Corriere La Lettura 20.1.19
Che fine ha fatto il finale ?
di Aldo Grasso
C’è quello chiuso, l’aperto, persino quello circolare. E magari è meglio dire: c’era. Perché l’atto conclusivo
di una narrazione (un libro, un film
o soprattutto, oggi, una puntata o una serie tv) rischia di non essere più
lo stesso dopo la soluzione adottata
da «Black Mirror», con un episodio dove è lo spettatore a intervenire scegliendo tra diverse soluzioni.
Ma forse era meglio «Martin Eden»
Il
film interattivo Bandersnatch, nuovo capitolo di Black Mirror, la serie
inglese creata e prodotta da Charlie Brooker, ha riacceso la
discussione sui finali. All’uscita del labirinto distopico lo spettatore
deve arrivarci facendo scelte giuste, altrimenti la narrazione non
procede. Sbagliando il tasto, il racconto/vita s’inceppa e diventa
estremamente complesso. Si realizza così il vecchio sogno di una
narrativa che nasce dalla complicità fra autore e lettore?
La
prima a manifestare perplessità è stata Mariarosa Mancuso che sul
«Foglio» ha scritto: «Già sono antipatici i finali aperti: aspettiamo la
fine di una storia e invece del The End (magari con quel che ne sarà
dei personaggi vent’anni dopo) arriva un fotogramma fisso e ambiguo. Chi
apre le storie, per favore, dovrebbe avere la cortesia di chiuderle.
Senza confidare nella gentilezza del lettore: “Scusa, son rimaste un
paio di cose in sospeso, vedi tu se Romeo e Giulietta vivranno felici e
contenti oppure no”».
Bandersnatch sembra seguire i canoni
narratologici dei videogame. Secondo gli esperti del settore, la
struttura narrativa ideale per i videogame è la sequenzialità, perché
permette a una o più linee narrative di estendersi su più episodi
(magari secondo lo schema classico della morfologia delle fiabe). Lo
scopo dell’arco narrativo è portare un personaggio da un punto all’altro
di una trama disseminata di ostacoli che costringono a cambiare
strategia. Il videogamer così è attivo, non subisce la storia ma riesce a
darle una forma nuova attraverso le proprie scelte. Un gioco, appunto.
Si
parla molto di incipit (presso Skira, è da poco uscito Incipit,
edizione aggiornata di Era una notte buia e tempestosa, una raccolta di
duemila inizi di romanzi; anche Fruttero & Lucentini si sono
divertiti a compilare un libro di incipit, quasi un trivia game) ma poco
di explicit.
Se l’incipit è quasi sempre la chiave di volta di un
romanzo o di un film (tant’è vero che spesso i titoli di testa vengono
usati in questa funzione), è altrettanto vero che l’explicit (explicitus
est liber, è terminato il libro) è lo stigma attraverso cui il regista o
lo scrittore consegna definitivamente il suo lavoro al pubblico. Il
modello di chiusura sancisce sia un’appartenenza alla struttura
linguistica del genere (è il caso per esempio del «lieto fine») sia
un’autonomia creativa che attinge altrove regole e tendenze. In
letteratura, per esempio, possiamo trovarci di fronte al colpo di scena:
«L’uomo inspiegabilmente sparito dall’ex teatro anatomico, con porta
chiusa a chiave e inferriate alle finestre (“Era qui ancora oggi!
Dev’essere fuggito! Ma fuggito… come?”) non è infatti l’assassino, ma la
vittima», Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde; al
rilancio della storia: «Domani, domani tutto finirà», Il giocatore; al
metafinale: «Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è
parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di
tutta la storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene
bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma
se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto
apposta», I promessi sposi.
Ben prima di Bandersnatch,
prefigurando una società dominata dal videoregistratore, Umberto Eco
aveva immaginato la costruzione casalinga di film attraverso un
pacchetto di combinazioni, uno per ogni regista: Do your movie yourself,
1972. L’aspetto più divertente era, appunto, il finale.
Alcuni
esempi. Finale alla Antonioni: «Sta lì. Tocca a lungo un oggetto. Si
allontana poi si ferma perplessa, fa due passi indietro e si allontana
di nuovo. Non si allontana ma la camera carrella indietro. Guarda la
camera con volto inespressivo toccandosi il foulard». Finale alla Olmi:
«Senza pensare più nulla. Senza più scopi nella vita. Con un nuovo scopo
nella vita. Facendo una novena a Papa Giovanni. Diventando tagliaboschi
(guida alpina, vagabondo, minatore, portatore d’acqua)». Finale alla
Visconti: «Assiste all’intero ciclo dell’Anello del Nibelungo. Suona
canzoni borgognone su una guimbarda. Si denuda al culmine della festa
mostrando in effetti di essere un uomo e quindi si evira. Muore di
consunzione drappeggiandosi in arazzi Gobelin. Inghiotte cera liquida e
viene sepolta al Museo Grévin. Si fa tagliare la gola da un tornitore
pronunciando oscure profezie. Attende l’acqua alta a S. Marco e annega».
Pensiamo
ad alcuni famosi explicit cinematografici. Al finale di A qualcuno
piace caldo, dove una sola battuta s’incarica di sigillare la commedia
e, insieme, di deragliarne il senso: «Nessuno è perfetto». Al finale di
Intrigo internazionale dove la preparazione di un vagone letto lascia
intendere che la storia tra Cary Grant ed Eva Marie Saint continuerà
ancora, nel migliore dei modi. Avventura galante che richiama uno dei
finali più allusivi e conturbanti, quello di Accadde una notte, con
Clark Gable e Claudette Colbert, dove una coperta, simboleggiante le
mura di Gerico, cade per terra a sancire la sineddoche più erotica della
storia del cinema. Al finale de Il sorpasso di Dino Risi: Bruno Cortona
e Roberto, dopo la sequenza del ballo (Don’t play that song), ripartono
in macchina, eseguono una serie di rischiosi sorpassi incitati da
Roberto in un impeto di euforia, fino alla curva finale, con il salto
della Lancia Aurelia nel burrone. Un poliziotto chiede a Bruno: «Era un
suo parente?». E lui: «Si chiamava Roberto... Il cognome non lo so, l’ho
conosciuto ieri mattina...». Le onde del mare lambiscono la carcassa
dell’auto.
I finali simbolici sono insopportabili. Il dolciastro
onirismo di Cesare Zavattini in Miracolo a Milano, con i barboni che si
levano in volo a cavallo delle scope; il carico cristologico della manta
morta sulla spiaggia (il «mostro») de La dolce vita (proprio con questa
chiusa, Fellini ha originato tutta una cattiva letteratura
sull’impossibilità della salvezza da parte di Marcello, l’impossibilità
di leggere la teofania che gli si presenta dopo una notte di
perdizione); l’intellettualismo letterario de La notte di Michelangelo
Antonioni con Giovanni e Lidia che fanno i conti esistenziali nel parco
della villa: lei, dopo avergli letto una vecchia e affettata lettera che
lui, giustamente, non ricorda nemmeno di aver scritto, ribadisce di non
amarlo più, mentre Giovanni cerca di riaccendere la vecchia passione.
Faranno disperatamente l’amore mentre la cinepresa, con una carrellata,
li abbandona al loro destino.
Non sappiamo quale finale
cinematografico Eco preferisse, quello letterario sì. È la chiusa di
Martin Eden, quando il protagonista si suicida buttandosi in mare: «Era
caduto nelle tenebre e come lo seppe, cessò di saperlo».
Il
romanzo classico ci ha regalato tre tipi di chiusura: il finale chiuso
(è il più difficile, dice la parola definitiva sulla storia e
sull’autore, che necessariamente deve essere un grande autore); il
finale aperto (molto in voga nei romanzi di genere, quasi sempre prevede
un seguito); il finale circolare (il lettore torna al punto di
partenza, concludendo la storia da dov’era cominciata).
Il finale
circolare e soprattutto il finale aperto sono stati presi a prestito
dalla serialità, che già aveva saccheggiato il feuilleton. Proprio il
grande feuilleton, tipo Il Circolo Pickwick di Charles Dickens o I
misteri di Parigi di Eugène Sue, è un genere cerniera di grande
interesse: rappresenta il momento in cui l’autore, in quanto artista,
cede le armi e le «pretese» autoriali, e il romanzo diventa una sorta di
catena di montaggio per la produzione di gratificazioni incessanti e
rinnovabili (la più celebre delle quali è la promessa di rivelazioni che
normalmente chiude un episodio e procede all’apertura di altre nuove
strade, il «continua», il finale che promette altri finali). Il romanzo
d’appendice non si preoccupa soltanto di seguire i dettami del buon
narrare ma introduce, puntata dopo puntata, artifici di comodo che
ritroveremo poi nelle saghe di fumetti e nelle serie televisive: come
opera in progress, nasce a puntate, a tappe, e ogni tappa ha bisogno di
una sosta, di un finale.
Se le serie delle origini hanno una
struttura semplice, articolano ogni episodio in tre atti (incipit,
svolgimento con climax, scioglimento finale), a partire dagli anni
Ottanta, specialmente con Hill Street Blues (1981-1987, in Italia Hill
Street giorno e notte), la narrazione comincia a stratificarsi come una
millefoglie. I creatori Steven Bochco e Michael Kozoll utilizzano
un’ampia comunità di personaggi, dando una visione corale della
professione del detective. Hill Street Blues è un poliziesco che sfugge
ad alcune categorie di genere, tanto da utilizzare molti spunti della
sitcom, del documentario e della soap. Il telefilm inventa la trama
multipla (l’avventura non è più sequenziale ma si frantuma in mille
rivoli, ogni personaggio è portatore di storie pubbliche e private che
si intrecciano fra di loro) e dà il via alla stagione d’oro della
serialità, caratterizzata appunto dalla ramificazione narrativa e
affettiva, da storie che si innestano su altre storie, da indagini che
non necessariamente devono chiudersi, da ritmi velocizzati, da una
caratterizzazione dei protagonisti e delle vicende, da una tv che si
emancipa definitivamente dal cinema creando ganci interepisodici, finali
su finali, una fabbrica di finali.
L’espediente retorico più
usato è quello che gli americani chiamano cliffhanger (chi rimane
sospeso sull’orlo del burrone): la tecnica di interrompere l’azione nel
punto di tensione massima in modo che il lettore o lo spettatore sia
invogliato a sapere coma andrà a finire (tutto era già stato inventato
da Le mille e una notte).
Una delle accuse più frequenti che si fa
alla serialità (nel 2018 negli Usa sono state prodotte e trasmesse
circa 500 serie tv, in un trend di costante crescita anno dopo anno!) è
di smarrire i finali, di andare avanti solo perché non si sa come
terminare. Il caso più clamoroso resta quello di Lost, il cui finale
misterioso è stato oggetto di mille interpretazioni, alcune delle quali
anche molto negative. Anche se, in quel caso, la narrazione ha
continuato a giocare con il tempo: dopo le parentesi sul passato e
quelle sul futuro delle prime stagioni, l’ultimo atto di Lost ha scelto
di dar spazio ai what if, al racconto di una realtà parallela e
alternativa alla vita sull’isola, moltiplicando all’infinito l’explicit.
Il finale meglio riuscito?
Dopo
un lungo regolamento di conti e la morte dei suoi fedelissimi, il boss
Tony uccide il capo della banda rivale di New York, Phil Leopardo, e con
noncuranza cena con la famiglia nel consueto ristorante. Gli avversari
si radunano per la vendetta, entrano nel locale, caricano le pistole. Un
epilogo di fuoco. D’improvviso, il buio. The Sopranos finisce così, e
non poteva finire diversamente.