lunedì 14 gennaio 2019

Corriere La Lettura 13.1.19
Addio Robespierre
Il Terrore impolitico
di Marcello Flores


Un bel libro di storia, soprattutto se originale, nasce spesso da interrogativi che riguardano il presente. L’idea prevalente oggi, che il terrorismo sia il male assoluto e la minaccia più grave alla democrazia, ha spinto Francesco Benigno (storico che ha affrontato con La mala setta, nel 2015, le origini di mafia e camorra) a ripercorrerne la storia: convinto a ragione che, per come viene usato adesso, il termine non sia tanto descrittivo quanto valutativo-dispregiativo, e quindi poco utile alla comprensione storica. Contro una lettura riduttiva schiacciata sul presente e contro «improbabili genealogie» a sfondo religioso (i Sicari del I secolo d.C., gli Assassini del Medioevo islamico o i Thugs del XIX secolo), il tentativo del suo saggio Terrore e terrorismo (Einaudi) è quello di spiegare attraverso la storia il carattere ambiguo e problematico di un termine che conosceva, già nel 1988, oltre cento definizioni cui se ne sono aggiunte altre negli ultimi trent’anni.
Benigno prende le mosse dal Terrore giacobino perché è la caduta di Maximilien Robespierre, col Termidoro del 1794, a coniare un termine che descrive inizialmente un «regime di sangue e paura», il cui scopo era il fine palingenetico della Rivoluzione e l’attuazione di Virtù e Giustizia anche attraverso violenza repressiva e legislazione speciale, il Terrore appunto. Da strumento dei «despoti», il termine terrorismo individuerà presto chi si oppone alla tirannia, a partire dal cospiratore Gracchus Babeuf, critico pentito di Robespierre, «forse colui che coniò per primo l’epiteto di “terrorista”, [e] finì così per rivendicarlo per sé stesso».
È nell’Ottocento che il terrorismo acquista la sua configurazione più coerente: gli attentati ai potenti — a partire da quelli contro Napoleone — aumenteranno a dismisura nel corso del secolo, coinvolgendo patrioti e rivoluzionari, così come cresceranno le azioni di guerriglia — il futuro mazziniano Carlo Bianco teorizza la «guerra per bande» nel 1830 — e i tentativi insurrezionali. Dai fratelli Bandiera alla spedizione di Carlo Pisacane a Sapri, dall’attentato di Felice Orsini a Napoleone III nel 1858 all’azione armata di John Brown in Virginia l’anno dopo, la violenza politica pare caratterizzata dal tirannicidio (che Giuseppe Mazzini difenderà per discolparsi proprio dall’accusa di terrorismo) e da tentativi insurrezionali, in nome della lotta degli oppressi contro gli oppressori, di una patria da conquistare e di una giustizia sociale da imporre.
Saranno i populisti russi, nell’ultimo quarto del XIX secolo, a creare il modello del «terrorismo rivoluzionario», quello che gli anarchici condurranno contro governanti e regnanti in Spagna e Italia, Germania e Francia, Austria e Russia, Giappone e Usa, Bulgaria e Grecia, l’esperienza raccontata da Ivan Turgenev e Fiodor Dostoevskij, ma anche dal francese Émile Zola, nei loro romanzi e che porterà nel 1881 all’impiccagione della prima donna terrorista (Sofja Perovskaja, implicata nell’assassinio dello zar Alessandro II). In questo stesso periodo, però, iniziano e si diffondono anche gli attentati politici costruiti dalla polizia, e non soltanto dalla famigerata Ochrana russa, che spesso colpiscono ignari cittadini in bar, ristoranti, ritrovi pubblici, in strada.
L’attentato di Sarajevo, per quanto di taglio patriottico-nazionalista come nel secolo precedente, apre la strada al conflitto mondiale e a una nuova violenza politica. Accanto ad assassinii politici (il leader francese Jean Jaurès e il cancelliere austriaco Karl von Stürgkh) si costruiscono pratiche di terrore di massa di segno diverso (il massacro degli armeni, il terrore comunista, il bombardamento di Guernica, la feroce «guerra totale» del Secondo conflitto mondiale, le violenze naziste) che non spariranno nel 1945. La Guerra fredda e la difficile decolonizzazione che ha luogo nel dopoguerra, infatti, vedrà una nuova ondata di violenza in cui il terrore della rivoluzione e della controrivoluzione si fronteggiano e intrecciano, come apparirà in modo esemplare in Algeria, nelle azioni del Fronte di liberazione nazionale e dell’Oas di estrema destra, proprio mentre Carl Schmitt, nel 1962, esponeva a Pamplona e Saragozza, nella Spagna franchista, la sua «teoria del partigiano».
Anni Sessanta e Settanta: Benigno ci porta nel cuore del terrorismo urbano dell’America Latina, della Raf tedesca e delle Brigate rosse, ma anche di baschi e irlandesi, attorno a figure come Carlos o a episodi come gli attentati legati alla crisi mediorientale (Monaco, Lod, Ma’alot, Parigi, Roma), quando si avvia un «processo di autonomia discorsiva della tematica del terrorismo», che porterà per la prima volta — anticipo sul dopo-11 settembre 2001 — a rispondere con azioni militari ad azioni terroristiche (i raid contro Gheddafi dopo l’attentato di Berlino dell’aprile 1986, oggi tema della serie tv Deutschland 86). Benigno intravede un «curioso gioco delle parti» tra tecniche insurrezionali dei gruppi controrivoluzionari e tecniche di repressione dei regimi nati da rivoluzioni, e affronta lungamente il tema del terrorismo islamico e del dibattito che ha suscitato. Dopo l’11 Settembre, con la «crociata contro il terrore» e la dottrina Bush, si chiude questa ponderosa e articolata ricerca storica.
Grande merito del volume è senz’altro di non rinchiudere in definizioni standard processi storici complessi e compositi, lasciando che la narrazione storica sovrapponga elementi non sempre omogenei e simili di violenza politica, anche se tutti caratterizzati da aspetti comuni nelle modalità o nelle finalità, nelle giustificazioni o negli obiettivi, negli strumenti e negli effetti provocati. Anche Benigno, tuttavia, sembra preso, nelle conclusioni, dal desiderio di offrire un’interpretazione coerente e — forzando probabilmente il suo stesso racconto nelle centinaia di pagine precedenti — è convinto che il terrorismo odierno «presenta forti tratti di continuità con il percorso bisecolare» raccontato. Confutando giustamente la criminalizzazione di ogni combattente come terrorista e la retorica di un «nuovo» terrorismo sulla base di una «fascinazione religiosa» e soprattutto della fede islamica, tende a sottolineare troppo le continuità e a dimenticare le differenze, che sono spesso il punto cruciale di ogni analisi comparativa. Un elemento che avrebbe meritato attenzione — assieme ai tentativi giuridici di dare sostanza anche storica all’accusa e definizione di terrorismo — è la perdita o almeno il grave indebolimento del discorso politico presente nelle azioni terroristiche, ridotte spesso a mera tattica militare sganciata da ogni finalità concreta, come pure nelle più disperate azioni della «propaganda col fatto» a cavallo tra Otto e Novecento.