in uno stadio italiano hanno creduto di offendere gli avversari paragonandoli ad Anne Frank: loro immaginavano che fosse un insulto perché da qualche parte erano stati raggiunti dal messaggio secondo cui quel diario e quella ragazza contenessero qualcosa di pericoloso per i loro pregiudizi.
L’interminabile «caso Anne Frank» non sarà spento fino a che esisteranno sacche di resistenza alla verità terribile di Auschwitz. Un libro che ha sconvolto la sensibilità contemporanea, ed è questo che alimenta i furori di un «caso» destinato ancora ad agitare le nostre passioni.

Il Fatto 21.1.19
Nuto, il partigiano scrittore sempre dalla parte dei vinti
Al via le iniziative per i cento anni dalla nascita di Revelli: sopravvissuto al disastro italiano sul Don nel 1943, si unì alla Resistenza e poi raccontò nei libri le vittime della guerra e gli esclusi dallo sviluppo
di Massimo Novelli


“Ho sempre lavorato solo sulla memoria, prima sulla mia, poi ho dato la parola agli altri, a quelli che non avevano gli strumenti per dire e raccontarsi.” Così Nuto Revelli, nel luglio del 1999, dalla quiete di un albergo di Verduno, nelle Langhe, in occasione del suo ottantesimo compleanno riassumeva il senso della sua esistenza.
Lui amava rammentare di avere avuto dieci vite. Era sopravvissuto alle steppe della Russia, alla guerra dei poveri soldati italiani mandati a morire da Mussolini con le scarpe di cartone nella neve; una guerra a cui aveva preso parte da ufficiale della divisione Tridentina. Con il ricordo degli alpini caduti sul Don, spesso uccisi dagli stessi alleati tedeschi, e con il desiderio bruciante di vendicarli, non aveva esitato nel settembre del 1943 a salire sulle montagne della sua Cuneo, per combattere i nazifascisti, con le prime bande partigiane.
Dopo la Liberazione, l’ex ufficiale delle penne nere in Russia, il comandante partigiano di Giustizia e Libertà, aveva continuato la Resistenza e l’affermazione dei suoi valori raccogliendo le testimonianze e i racconti degli umiliati e degli offesi, dei senza storia, degli uomini e delle donne delle valli cuneesi scarnificate dalla guerra, dalla fame, dall’emigrazione, dal boom economico che spopolò le montagne e le colline. Erano i vinti, insomma, della guerra e del dopoguerra. Quei vinti che hanno popolato tutti i suoi libri, pubblicati da Einaudi: da La guerra dei poveri a Mai tardi, L’ultimo fronte, Il mondo dei vinti, L’anello forte, Il prete giusto.
Nuto Revelli è morto a Cuneo il 5 febbraio del 2004. E a Cuneo era nato il 21 luglio del 1919, cento anni fa. Le iniziative per il centenario, che saranno promosse attraverso il comitato presieduto dal professore Gastone Cottino e la Fondazione Nuto Revelli di Cuneo, non si limitano però soltanto a ricordare Nuto. Si collegano invece a due suoi grandi amici: Primo Levi, del quale a sua volta ricorre il centenario della nascita (il 31 luglio del 1919) e Mario Rigoni Stern (nato nel 1921 e scomparso nel 2008).
È un legame stretto “quello dei tre amici – spiegano il sociologo Marco Revelli, figlio di Nuto, e la saggista Antonella Tarpino, curatrice di una raccolta di inediti revelliani (Il popolo che manca) – che è cementato dal comune odio per il fascismo, dal bisogno di raccontare per una sorta di dovere morale verso chi non ritornò dall’orrore dei lager nazisti e dalla guerra, e dall’amore per la montagna”.
In una poesia dedicata proprio a Mario e a Nuto, Primo Levi descrive splendidamente il loro legame indistruttibile, l’amicizia nata tra chi non si fece pietrificare dalla Medusa del nazifascsmo, della guerra fascista, dei campi di sterminio: “Ho due fratelli con molta vita alle spalle / nati all’ombra delle montagne. / Hanno imparato l’indignazione / nella neve di un Paese lontano, / e hanno scritto libri non inutili. / Come me hanno tollerato, la vista / di Medusa, che non li ha impietriti. / Non si sono lasciati impietrire / dalla lenta nevicata dei giorni”.
Le manifestazioni in memoria di Nuto e dei “tre amici – dice Marco Revelli – avranno come epicentro Cuneo, la città da cui mio padre non si allontanò mai, con estensioni a Torino, la città di Levi, e Asiago, la città di Rigoni Stern”. Per quest’anno, ma anche fino al 2021, anno del centenario della nascita di Mario Rigoni Stern, sono in programma mostre, dibattiti, ristampe dei libri di Nuto con nuove introduzioni, probabilmente un album di testi e di immagini sui “tre amici”, e convegni.
Uno di questi ultimi, a Cuneo, avrà al centro, prosegue il figlio di Nuto, “ciò che innervò le esistenze di mio padre, di Primo Levi e di Mario Rigoni Stern, i tre che non si fecero pietrificare dalla Gorgone: dunque la guerra fascista e il riscatto con la guerra di Liberazione, il dovere di raccontare, e la montagna, a cominciare da quella del Mondo dei vinti e delle donne dell’Anello forte, le vittime delle guerre, la prima e la seconda, e del dopoguerra: i vinti sacrificati al dio sviluppo”.
Per loro, dopo la fine della guerra, Nuto Revelli aveva cominciato a scrivere. “All’inizio – disse in un’intervista – sentii il bisogno di gridare la mia verità sulla guerra, sulla Russia, perché pochissimi conoscevano gli elementi di quella storia. Dopo ho voluto parlare degli altri, dei soldati italiani che erano stati prigionieri in Russia, dell’esodo immenso dalle zone povere delle montagne, in quegli anni di industrializzazione caotica, di contadini che conobbero le buste paga dell’industria”.
Rimuovere la memoria, ripeteva Nuto, “vuol dire cadere nell’ignoranza totale. Capisco che i giovani d’oggi, per loro fortuna, non possono contare sulle esperienze che abbiamo avuto noi. Ma se si vuol capire, gli strumenti ci sono. Altrimenti, questi ragazzi ripartiranno da zero: ripetendo esperienze che noi abbiamo già vissuto”.
Nel 1999, per i suoi ottant’anni, l’Università di Torino gli conferì la laurea honoris causa. Nel discorso che pronunciò, Revelli volle ritornare ancora sul binomio indissolubile memoria-libertà.
Parlando delle storie raccolte e narrate nel Mondo dei vinti e nell’Anello forte, affermò di avere voluto “dare voce a chi era costretto, ancora una volta, a subire le scelte sbagliate degli ‘altri’. Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della ‘generazione del littorio’. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta”.

Il Fatto 21.1.19
Il congresso più difficile di una Cgil spaccata
Da domani parte il congresso Cgil per scegliere il nuovo segretario. I due sfidanti sono Maurizio Landini e Vincenzo Colla
di Salvatore Cannavò


Lo scontro è sordo, sotto traccia. Ma c’è e segna in profondità il passaggio più delicato. Che potrebbe vedere o meno, venerdì prossimo, Maurizio Landini alla guida del più grande sindacato italiano, la Cgil. La sua elezione sarebbe una novità rilevante, se non altro in termini di immagine. La sconfitta sarebbe una novità ancora più grande, perché si porterebbe dietro l’intero gruppo dirigente.
Lo scontro interno.Le cronache della vigilia, il congresso inizia domani, parlano di una frattura netta tra l’ex segretario Fiom e l’ex segretario dell’Emilia Romagna, Vincenzo Colla, che si oppone alla proposta avanzata dal segretario generale uscente, Susanna Camusso. Gli uomini del primo vantano una maggioranza dei delegati al congresso che oscilla tra il 57 e il 62%, il secondo è convinto di avere un vantaggio di circa 50 delegati su 868. Nel panorama della sinistra politica e sociale, dunque, anche la Cgil si presenta con una crisi interna e una spaccatura inedita. Mai si era rischiato di veder concludere un congresso sindacale con due platee così contrapposte. La Cgil è stata smpre plurale, ma anche quando ci sono stati conflitti aspri, la mediazione interna al gruppo dirigente li ha gestiti. Come è accaduto con la successione a Bruno Trentin nel 1994 quando una consultazione tra i dirigenti fece emergere il nome di Sergio Cofferati contro quello di Alfiero Grandi.
Il conflitto, del resto, riguarda solo il gruppo dirigente perché nelle 46.788 assemblee di base il tema della futura segreteria non è mai stato discusso. Anzi, entrambi gli sfidanti hanno votato a maggioranza bulgara lo stesso documento che ha ottenuto il 98% circa dei voti con il 2% alla piccola opposizione di “Riconquistiamo tutto” rappresentato da Eliana Como. Un problema evidente di trasparenza della discussione.
Le regole interne alla Cgil sono poi ancora quelle della sinistra tradizionale: una volta decideva tutto il Comitato centrale, ora deciderà tutto una Assemblea generale di circa 200 membri che verrà eletta al Congresso di Bari – giovedì prossimo – e che avrà la parola decisiva sul segretario. Quell’Assemblea potrebbe però essere eletta da due liste contrapposte guidate da Landini e Colla, dando rappresentazione plastica alla divisione. A meno di un accordo in extremis, magari sulla composizione della futura segreteria o di incarichi organizzativi.
L’avversario.La scelta di opporsi alla proposta Landini coagula umori e tendenze diverse. C’è chi non si è dimenticato gli scontri interni, ad esempio sul caso Fiat, e le accuse che l’ex segretario Fiom lanciava all’allora gruppo dirigente. A ricordare la portata di queste divergenze è stato il segretario della categoria Tessili e Chimici, la Filtcem, Emilio Miceli. C’è poi una impostazione sindacale più pragmatica, interpretata da Colla, orientata al “governo dei processi”, a un rapporto anche conflittuale con le imprese, ma finalizzato ad accordarsi per gestire processi di innovazione o anche di sostegno a opere come il Tav. Prevale poi la preoccupazione di salvaguardare la Cgil dai rischi di una gestione “movimentista”, come la Fiom è sempre stata, espressione che, nel linguaggio di oggi, può far rima con “populista”. C’è, insomma, un gruppo dirigente che vuole evitare quel salto nel buio che Landini, ai suoi occhi, rappresenta. E poi c’è, tesi sostenuta nei piani alti di Corso d’Italia, il nodo della politica.
La Cgil che si oppone a Landini lo fa anche perché si sente, pur rivendicando un’autonomia sindacale e sociale, parte di una certa sinistra. “Sogno un partito prograssista” dice spesso Colla, da intendersi come interlocutore politico e parlamentare. E però questa posizione viene vista dagli avvesari come un mettersi a disposizione di un nuovo Pd, de-renzizzato. È l’accusa, sia pure tra le righe, che viene rivolta, ad esempio, a Ivan Pedretti, segretario dello Spi, il sindacato dei Pensionati, la principale categoria che si oppone a Landini e che rappresenta il 48% degli iscritti (anche se, per una convenzione interna, conta solo il 25% negli organismi confederali). Landini, da questo punto di vista, non garantisce l’ancoraggio giusto, è uno che ama sempre il nuovo nelle varie forme in cui si presenta, dicono i suoi detrattori: la sinistra di Sel, ma anche il M5S o, ricordano i più maliziosi, nel punto di più aspro conflitto con Camusso, un rapporto anche con Matteo Renzi.
La strana coppia. La candidatura Landini, invece, nasce nel corso di una fase nuova del sindacato. Innanzitutto, proprio lo scontro con il Pd renziano e la difesa dell’articolo 18 quando per la prima volta la Cgil ha scioperato contro il governo “amico”. La scelta di costruire uno “statuto dei lavori” raccogliendo le firme e creando un profilo indipendente rispetto alla sinistra politica ha consentito così, alla “strana coppia” Landini-Camusso, di chiudere una contrapposizione storica. Sembrano lontani i tempi in cui, nella Fiom di Claudio Sabattini, Camusso faceva parte della corrente socialista che animava i “riformisti” contro i massimalisti guidati dall’ex leader torinese e rappresentati nel tempo da figure come Fausto Bertinotti, Gianni Rinaldini fino allo stesso Landini. Quella storia si chiude e la Cgil oggi si presenta come un “animale nuovo” in cui la segreteria Landini potrebbe rendere visibile a tutti una novità che è già avvenuta nella vita interna. Non a caso tra le idee che circolano in queste ore c’è anche l’ipotesi di un incarico di rilievo alla stessa Camusso.
Resta la crisi. Ma in ogni caso non sarà una passeggiata, perché la crisi del sindacato è notevole. Non avere più la sponda della concertazione significa dover conquistare risultati con le lotte e gli scioperi. Due beni rari nel conflitto sociale del nostro tempo. La Cgil, come gli altri sindacati, poi, nonostante slanci generosi e lotte indubbie, ha perso gran parte della sua presa nel mondo del lavoro, è chiaramente un sindacato di funzionari, vive di strumenti per nulla conflittuali, come gli enti bilaterali o le strutture di servizio come i Caf e i Patronati.
Landini è stato individuato anche per l’appeal mediatico e il carisma popolare. Requisiti che fanno dire ai suoi oppositori che la Cgil rischia di affidarsi “all’uomo solo al comando”.
Ma nella Cgil gira anche un altro detto: “Un segretario di categoria è un Papa, un segretario confederale è un cardinale”. Se il primo fa un po’ come vuole, il secondo deve confrontarsi con il gruppo dirigente. E sarà probabilmente così anche per Landini che, non a caso, confermerà l’intera segreteria uscente scelta da Camusso. Ma, soprattutto, se eletto, dovrà misurarsi con la prova del confronto-scontro con il governo. E con i suoi elettori, molti dei quali hanno la tessera Cgil oppure hanno guardato a lui come a un riferimento possibile. Lo scontro se ci sarà – finora non c’è stato – non sarà indolore e potrebbe innescare una dinamica nuova. Ma questa è un’altra storia. Per ora occorre vedere come andrà a finire il congresso.

Il Fatto 21.1.19
Sergio Cofferati:
Con Maurizio e una linea unitaria torneremo a riempire le piazze


Al congresso sostengo Maurizio Landini, ma spero che questa fase si chiuda con un quadro unitario, un gruppo dirigente condiviso che, dopo la corsa, sappia lavorare a un progetto comune.
Abbiamo un’occasione unica, perché nella mia esperienza congressuale non ricordo altre circostanze in cui ci sia stato un documento condiviso dal 98 per cento degli scritti, come in questo caso. Il problema, dopo la scelta del segretario, sarà dare visibilità a questo documento anche fuori dal sindacato. E in questo la capacità comunicativa di Ladini potrebbe aiutarci. Maurizio, poi, oltre a un buon rapporto con gli iscritti, ha dalla sua solide relazioni con la rappresentanza sociale: associazioni, organizzazioni non governative, movimenti civici.
Con i problemi enormi che ha questo Paese – dalle disuguaglianze alla mancanza di diritti – e con le politiche inefficaci di questi anni, credo checi siano le condizioni per tornare a quella stagione del sindacato identificata con le grandi lotte e i milioni di persone in piazza. Questo deve essere l’obiettivo del nuovo segretario. Sarà fondamentale andare in quella direzione tutti insieme, in un momento in cui l’intermediazione è in crisi e il sindacato non gode di grande simpatia: dobbiamo far capire che in una democrazia i corpi intermedi sono fondamentali. Ma non solo per i lavoratori, che noi tuteliamo, ma anche per le imprese e per i governi. Chi non li valorizza commette un grave errore: la contrapposizione tra le parti sociali, dal Dopoguerra in avanti, ha sempre portato momenti di rottura, ma che poi hanno consentito un’innovazione, un passo in avanti.

Repubblica 21.1.19
Intervista a Maurizio Landini
Ex leader della Fiom, è uno dei candidati alla successione di Camusso alla guida della Cgil
"Che errore voler mescolare lotta alla povertà e sostegno al lavoro La Cgil non si spaccherà sul leader"
intervista di Roberto Mania


ROMA «Una manovra miope, dal carattere recessivo con alcune derive pericolose sul fronte del lavoro». Maurizio Landini, 57 anni, parla così della legge di Bilancio e dei suoi provvedimenti cardine, reddito di cittadinanza e "quota cento" per le pensioni. Ne parla alla vigilia del diciottesimo congresso della Cgil che giovedì, a Bari, potrebbe eleggerlo nuovo segretario generale al posto di Susanna Camusso.
Perché questo giudizio così negativo? L’abbassamento dell’età pensionabile così come una misura per contrastare la povertà sono sempre state tra le richieste dei sindacati e anche della sinistra politica.
«Gli interventi sono sbagliati nel merito ma anche nel metodo perché non si può convocare i sindacati a cose fatte. Con tutti i limiti che possono avere Cgil, Cisl e Uil rappresentano pur sempre 12 milioni di persone di cui andrebbe tenuto conto. È un modo di procedere che non porta molto lontano oltre a produrre una riduzione dello spazio democratico».
Veniamo al merito: perché no a quota cento?
«Perché non è quota cento, è uno spot elettorale. Certo — e noi non siamo contrari — ci sarà chi potrà lasciare il lavoro prima dell’età pensionabile, ma solo con 62 anni e 38 di contributi, punto. Alla fine riguarderà soprattutto uomini delle regioni settentrionali che hanno lavorato in grandi imprese o nel pubblico impiego. Saranno escluse le donne e le fasce di lavoratori più deboli. Il tutto viene spacciato come l’abolizione della legge Fornero mentre non è vero: quella legge resta sostanzialmente intatta».
Perché critica anche il reddito di cittadinanza mentre da segretario della Fiom aveva auspicato una misura per sostenere il reddito delle persone povere?
«Perché mescola due cose che andrebbero affrontate separatamente: il contrasto alla povertà e le politiche per il lavoro.
Ne è uscito fuori uno strumento ibrido, di difficile gestione che determinerà molta confusione.
Pensare che la povertà si combatta con il lavoro è una semplificazione che non vede la realtà fatta, purtroppo, di tanta gente che pur lavorando si trova in condizioni di povertà. Secondo noi bisognava rafforzare il Rei (il reddito di inclusione), mantenendo il coinvolgimento dei Comuni. Oggi si affida tutto ai centri per l’impiego, che sono sottorganico, pieni di lavoratori precari ai quali si aggiungeranno i cosiddetti navigator, assunti con contratto di collaborazione. Non mi pare una genialata. E poi l’idea di condizionare l’erogazione del reddito al fatto di essere residente da almeno dieci anni in Italia non mi sembra rispetti i principi della Costituzione».
Chi riceverà il reddito dovrà accettare un percorso che dovrebbe portarlo al lavoro.
Perché non va bene?
«Perché il lavoro non lo creano i centri per l’impiego: servono gli investimenti, pubblici e privati».
Già, ma stiamo entrando in una nuova fase recessiva. Lei condivide le previsioni della Banca d’Italia secondo cui Pil si ridurrà di quasi mezzo punto quest’anno?
«Non ho dubbi che lo scenario sia quello. Stanno frenando tutti: dagli Stati Uniti all’Europa. Da noi la situazione è peggiore perché cresciamo da anni meno degli altri, perché abbiamo meno innovazione e meno produttività, perché abbiamo più precarietà e più disoccupazione giovanile, perché si sono accresciute le diseguaglianze sociali e territoriali. Avremmo bisogno di più investimenti, dopo il crollo del 30% tra il 2008 e il 2018, e invece il governo li ha ridotti. È una scelta davvero regressiva. A parte il contesto internazionale c’è una responsabilità diretta di questo governo che fa propaganda e non pensa al futuro dei giovani. Contro queste politiche e a sostegno delle nostre proposte anche sul fisco, il sud, il pubblico, saremo in piazza insieme a Cisl e Uil, il 9 febbraio».
C’è chi dice che lei abbia strizzato l’occhio al M5S, ora al governo, criticando senza sconti i governi di centro sinistra. Cosa replica?
«Che io in tasca ho solo due tessere: quella dei partigiani dell’Anpi e quella della Cgil. Per il resto il mio mestiere è fare il sindacalista per il quale non ci sono governi amici o nemici. La Cgil ha criticato il Jobs Act perché cancellava i diritti dei lavoratori. Non abbiamo cambiato idea. E abbiamo compreso ben prima del 4 marzo lo scollamento tra il mondo del lavoro e la sinistra che tradizionalmente lo aveva rappresentato. Ma questo governo, al di là degli annunci, ha lasciato il Jobs Act com’era, l’articolo 18 non è stato ripristinato».
Da domani si svolgerà il congresso della Cgil. Lei è stato candidato alla segreteria generale dopo una decisione presa a maggioranza dalla segreteria confederale su proposta di Susanna Camusso.
Una scelta contrastata che ha portato Vincenzo Colla a candidarsi in alternativa. Il paradosso è che entrambi sostenete la mozione che ha ottenuto il 98% dei consensi.
Come finirà il congresso?
«Intanto vorrei sottolineare che in una stagione in cui si pensa di sostituire la democrazia con i social media, la Cgil ha dato dimostrazione di una grande operazione di democrazia partecipata: otto mesi di confronto, migliaia di congressi che hanno coinvolto tutte le strutture che rappresentano i nostri 5,5 milioni di iscritti. Ne è emersa una Cgil unita, con una sua visione autonoma e un suo progetto per il Paese. Abbiamo rinnovato i gruppi dirigenti senza spaccature, la stessa cosa accadrà a Bari. Il segretario generale è uno solo. Non ci saranno rotture per scegliere chi prenderà il posto di Susanna Camusso che ha guidato con capacità la Cgil in una fase molto complicata. Troveremo tutti insieme la soluzione, con intelligenza e nel rispetto delle nostre regole democratiche».
Chi farà il passo indietro, lei o Colla?
«Non ci sarà bisogno di passi indietro. La Cgil è un’organizzazione collettiva, non ci sono in ballo ambizioni personali.
Noi tutti siamo a disposizione di un progetto collettivo per l’emancipazione del mondo del lavoro e per l’estensione della democrazia».

Il Fatto 21.1.19
Contratti scaduti, medici in sciopero
di Chiara Daina


La lotta per la dignità della professione medica è una lotta per tutti. “Per mantenere il nostro sistema sanitario equo, solidale e universale servono nuove assunzioni e vanno rispettati i diritti dei lavoratori, che altrimenti fuggiranno verso il privato”: Carlo Palermo, segretario nazionale di Anaao, il più grande sindacato medico italiano, supplica il governo di prendere di petto la crisi del comparto prima che sia troppo tardi. Il 17 gennaio centinaia di camici bianchi con un sit-in sotto il palazzo del ministero della Pubblica amministrazione hanno chiesto di abrogare il comma 687 della manovra che blocca i tavoli contrattuali. E venerdì 25 ci sarà un altro sciopero nazionale. Centocinquantamila medici hanno un contratto scaduto da dieci anni. Di questi, 80mila hanno gli scatti di carriera bloccati. La proposta di Anaao è quella di usare la Ria (retribuzione individuale di anzianità), che con la legge 122/2010 non è più stata trasferita nei fondi accessori destinati agli avanzamenti professionali e per tamponare i disagi: “Con questi soldi si possono pagare gli straordinari, incrementare le indennità notturne e festive, e ristabilire gli scatti di carriera”.

Il Fatto 21.1.19
Matera resti così com’è: la modernità la rovinerebbe
La ballata dei sassi – È il titolo di un libro, che ha Matera come cornice, “dove la pietra palpita di un ritmo senza tempo”. L’autore è Carlos Solito, già fotografo e regista: gli scatti, che pubblichiamo in questa pagina, sono parte del suo progetto “Mter(i)a P(i)etra” che ha inaugurato ieri – prima mostra di Matera Capitale Europea della Cultura – a Palazzo Lanfranchi


La posta in gioco è davvero alta. E non certo per la retorica che si porta dietro la “capitale europea della cultura”: un carrozzone che bisognerebbe, anzi, avere il coraggio di ridiscutere profondamente. No: la posta in gioco è Matera stessa. Ciò che rappresenta: perché Matera, da quando è comparsa all’orizzonte della cultura italiana (dopo il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, 1945), è stata un antidoto all’opinione dominante, a ciò che era successo alle nostre città, ad un rapporto malato con il passato e con il paesaggio.
Matera è, come per incanto, il mondo al contrario: nel 1703 l’abate Giovan Battista Pacichelli la descriveva “di aspetto curiosissimo, situata in tre valli profonde nelle quali, con artificio e su la pietra nativa e asciutta, seggono le chiese sovra le case, e quelle pendono sotto a queste, confondendo i vivi e i morti la stanza. I lumi notturni la fan parere un cielo disceso, e stellato”. I vivi insieme con i morti, il cielo al posto della terra (la povertà come forza, la comunione con la terra come progetto).
Un messaggio universale, come dimostra la bella esposizione fotografica in cui Carlos Solito mette efficacemente in parallelo Matera e Petra, in Giordania: un discorso per immagini sul legame tra pietre e popolo. Mentre l’opulenza artistica di Firenze o Venezia hanno portato al patrimonio artistico come bene di consumo per i turisti, modello che ha finito con inghiottirle e distruggerle, Matera potrebbe imporre il modello opposto. Non diventare mainstream, ma cambiare il mainstream.
Se invece questo 2019 ce la restituisse “normalizzata” (gentrificata, globalizzata, macdonaldizzata…) sarebbe una sconfitta terribile. Viceversa, è possibile che Matera ci apra gli occhi: cioè che permetta al resto di Italia di capire cos’è, la cultura. Qualcosa che non ha a che fare col circo degli eventi, ma con la coltivazione della nostra umanità. Con il pieno sviluppo della persona umana, per dirla con la Costituzione. È su questo metro che bisognerà misurare i frutti dell’anno che si apre: non con i numeri al botteghino, ma con il contributo alla ri-umanizzazione del Paese.
Ero a Matera nel 2013, alla festa per la presentazione del Progetto. Ricordo una rappresentazione teatrale in cui un gruppo di veri braccianti immigrati, tutti africani, parlava e agiva come gli avi dei materani: rendendo così evidente che “loro” fanno oggi lo stesso lavoro e hanno gli stessi, pochissimi, diritti di “noi” ieri. Loro siamo noi. Se Matera sarà capace di ricordare all’Italia verità come questa, sarà una vera capitale della cultura.
Quando uscì il Cristo si è fermato a Eboli, la questione di Matera scoppiò nei palazzi della capitale politica: “Posso attestare che per un pezzo – scrisse Carlo Ludovico Ragghianti – a Montecitorio non si parlò d’altro che del libro di Levi: argomento, si badi, anche agli effetti politici più vivo e produttivo di altri apparentemente più intrinseci. Penso che sarebbe del resto un bel segno di avanzamento una discussione parlamentare fondata sul messaggio umano di un libro di poesia o di un’opera d’arte”.
Certo, sarebbe ingenuo pensare che Matera 2019 faccia capire – che so – a un Bonafede perché un omicida detenuto non cessa di essere persona e da persona vada trattato. O a un Salvini perché l’eventuale referendum sul Tav dovrebbe esser votato in Val di Susa o non in tutta Italia: per non fare che due esempi che hanno a che fare con l’idea di umanità, e con quella di comunità territoriale.
Forse Matera 2019 non avrà questo potere: ma questo è il dibattito che dovrebbe suscitare. La parte migliore della città e i responsabili del Progetto sono perfettamente consapevoli del rischio e delle possibilità. L’ansia e i timori del sindaco (Raffaele De Ruggieri, che alla fine degli anni cinquanta fondò la mitica associazione La Scaletta e fu il primo materano che tornò a comprar casa nei Sassi) sono fondati, e sono quelli di tutti noi. Ma la via migliore per vincere la partita è giocare all’attacco, facendo della diversità una strategia, dei limiti (di infrastrutture, trasporti, modernità) una forza.
Come ha ben scritto Nicola Lagioia su Repubblica, l’obiettivo è fare di Matera un luogo capace di elaborare una visione diversa: non uno dei mille empori di consumo culturale, ma un centro di produzione originale. Dove si pensi un altro modo di vivere ed abitare. Insomma, un processo che faccia assomigliare la modernità a Matera, e non il contrario. Per dirla con Agostino Riitano (coautore del Progetto e tra i responsabili della sua attuazione), lo scopo è “creare un sistema culturale che, anche dopo l’evento, possa continuare a prosperare, con un bagaglio di strumenti, relazioni e linguaggi che rendano il Sud uno dei territori più attraenti per produzione culturale e l’innovazione sociale europea”.
Per questo non ci si è limitati a comprare eventi sul mercato internazionale, come si fa di solito in questi casi, ma si è affidato metà del cartellone a imprese culturali lucane: e non gettando loro addosso finanziamenti a pioggia, ma costruendo insieme i progetti, e commisurando i fondi. Per evitare che all’allegra alluvione di quattrini segua il deserto, come quasi sempre finisce in questi casi.
Come vincere la scommessa? “Il solo modo – ha scritto ancora Levi – sarebbe di trovare quella parola che, suscitando forze nuove, buttasse all’aria la scacchiera e trasformasse il gioco in una cosa viva. Sarebbe stata detta, questa parola”. Noi lo speriamo.

La Stampa 21.1.19
Firenze
Mostro, incubo senza fine
Due nuovi indagati e Firenze rivive l’orrore
di Lodovico Poletto


Se il primo non è un delitto del mostro allora gli anni sono soltanto 44. E la metà delle persone che adesso scavano – ancora – su questa storia erano poco più che bambini, allora. Piove a Firenze; piove a Vicchio e sui monti della Calvana, dove c’è una vedova che, da sola, piange la sua bimba e il suo povero marito. Piove a Scandicci, terra di misteri e sangue. Il mostro di Firenze è ancora lì, fantasma di questa terra di omicidi in serie, nelle campagne della Toscana.
Nomi e soprannomi
Quarantaquattro anni dopo quella prima maledetta storia, la faccia del mostro non è ancora stata del tutto disegnata. Anzi, dei mostri, perché ormai è chiaro che da queste parti chi ammazzava coppiette in mezzo ai boschi non era un mostro soltanto. Erano in tanti.
E qualcuno l’hanno preso. C’era Pietro Pacciani che chiamavano il Vampa, «perché s’avvampava subito e diventava una bestia», c’era il Lotti, detto “katanga”, e c’era anche il Vanni . E poi c’erano gli altri ancora senza nome, figli di questa terra che non ha dimenticato quelle storie orribili, ma trova anche il modo di giocarci su. Per dire: alla trattoria Baldini, alle porte del centro, c’è un quadretto accanto alla porta. Che racchiude il viso - ancora giovane - di uno dei proprietari e battute scherzose scritte attorno. E chi va lì mangiar la ribollita o un ossobuco memorabile guarda sorride e se ne va: «Eh, sì, ecco il nostro Mostro».
Ma giù, al palazzo di giustizia, su questa storia nessuno ride. Anzi, tutti tacciono. Perché sta a vedere che stavolta, forse, salta fuori una novità importante. Intanto hanno trovato l’ogiva di una pistola calibro 22. Era dentro un cuscino nella tenda dove vennero ammazzati Nadine e Jean Michel: anno 1985. L’hanno trovata gli investigatori Ros dei carabinieri tre anni fa, e adesso la questione è stata annunciata urbi et orbi. Vista così è un elemento che potrebbe far nascere dibattiti sui sopralluoghi fatti all’epoca, magari un po’ troppo frettolosi o forse con tecniche d’indagine che oggi non si usano più. Ma con il fatto che ci sono due indagati nuovi sembra che qualcosa di clamoroso possa saltar fuori da un momento all’altro. Per intanto emergono elementi che fino a ieri nessuno conosceva perché conservati meglio dei segreti di Fatima. Tipo: la pistola del delitto s’è sempre detto che era una Beretta modello 70, calibro 22. Non l’hanno mai trovata.
Ora, si scopre che, sempre un paio di anni fa, ne è stata rinvenuta una di quello stesso tipo in un rio, nella zona della Calvana. Era lì chissà da quanti anni. L’hanno scrostata, ripulita perbene e hanno scoperto che in canna aveva proiettili calibro 22 Winchester, serie H, che sono lo stesso tipo di munizioni usate per ammazzare le coppiette. È quella l’arma? Non si sa. Perché il percussore è stato limato. Cioè: è stato modificato con due o tre sapienti colpi di lima da chi l’ha gettata. Per capire: è come se uno si fosse bruciato le impronte digitali per non farsi scoprire. Quindi vai a sapere adesso se è proprio quella l’arma che ha sparato il proiettile trovato nel cuscino.
In questa storia c’è anche un avvocato che val la pena di ascoltare. Il suo nome è Vieri Adriani ed è l’uomo che assiste da sempre i famigliari delle vittime francesi. Adriani è convinto che ci sia un’altra pistola. Non una seconda, ma proprio un’altra. E l’aveva pure individuata. Era una High Standard. Che aveva in casa un uomo che si chiama Giampiero Vigilanti, 88 anni, un ex soldato della Legione Straniera. Uno a cui piaceva far saper quanto era coraggioso - e spietato - in battaglia. Tanto che sul quotidiano La Nazione - nel giugno del 1964 - racconta a puntate le sue gesta. Vent’anni fa, invece, si fece fotografare con in mano quell’arma. E che, guarda caso, adesso è scomparsa. Gliel’hanno rubata nel 2013. E Adriani è furibondo. Dice. «Prima avevamo un’arma, ma non un proiettile del mostro con cui confrontarla. Ora abbiamo il proiettile ma l’arma non c’è più. Guarda che caso». Ma c’è di più. Vigilanti, che oggi sembra un nonno, ma molto, molto in forma, è indagato perché sospettato di esser uno dei killer di Firenze. E con lui il suo ex medico curante, tal Caccamo. Che, dicono, Vigilanti abbia tirato in qualche modo in mezzo. Ma perché trent’anni dopo saltano fuori questi nomi? Per capirlo bisogna tornare indietro nel tempo.
Il “legionnaire” Vigilanti
Occorre andare a quando in questo scampolo d’Italia accadeva di tutto. Quando nella zona della Calvana c’erano i campi paramilitari dell’eversione nera. E c’era la banda dei sardi che si occupava di sequestri di persona. Soffiantini, ad esempio, venne trasferito da queste parti. E c’è di più. Qui l’eversione nera metteva a segno attentati ai treni. A Vernio nel 1984 ci fu quello al Rapido 904. Vernio è in provincia di Prato. Ovvero a un tiro di schioppo da Firenze. Nel 1969 a San Benedetto val di Sambro (Bologna) ci fu l’attentato all’Italicus. Il 21 aprile del ’74 a Vaiano, sempre vicino a Prato, salta per aria un binario sul quale deve passare il direttissimo Parigi – Roma.
Il treno non viene coinvolto e non ci sono vittime. Ma c’è un’inchiesta nella quale finiscono 74 persone. I condannati, però, sono pochi. Nelle carte di quel processo si parla anche di un «legionario», ma non c’è il nome. Di più? Da queste parti, allora, di armi ce n’erano più che nel periodo della Resistenza. Una volta qui venne sequestro un carico di 100 mitragliatori Mab. Un’altra: i carabinieri fermarono un’auto con ragazzi romani a bordo di una 500 carica di esplosivi e mitra. Basta? Forse no, perchè ci sono elementi ancora più suggestivi. Tipo: Vaiano è il paese dove ha vissuto Gianpiero Vigilanti, il legionario, oggi indagato. Che da un bel po’ di anni vive a Prato. Suggestioni. Ma sta di fatto che Vigilanti, quando ancora stanno cercando l’assassino finisce dritto nel mirino degli uomini dell’Arma. Lo perquisiscono. E lui la sfanga. Conosce Pacciani. Ma è poca roba. Però il faro sull’uomo che si vantava di aver fotografie con in mano le teste mozzate in Indocina non s’è mai spento. Sì, ma che c’entra l’eversione nera con il mostro? Qui sta il bello.
L’ultima teoria
L’ultima teoria è che uno o due o più di quelli che hanno partecipato a quei campi sia l’autore materiale di diversi delitti. Quasi come momento catartico e di gruppo. Oppure come prova di coraggio, o perché è un’azione di gruppo. Una teoria, è vero. Ma ha un suo fondamento. E Vigilanti è indagato.
Vieri oggi minimizza l’importanza di queste ultime svolte. Giura che anche se archivieranno tutto non farà opposizione. Perché «più a nessuno importa ’sta storia». A lui sì, però. E intanto esamina carte. E fa fare verifiche. Tiene contatti. E cerca elementi. Il mostro ha ancora una parte coperta, che forse è quella più brutta. Perchè racconta che la parte più oscura, o più torbida, è ancora da svelare. Chi riempiva di denaro Vanni e Pacciani, due mezzi spiantati ma con soldi come se piovesse? E Vigilanti, l’indagato? Era un operaio di basso profilo. Ma aveva in garage una Lancia Fulvia che per quegli anni non era proprio adatta a uno che vive in una casetta grossa un pugno e non ha grandi entrate. Chi c’era al secondo livello? E perché alle ragazze hanno fatto di tutto, dopo morte? Ecco bisogna trovare quei mostri lì. Se sono ancora vivi.

Il Fatto 21.1.19
Bibi Netanyahu e l’oscura battaglia giocata con i social
Storico leader – Benjamin Netanyahu in Israele deve affrontare ben quattro diverse accuse per frode, corruzione e fondi neri
di fa.scu.


Quando la scorsa settimana il premier Benjamin Netanyahu ha annunciato tramite i social media che avrebbe rilasciato una dichiarazione in tv in prima serata, che poteva essere visualizzata tramite il suo profilo Facebook, ha stabilito un record. Quasi 4,5 milioni di persone l’hanno seguito in tv e oltre 150 mila via Facebook. Un successo annunciato. Perché fra le sue molte abilità non c’è dubbio che Netanyahu abbia anche quella di saper gestire la comunicazione come pochi. È un navigante di lungo corso su Internet, nei primi anni 90 fu uno dei primi politici a creare un sito web.
I guai giudiziari che sta affrontando – quattro diverse accuse per frode, corruzione e fondi neri – lo hanno spinto a diminuire le sue già rare apparizioni in tv. Netanyahu ha smesso di parlare al pubblico israeliano tramite i media tradizionali. Invece pubblica dozzine di post al giorno sui social media, tra cui visualizzazioni e tweet, e l’alto tasso di risposta dei suoi seguaci influenza gli algoritmi di Twitter, Instagram e Facebook, aiutandolo così ad attrarre nuovi follower.
Ogni giorno Netanyahu trasmette messaggi a milioni di follower su Facebook, Twitter, Instagram, YouTube e Telegram tramite dozzine di account, alcuni dei quali sono gestiti con fondi statali e altri tramite finanziamenti privati da fondi meno trasparenti. I suoi post hanno migliaia di condivisioni, decine di migliaia di “Mi piace” e uno dei più alti tassi di risposta degli utenti per qualsiasi politico, certamente in Israele.
È cosa nota che molti influencer hanno un gran numero di follower falsi, buona parte dei quali provenienti da Brasile e India. In effetti, uno sguardo ravvicinato alle pagine personali di Netanyahu, lascia qualche dubbio. Un numero significativo proviene dall’estero. Il dottor Anat Ben-David della Open University afferma che, al contrario di altri politici israeliani, le pagine di Netanyahu hanno il maggior numero di commenti da utenti che rispondono solo alla sua pagina e anche il maggior numero di commenti da utenti che commentano solo una volta. Il 43% dei suoi fan è all’estero, il 33% vive in Israele, il 47% ha meno di 21 anni.
La “macchina da guerra” on line di Bibi ha tre diverse branche. Gli account del partito, finanziati dal Likud; le pagine del primo ministro, finanziate dall’ufficio del premier; e quelle personali gestite dai suoi guru da dove proviene il maggior numero di follower. La pagina Facebook di Netanyahu (lanciata nel 2010) ha oggi 2,3 milioni di follower. Primo ministro e Likud non rivelano, perché la legge lo consente, i costi di gestione e da dove provengono i finanziamenti.
Netanyahu è una delle personalità più popolari in Israele, i suoi account hanno circa 5 milioni di follower. Al contrario del presidente Donald Trump, che scrive personalmente i suoi tweet, Netanyahu non possiede nemmeno uno smartphone per timore dello spionaggio. Piuttosto, deve il suo successo nei social media ai suoi giovani consiglieri, tutti ex militari dell’Unità del portavoce dell’IDF, le Forze di difesa israeliane. Sono giovani, molto giovani. In tre non arrivano a 80 anni. Dopo il “drammatico annuncio” in tv i guru privati di Netanyahu hanno lanciato una campagna Instagram rivolta ad adolescenti e giovani. Un tentativo di promuovere il messaggio di Netanyahu che una tangente senza soldi non è una tangente. Una risposta, apparente, alle gravi accuse di corruzione contro cui Bibi sta combattendo in questi mesi. La manovra sui social media era abilmente progettata per indirizzare la conversazione lontano dalle accuse e per smussare le critiche a Netanyahu. Sembra aver avuto l’effetto voluto.

La Stampa 21.1.19
Ora le carte contactless sono sempre più usate ma è meglio proteggerle
Furto d’identità: 12 mila denunce e 72 milioni di danni Bisogna schermare la scheda e attivare gli avvisi Sms
di Sandra Riccio


Cresce l’utilizzo delle carte contactless, le nuove carte bancomat e di credito che non richiedono più l’inserimento del codice segreto (pin) e che consentono di pagare solo sfiorando il pos (il dispositivo per le transazioni che è in mano agli esercenti). Questo nuovo modo di fare acquisti vale per piccoli importi, fino a 25 euro, e ha enormemente facilitato i pagamenti alla cassa.
Insieme alla rapida diffusione di queste carte di nuova generazione, crescono anche i dubbi sulla loro reale sicurezza. In particolare, alcuni video diffusi sul web stanno alimentando i timori di frodi. Si tratta di filmati in cui i possessori di carte contactless vengono «derubati» da un truffatore che in un luogo molto affollato, come la metropolitana, avvicina un pos ai loro portafogli.
«L’ipotesi è che si tratti di filmati bufala - dice Ivano Gabrielli esperto di sicurezza della Polizia Postale -. Non bisogna farsi prendere dagli allarmismi». L’esperto spiega che nel nostro Paese non sono stati registrati casi di frodi legate alle carte «senza contatto». «Per ora non ci sono evidenze - dice -. Si tratta di strumenti che sono abbastanza sicuri». Inoltre le basse somme che si riesce a «prelevare», vale a dire 20 o 25 euro, non consentono di arrivare a grandi bottini. Il gioco, insomma, non varrebbe la candela. Tanto più che, per operare, i ladri delle contactless dovrebbero anche rischiare oltre modo con una vicinanza particolarmente marcata alla vittima (un paio di centimetri).
In Paesi come gli Stati Uniti e la Germania sono state fatte ampie ricerche su possibili frodi su questo tipo di strumenti. Sono emersi alcuni casi ma non operazioni in larga scala (negli Usa con le carte che poi sono state utilizzate presso i distributori automatici). I ladri tecnologici sono però sempre in agguato e riescono a scovare sempre nuovi stratagemmi per le truffe. In questo caso, il limite alle loro attività arriverebbe proprio dai bassi importi prelevabili.
Intanto è meglio tenere bene a mente gli accorgimenti per riuscire a inibire ogni possibile truffa. «Bastano piccole operazioni per far sì che i codici di queste carte non possano essere carpiti – spiega Gabrielli . In sostanza per difendersi basta un’attività di schermatura della carta. Questa si ottiene attraverso l’utilizzo di materiali o di appositi portafogli che fanno da schermo. Ma basta banalmente anche l’utilizzo più casalingo di una normalissima carta stagnola».
Un altro suggerimento poi è quello di attivare le notifiche push, vale a dire gli avvisi che arrivano via sms subito dopo l’avvenuto pagamento.
Diverso è il caso di furto fisico della carta e suo utilizzo per pagamenti di piccolo importo. In questo caso, come in quello delle altre carte, è importante bloccare subito lo strumento. L’avviso di acquisto effettuato via sms aiuta ad accorciare i tempi.
Più allarme arriva per il fishing di seconda generazione, vale a dire il furto di dati, in genere via web. Riguarda il conto corrente e i danni sono ben più cospicui. «Oggi queste tecniche fraudolente riescono a superare anche le barriere di secondo livello, vale a dire le disposizioni di codici momentanei impartite via sms. I ladri riescono, infatti, a impossessarsi del numero di telefono e di fatto del telefono del malcapitato, clonandone la sim» spiegano dalla Polizia Postale. Autorizzano bonifici e operazioni di importi anche elevati. L’attenzione deve essere massima sull’utilizzo che facciamo dei nostri computer, tablet e smartphone. Tenendo sempre sotto controllo l’antivirus in modo da impedire l’installazione di malware che ci rubano i dati del conto e del telefono senza che ce ne accorgiamo. Il furto d’identità, tipologia di crimine in cui è inserita questo tipo di frode, è in forte crescita nel nostro Paese. Secondo l’Osservatorio Crif, nei primi 6 mesi del 2018 sono stati denunciati oltre 12.100 casi (66 al giorno) per un danno stimato in circa 72 milioni di euro.



https://spogli.blogspot.com/2019/01/corriere-21.html