Corriere La Lettura 13.1.19
Addio Robespierre
Il Terrore impolitico
di Marcello Flores
Un
bel libro di storia, soprattutto se originale, nasce spesso da
interrogativi che riguardano il presente. L’idea prevalente oggi, che il
terrorismo sia il male assoluto e la minaccia più grave alla
democrazia, ha spinto Francesco Benigno (storico che ha affrontato con
La mala setta, nel 2015, le origini di mafia e camorra) a ripercorrerne
la storia: convinto a ragione che, per come viene usato adesso, il
termine non sia tanto descrittivo quanto valutativo-dispregiativo, e
quindi poco utile alla comprensione storica. Contro una lettura
riduttiva schiacciata sul presente e contro «improbabili genealogie» a
sfondo religioso (i Sicari del I secolo d.C., gli Assassini del Medioevo
islamico o i Thugs del XIX secolo), il tentativo del suo saggio Terrore
e terrorismo (Einaudi) è quello di spiegare attraverso la storia il
carattere ambiguo e problematico di un termine che conosceva, già nel
1988, oltre cento definizioni cui se ne sono aggiunte altre negli ultimi
trent’anni.
Benigno prende le mosse dal Terrore giacobino perché è
la caduta di Maximilien Robespierre, col Termidoro del 1794, a coniare
un termine che descrive inizialmente un «regime di sangue e paura», il
cui scopo era il fine palingenetico della Rivoluzione e l’attuazione di
Virtù e Giustizia anche attraverso violenza repressiva e legislazione
speciale, il Terrore appunto. Da strumento dei «despoti», il termine
terrorismo individuerà presto chi si oppone alla tirannia, a partire dal
cospiratore Gracchus Babeuf, critico pentito di Robespierre, «forse
colui che coniò per primo l’epiteto di “terrorista”, [e] finì così per
rivendicarlo per sé stesso».
È nell’Ottocento che il terrorismo
acquista la sua configurazione più coerente: gli attentati ai potenti — a
partire da quelli contro Napoleone — aumenteranno a dismisura nel corso
del secolo, coinvolgendo patrioti e rivoluzionari, così come
cresceranno le azioni di guerriglia — il futuro mazziniano Carlo Bianco
teorizza la «guerra per bande» nel 1830 — e i tentativi insurrezionali.
Dai fratelli Bandiera alla spedizione di Carlo Pisacane a Sapri,
dall’attentato di Felice Orsini a Napoleone III nel 1858 all’azione
armata di John Brown in Virginia l’anno dopo, la violenza politica pare
caratterizzata dal tirannicidio (che Giuseppe Mazzini difenderà per
discolparsi proprio dall’accusa di terrorismo) e da tentativi
insurrezionali, in nome della lotta degli oppressi contro gli
oppressori, di una patria da conquistare e di una giustizia sociale da
imporre.
Saranno i populisti russi, nell’ultimo quarto del XIX
secolo, a creare il modello del «terrorismo rivoluzionario», quello che
gli anarchici condurranno contro governanti e regnanti in Spagna e
Italia, Germania e Francia, Austria e Russia, Giappone e Usa, Bulgaria e
Grecia, l’esperienza raccontata da Ivan Turgenev e Fiodor Dostoevskij,
ma anche dal francese Émile Zola, nei loro romanzi e che porterà nel
1881 all’impiccagione della prima donna terrorista (Sofja Perovskaja,
implicata nell’assassinio dello zar Alessandro II). In questo stesso
periodo, però, iniziano e si diffondono anche gli attentati politici
costruiti dalla polizia, e non soltanto dalla famigerata Ochrana russa,
che spesso colpiscono ignari cittadini in bar, ristoranti, ritrovi
pubblici, in strada.
L’attentato di Sarajevo, per quanto di taglio
patriottico-nazionalista come nel secolo precedente, apre la strada al
conflitto mondiale e a una nuova violenza politica. Accanto ad
assassinii politici (il leader francese Jean Jaurès e il cancelliere
austriaco Karl von Stürgkh) si costruiscono pratiche di terrore di massa
di segno diverso (il massacro degli armeni, il terrore comunista, il
bombardamento di Guernica, la feroce «guerra totale» del Secondo
conflitto mondiale, le violenze naziste) che non spariranno nel 1945. La
Guerra fredda e la difficile decolonizzazione che ha luogo nel
dopoguerra, infatti, vedrà una nuova ondata di violenza in cui il
terrore della rivoluzione e della controrivoluzione si fronteggiano e
intrecciano, come apparirà in modo esemplare in Algeria, nelle azioni
del Fronte di liberazione nazionale e dell’Oas di estrema destra,
proprio mentre Carl Schmitt, nel 1962, esponeva a Pamplona e Saragozza,
nella Spagna franchista, la sua «teoria del partigiano».
Anni
Sessanta e Settanta: Benigno ci porta nel cuore del terrorismo urbano
dell’America Latina, della Raf tedesca e delle Brigate rosse, ma anche
di baschi e irlandesi, attorno a figure come Carlos o a episodi come gli
attentati legati alla crisi mediorientale (Monaco, Lod, Ma’alot,
Parigi, Roma), quando si avvia un «processo di autonomia discorsiva
della tematica del terrorismo», che porterà per la prima volta —
anticipo sul dopo-11 settembre 2001 — a rispondere con azioni militari
ad azioni terroristiche (i raid contro Gheddafi dopo l’attentato di
Berlino dell’aprile 1986, oggi tema della serie tv Deutschland 86).
Benigno intravede un «curioso gioco delle parti» tra tecniche
insurrezionali dei gruppi controrivoluzionari e tecniche di repressione
dei regimi nati da rivoluzioni, e affronta lungamente il tema del
terrorismo islamico e del dibattito che ha suscitato. Dopo l’11
Settembre, con la «crociata contro il terrore» e la dottrina Bush, si
chiude questa ponderosa e articolata ricerca storica.
Grande
merito del volume è senz’altro di non rinchiudere in definizioni
standard processi storici complessi e compositi, lasciando che la
narrazione storica sovrapponga elementi non sempre omogenei e simili di
violenza politica, anche se tutti caratterizzati da aspetti comuni nelle
modalità o nelle finalità, nelle giustificazioni o negli obiettivi,
negli strumenti e negli effetti provocati. Anche Benigno, tuttavia,
sembra preso, nelle conclusioni, dal desiderio di offrire
un’interpretazione coerente e — forzando probabilmente il suo stesso
racconto nelle centinaia di pagine precedenti — è convinto che il
terrorismo odierno «presenta forti tratti di continuità con il percorso
bisecolare» raccontato. Confutando giustamente la criminalizzazione di
ogni combattente come terrorista e la retorica di un «nuovo» terrorismo
sulla base di una «fascinazione religiosa» e soprattutto della fede
islamica, tende a sottolineare troppo le continuità e a dimenticare le
differenze, che sono spesso il punto cruciale di ogni analisi
comparativa. Un elemento che avrebbe meritato attenzione — assieme ai
tentativi giuridici di dare sostanza anche storica all’accusa e
definizione di terrorismo — è la perdita o almeno il grave indebolimento
del discorso politico presente nelle azioni terroristiche, ridotte
spesso a mera tattica militare sganciata da ogni finalità concreta, come
pure nelle più disperate azioni della «propaganda col fatto» a cavallo
tra Otto e Novecento.