Corriere La Lettura 20.1.19
Eredi di Neanderthal?
Si capisce dal cranio
di Fabio Macciardi e Giorgio Manzi
«Volevamo
identificare nel Dna umano le basi genetiche e i relativi percorsi
biologici che portano alla “globularità” del nostro cervello», tipica di
Homo sapiens, dice Simon Fisher del Max Planck Institute di Nijmegen in
Olanda, uno dei principali autori della ricerca internazionale
pubblicata alla fine del 2018 sulle pagine della prestigiosa rivista
«Current Biology». A lui, al suo collega Philipp Gunz del Max Planck
Institute di Lipsia in Germania — e a diversi altri ricercatori (fra cui
non mancano alcuni italiani, compresi gli autori di questo articolo) —
si deve un pionieristico studio sulle correlazioni fra morfologia
encefalica e corredo genetico; la prima ricerca mai tentata su campioni
altrettanto significativi, ma soprattutto la prima che si sia fatta
partendo dal presupposto che i Neanderthal — o, meglio, alcune
componenti genetiche che abbiamo acquisito dai nostri cugini estinti —
possano aiutarci a capire come siamo e come lo siamo diventati.
Chi
siano stati i Neanderthal è ben noto. Evolutisi in Europa nel corso di
centinaia di migliaia di anni e molto caratterizzati sul piano
morfologico — per le teste a forma di… palla da rugby e le corporature
tarchiate da… piloni di mischia del rugby — erano ben adattati al clima
glaciale e vivevano in piccole bande di cacciatori-raccoglitori
paleolitici. Si estinsero intorno a 40 mila anni fa, quando nel
difficile contesto ambientale dell’ultima glaciazione si affacciarono da
Oriente le popolazioni di una specie molto simile, ma più abile a
procurarsi lo stesso cibo, a sfruttare le stesse risorse, a sopravvivere
negli stessi contesti: Homo sapiens. Fu così che allora, da est verso
ovest, le tante piccole popolazioni dei Neanderthal si andarono via via
spegnendo come fiammelle e, parallelamente, quelle dei nostri diretti
antenati diventarono un incendio che si diffuse in tutta Europa. Nel
frattempo, qualcosa di simile accadeva in Asia, in Australia e nelle
Americhe, mentre in decine di millenni precedenti lo stesso era già
accaduto in Africa e poi nel Medio Oriente. Così i Neanderthal (e non
solo loro) si estinsero.
Da una decina d’anni, però, sappiamo o
pensiamo di sapere che i Neanderthal non si siano estinti del tutto. Da
quando è stato possibile studiare il Dna di questi nostri cugini del
Paleolitico, abbiamo scoperto frammenti del loro genoma dispersi
all’interno del nostro. L’interpretazione che ne è stata e viene
comunemente data è che in una fase particolare della diffusione di Homo
sapiens dall’Africa verso l’Eurasia, quando le nostre popolazioni
vennero per la prima volta in contatto con le più periferiche
popolazioni di Neanderthal — nell’area oggi chiamata Medio Oriente (un
orizzonte compreso fra Egitto, Turchia e Iran, per capirci) — avvennero
incroci con la nascita di ibridi almeno parzialmente fertili, tali da
comportare quella che tecnicamente si chiama «introgressione genetica».
Le analisi indicano anche che l’introgressione sia stata rilevante, ma
solo in questa fase e in quest’area, e che il materiale genetico dei
Neanderthal si sia successivamente come polverizzato nelle popolazioni
di Homo sapiens in diffusione, tanto che ciascuno di noi (tranne gli
africani, unici rappresentanti «puri» della specie!) porta frazioni
diverse di Dna esogeno (Neanderthal) comprese fra l’1 e il 4 per cento.
Ma
torniamo ora alla ricerca di Fisher, Gunz e colleghi pubblicata su
«Current Biology». Il focus dell’analisi è puntato sull’organo nobile
che più ci caratterizza: il cervello. Una caratteristica distintiva di
noi Homo sapiens è quella di avere un cervello grande e rotondeggiante
(o «globulare», come si usa dire) e lo stesso vale per il nostro cranio.
I Neanderthal avevano cranio e cervello altrettanto grandi, ma con una
conformazione allungata dall’avanti all’indietro (tipo «palla da rugby»,
come dicevamo). I risultati della nuova ricerca hanno mostrato che
individui attuali nel cui genoma si ritrovano particolari frammenti di
Dna di Neanderthal hanno teste leggermente più allungate di altri,
rivelandoci qualcosa sull’evoluzione della forma e della funzione del
cervello moderno. Vediamo di capire meglio che cosa.
Sviluppando
un’analisi complessa che ha messo a confronto crani fossili e moderni, i
ricercatori hanno dapprima costruito un «indice di globularizzazione» e
lo hanno poi applicato a migliaia di soggetti per cui erano disponibili
immagini del cervello acquisite con tecniche di risonanza magnetica.
Questa prima analisi ha confermato che l’evoluzione del nostro cervello
ha privilegiato l’espansione di aree frontali, parietali e temporali, ma
ha anche dimostrato che la globularizzazione tipica di Homo sapiens
dipende da un’espansione di importanti strutture presenti all’interno
del cervello, come anche del cervelletto.
C’è poi una seconda
parte dell’analisi, forse la più interessante e certamente la più
innovativa. Utilizzando i dati genetici disponibili per gli stessi
soggetti presi in esame precedentemente, i ricercatori hanno valutato
l’ipotesi che varianti del Dna di probabile origine neanderthaliana
siano coinvolte nel determinare la forma del cervello e del cranio
nell’ambito della variabilità moderna, scoprendo che alcune di queste
varianti genetiche sono fortemente associate a una forma più allungata,
ovvero meno globulare. Ma non basta: l’analisi ha anche mostrato che la
globularizzazione sarebbe controllata da geni che hanno un ruolo
importante nello sviluppo embrionale intrauterino e nelle prime fasi di
vita neonatale. Per due di questi geni in particolare, identificati con
gli acronimi Ubr4 e Phlpp1, è stato anche possibile ipotizzare un ruolo
funzionale specifico, nel quadro di un complesso sistema genetico che
regola la neurogenesi (il differenziamento e il successivo sviluppo
delle cellule cerebrali).
Questo primo esempio di paleoneurologia
molecolare ha dunque integrato fra loro dati di paleoantropologia e
genomica comparata con immagini cerebrali e genetica funzionale.
L’integrazione di dati e metodi evoluzionistici con quelli del
neurosviluppo apre nuove prospettive per la conoscenza non solo dei
fattori che controllano l’evoluzione del cervello ma, in parallelo,
anche per quei meccanismi funzionali che sono ancor oggi essenziali per
lo sviluppo encefalico e la sua funzione poi in età adulta.
La
forma del nostro cervello (e del nostro cranio) non può certo essere
interpretata solo in base a considerazioni anatomiche. L’effetto delle
varianti genetiche ancestrali — come di quelle moderne — non riguarda
solo eventi di ordine evolutivo, ma condiziona anche funzioni complesse,
come l’organizzazione dei movimenti e, più in generale, le nostre
capacità di coordinazione e apprendimento. Stiamo davvero cominciando a
capire come noi, donne e uomini anatomicamente moderni, siamo il
risultato di meccanismi che abbiamo ereditato da un tempo profondo e da
altre specie. Le indagini dei prossimi anni in questo campo si
annunciano di grande interesse.