Il Fatto 11.1.19
La rivolta serba tra Ue e Putin
Proteste
trasversali. In migliaia contestano Vucic, premier “europeista” ed ex
ministro di Milosevic. Mosca teme un’altra Lituania
“Stop alle camicie insanguinate”. Il movimento denuncia la repressione del premier serbo
di Roberta Zunini
Anche
se domani nelle strade ghiacciate di Belgrado e delle principali città
serbe scendessero ancora migliaia di cittadini assieme ai sostenitori
dei diversi partiti di opposizione, dall’estrema sinistra all’estrema
destra, il presidente Alexander Vucic difficilmente aprirà al dialogo.
Nonostante il numero dei manifestanti sia andato crescendo di sabato in
sabato fino ad arrivare a circa 40 mila presenze la scorsa settimana,
l’eventuale sesta manifestazione di fila contro Vucic e il suo Partito
Progressista non sembra in grado di smuovere l’ex ministro del dittatore
Milosevic, che due settimane fa ha dichiarato: “Se anche arrivassero a 5
milioni non cederei alle loro richieste”, per poi aggiungere che
sarebbe “disposto a incontrare i cittadini infuriati ma non
l’opposizione bugiarda”, minacciando che “l’alternativa è il voto
anticipato, per contarsi”.
Andare subito alle urne sarebbe
vantaggioso per il presidente, “perché non darebbe tempo alle
opposizioni di rafforzarsi”, spiega l’analista Dragomir Andelkovic. Ma
le opposizioni non le vogliono perché ritengono non ci siano le
condizioni per consultazioni trasparenti e giuste. Del resto, un
qualsiasi cedimento di Vucic in questo senso sarebbe come ammettere le
accuse di comportamento anti-democratico mossegli dagli oppositori
riunitisi nelle piazze muniti di fischietti, come ai tempi delle marce
contro Milosevic. Questa volta, però, si tratta di un movimento diverso,
eterogeneo in tutti i sensi, in cui si notano ex politici,
intellettuali e attori – accomunati dalla richiesta di libertà di stampa
e di critica – costituitosi dopo il pestaggio di Borko Stefanovic,
leader di Levica Srbije, un piccolo partito di sinistra. La sua blusa
macchiata di sangue a causa dell’attacco perpetrato lo scorso novembre
da uomini in passamontagna nella città di Kruševac, ha dato il la alla
protesta battezzata inizialmente “Stop alle camicie insanguinate” e dopo
la sprezzante risposta di Vucic, “uno di cinque milioni”. Il
presidente, ex ultranazionalista di ferro durante l’era Milosevic, si è
convertito all’europeismo più spinto fondando il Partito Progressista
serbo. Secondo i manifestanti però ha mantenuto i metodi dispotici del
suo più noto predecessore, oltre a ventilare la “sacrilega” ipotesi di
uno scambio di territori con il Kosovo. Proposta che ha fatto scoppiare
la rabbia anche dei suoi elettori. La folla, organizzata dall’Alleanza
per la Serbia – galassia priva di un leader –, chiede innanzitutto che
la Tv pubblica preveda spazi per l’opposizione. I manifestanti inoltre
vogliono indagini serie per fare luce sul mandante del pestaggio contro
il leader di sinistra e dell’omicidio di Oliver Ivanovic, leader
moderato dei serbi in Kosovo, avvenuto un anno fa. Le altre richieste
riguardano anche la dinamica elettorale, giudicata opaca per vari
motivi, tra cui le diffuse pressioni esercitate dai datori di lavoro sui
dipendenti affinché votino il partito di Vucic.
Il malcontento è
andato diffondendosi dopo la sua elezione nel 2017 non solo per
l’erosione dello Stato di diritto, ma anche per il peggioramento
dell’economia. Basti pensare che solo il 30 per cento della popolazione –
7 milioni di abitanti in tutto – ha accesso alla rete fognaria. “La
piazza cresce assieme alla frustrazione per come si vive qui”, ha
spiegato il giornalista Djordje Vlajic, che ritiene si tratti di
un’energia che durerà”. Già due anni fa, migliaia di persone scesero in
strada contro la vittoria di Vucic (55%), ma si trattava soprattutto di
giovani e inoltre era primavera. Ora la folla sfida la neve e il gelo,
segno che la situazione è ben più grave. Dusan Teodorovic, autorevole
accademico e noto attivista, ha sottolineato che “non ci saranno
elezioni finché il governo non pubblicherà le liste elettorali e non
saranno rimossi i ‘pesi morti’”.
Quando nel 1998 Vucic era
ministro dell’Informazione, firmò una legge che limitò la libertà di
stampa e secondo i manifestanti in pratica sta facendo la stessa cosa
anche adesso, seppure non in modo ufficiale e nonostante la svolta
europeista. “Non contento della solida maggioranza in Parlamento, ora
controlla tutto, i suoi uomini sono ovunque, hanno occupato tutto:
polizia, esercito, media, scuole e ospedali”, ci spiega un docente che
chiede l’anonimato per evitare ritorsioni. “Io non sono sceso in piazza
perché non intendo mescolarmi con l’estrema destra, ma se continua così
potrei cambiare idea. La situazione è diventata insostenibile”. Il ruolo
della Russia di Putin in questa ondata di proteste non è chiaro. Vucic,
pur definendosi europeista per convincere Bruxelles a far entrare la
Serbia nell’Unione, ha continuato a coltivare ottimi rapporti con il
Cremlino, che non vuole certo perdere il più importante Paese balcanico
sotto la sua area di influenza dai tempi dell’Urss e con cui condivide
il credo ortodosso. Cosa che non dispiacerebbe a Jean-Claude Juncker, a
Bucarest per l’apertura del semestre europeo della Romania, contrario
all’ingresso degli ex Paesi dell’orbita sovietica.