Corriere La Lettura 20.1.19
Anche Marco Polo
investe su Rialto
di Carlo Vulpio
Non
sarà la laguna a inghiottire Venezia, e nemmeno l’orda continua dei
turisti a farla sprofondare. Da queste due calamità, in qualche modo,
Venezia si salverà. Non potrà far nulla invece se si spegnerà la sua
vitalità. Se continuerà cioè il suo declino demografico e ancor più se
con il corpo della città se ne andrà anche la sua anima. E l’anima di
Venezia è Rialto. Il mercato di Rialto. Che secondo Marin Sanudo — il
diarista più attento e completo di Venezia, costretto dal governo della
Serenissima a cedere i suoi scritti a Pietro Bembo, più bravo di lui a
scrivere in latino — era «di tutto il mondo la più ricchissima parte»,
cuore di un sistema internazionale di affari, e che per Fernand Braudel
era il centro di una «economia-mondo».
Rialto, cioè Rivoaltus,
cioè il nucleo originario di Venezia sul Canal Grande, era il punto di
approdo e di partenza delle più importanti rotte commerciali tra
l’Occidente e l’Oriente fin dal X secolo. Rialto ha fatto di Venezia —
la città-stato più libera e cosmopolita tra le città-stato italiane —
una città-porto in cui l’accoglienza di mercanti, navi e lavoratori
stranieri non era soltanto la regola, ma è stato il principio fondante
della città e l’origine della sua fortuna. Tanto che in una Europa quasi
interamente agricola i veneziani risultavano «strani», perché — come
racconta Frederic Lane nella sua superba Storia di Venezia (Einaudi) —
«non seminavano e non raccoglievano, ma si procuravano il cibo in cambio
di trasporti e di sale».
Nel commercio del sale in particolare,
ma, di fatto, anche in quello dei cereali e delle spezie, Venezia riuscì
a imporre il proprio controllo nel mare Adriatico, che dalla «linea»
Ancona-Zara in su diventò vero e proprio monopolio. Attuato non tanto
attraverso l’impiego della forza militare della propria flotta, alla
quale pure non di rado ricorreva per fare rispettare gli accordi, quanto
attraverso la capacità di individuare rotte e mercati e di saperne
mantenere un controllo efficiente e affidabile. Mentre «gli altri»
puntavano alle conquiste territoriali, Venezia badava a impadronirsi
delle vie commerciali marittime quando ancora queste venivano viste come
qualcosa di «virtuale» rispetto al valore «reale» della terra.
Ma
qual era la peculiarità del mercato di Rialto, e perché lungo mille
anni per tutti i mercanti e gli uomini di affari, grandi e piccoli, è
valsa la massima «Se non vai a Rialto sei tagliato fuori»?
Innanzi
tutto perché il monopolio veneziano consisteva in due obblighi: che gli
scambi all’ingrosso avvenissero a Rialto, dove i veneziani erano i soli
mediatori, e che le merci straniere giungessero qui solo su navi
veneziane o su navi del Paese di origine delle merci, quindi senza alcun
altro intermediario. In secondo luogo, perché Rialto non era soltanto
un mercato di ogni genere di merce, ma era una importantissima piazza di
affari, in cui nel tempo si erano affermati e perfezionati gli
strumenti basilari del diritto commerciale e della contabilità: i codici
marittimi, la partita doppia, la polizza di carico, lo scrivano di
bordo, le assicurazioni marittime, la cambiale e la banca di giro, che
consentiva di effettuare i pagamenti sui libri dei banchieri mediante il
trasferimento di crediti invece che in contanti.
Era così
essenziale non rimanere «tagliati fuori» da Rialto che anche Marco Polo a
un certo punto della sua vita prestò ben 400 ducati, all’epoca una
somma ingente, a uno dei tanti mercanti veneziani che da viaggiatori
erano diventati residenti o sedentari, affinché li investisse a Rialto e
dopo un anno glieli restituisse con un profitto legato all’andamento
degli affari. La prova documentale di questo business è un atto notarile
del 2 settembre 1317, che è stato scovato recentemente nell’Archivio di
Stato di Venezia da Luca Molà, docente di Storia del Rinascimento
all’università di Warwick. Molà ha anche trovato una transazione
conclusa dallo stesso Marco Polo il 19 luglio 1317 in seguito a una
controversia relativa a una proprietà immobiliare. Si tratta di due
documenti inediti, pubblicati per la prima volta da «la Lettura», che
hanno un grande valore, se si considera che le testimonianze d’archivio
in cui compare direttamente Marco Polo, da vivo, erano finora non più di
una decina. Oggi il mercato di Rialto, sotto l’arcata del ponte
omonimo, conserva intatto il suo fascino ma, appunto, vive, o meglio
sopravvive, solo di questo.
La sua vitalità, e dunque la sua
ricchezza, si affievolisce di giorno in giorno. I banchi del pesce,
della frutta e della verdura, delle spezie, si sono più che dimezzati.
Il trionfo di colori delle merci, la sovrapposizione delle voci della
gente che compra e dei banconisti che vendono, l’incontro tra tutti
coloro che non hanno nulla da comprare, e tuttavia si danno appuntamento
al mercato per sapere cosa succede e riferire cosa si viene a sapere,
sono tutte immagini sbiadite che rischiano di scomparire e rimanere
soltanto nei ricordi, o nei rimpianti.
A Venezia però qualcosa di
bello è accaduto. La gente, la famosa gente, i residenti, rivogliono la
loro Rialto e non accettano più di essere soltanto le figurine di una
cartolina, o di un set cinematografico, o del Carnevale, mentre pian
piano l’eutanasia del mercato isterilisce la città e spegne anche loro.
L’associazione
«Rialto Nuovo», finora 4.500 aderenti, cioè il 10 per cento della
popolazione, insomma un «partito», vuole che la Loggia della Pescheria,
palazzina neogotica dei primi del Novecento, e le Fabbriche Nuove,
costruzione di Jacopo Sansovino del 1550 che ospitava i Tribunali, cioè i
due edifici sorti nel luogo in cui da mille anni vive il mercato di
Rialto, vengano recuperati e l’attività commerciale di Rialto
rilanciata. E lo chiede non attraverso la inconcludente caciara
populista che sembra aver scocciato persino i piccioni di piazza San
Marco, ma sostenendo il progetto di tre accademici che amano Venezia.
Uno è Molà, di cui abbiamo già detto. Gli altri due sono Donatella
Calabi, docente di Storia della Città, e Paolo Morachiello, docente di
Storia dell’Architettura, entrambi allo Iuav, coautori di Rialto: le
fabbriche e il ponte, 1514-1591 (Einaudi), affascinante «biografia» del
ponte e di una città sempre alle prese con due maree, quella «piccola»,
lunare, che fa variare di 90 centimetri il livello dell’acqua, e quella
provocata da venti, piogge, fiumi e correnti dell’Adriatico
settentrionale, altri 90 centimetri d’acqua in su o in giù.
Fu,
questo, uno dei rompicapi più difficili da risolvere quando, dopo
l’incendio del ponte in legno nel 1514, si decise di ricostruirlo in
pietra e ai due progetti delle «archistar» di allora, il fiorentino
Jacopo Tatti detto il Sansovino e il vicentino Andrea Palladio, venne
preferito quello più funzionale e non meno bello, a una sola arcata, del
proto (cioè, il perito) del Provveditore al sale Antonio da Ponte, che
con quel nome non poteva certo arrendersi alla illustre concorrenza. I
lavori per il nuovo ponte durarono due anni, dal 1589 al 1591 (tanto per
capirci sui tempi necessari a rifare i ponti distrutti) e il costo
totale fu di 240 mila ducati.
L’idea del progetto
Calabi-Morachiello-Molà per il mercato di Rialto è di creare nella
Loggia della Pescheria, che è vuota da sei anni, e di proprietà del
Comune e ha già come destinazione d’uso quella di «edificio museale», un
«Museo di Venezia nel Commercio Internazionale», che faccia conoscere e
sappia raccontare anche ai bambini la grandezza commerciale e culturale
di Venezia. Mentre nelle Fabbriche Nuove, di proprietà demaniale, al
piano terra si riorganizzerebbe e rilancerebbe il mercato ittico e al
primo piano si allestirebbe un padiglione gastronomico in cui degustare
il pesce, fornito dal mercato sottostante e cucinato secondo le ricette
tradizionali veneziane. Esattamente come avviene a Barcellona, a Parigi,
ad Amburgo e come si apprestano a fare anche a Londra. Tutte grandi e
belle città, ma dalle quali Venezia può solo essere invidiata.
Il
Comune, la Regione, le imprese, oltre al mondo della cultura nazionale e
internazionale, sembrano tutti interessati a questo progetto, che
comporterebbe una spesa complessiva di circa sei milioni di euro. Il
primo febbraio questa «storia materiale» di Rialto e il progetto di
recupero verranno presentati al pubblico nell’aula magna dell’Ateneo
Veneto, che vedrà «intellettuali» e «popolo» finalmente non scollegati,
con la band Ground Zero dei pescivendoli-musicisti di Rialto — all’alba
sono al mercato del pesce e la sera diventano gruppo musicale — che
intonerà la canzone-simbolo della rinascita di Rialto. «Venexia xe un
pesse/ Rialto el suo cuor/ e col xe ferma/ Venexia muor», dice il
ritornello. Che naturalmente non traduciamo.