lunedì 14 gennaio 2019

Corriere La Lettura 13.1.19
+1% di migranti
secondo la rivista «Lancet» equivale a...
+2% di ricchezza
di Giuseppe Remuzzi


Che gruppi di individui o interi popoli decidano di lasciare le loro terre e migrare altrove non è certo una novità; tutti noi siamo figli di migranti e la nostra «identità nazionale» è di fatto «identità» di gente che ha lasciato le proprie terre per via del clima divenuto sfavorevole oppure per conflitti. Oggi però questo fenomeno è particolarmente sentito, con prese di posizione anche molto forti da parte di chi ha responsabilità di governo in diverse regioni del mondo — dagli Stati Uniti all’Europa all’Australia. C’è chi vorrebbe limitarla, l’immigrazione, o impedirla del tutto con due grandi argomenti, usati probabilmente anche in buona fede: «I migranti ci costano; non solo, ma gravano sul bilancio dei nostri sistemi sanitari». E ancora: «I migranti diffondono malattie».
È davvero così? Il «Lancet» — la più grande rivista di medicina dell’Europa — ha voluto vederci chiaro e ha lanciato un’iniziativa molto speciale: l’hanno chiamata Commission on Migration and Health, si trattava di individuare venti esperti fra sociologi, economisti, studiosi di salute pubblica e di diritto internazionale, umanisti e antropologi da almeno 13 Paesi diversi — che poi si sarebbero incontrati in varie occasioni — con l’obiettivo di studiare questo problema in ogni possibile dettaglio e arrivare a un documento condiviso che potesse eventualmente essere utilizzato da chi ha responsabilità di governo per orientare le proprie scelte.
Il risultato di questo lavoro è un rapporto di quasi 50 pagine, pieno di tabelle, figure, numeri che è appena stato pubblicato online (ma presto avremo anche la versione cartacea ancora più completa) con una quantità impressionante di informazioni. È di fatto il più grande sforzo che sia mai stato concepito per valutare gli effetti delle migrazioni sull’economia e sulla salute di chi ospita gente costretta a lasciare il proprio Paese.
Un dato per cominciare: le persone che nel 2018 hanno deciso di muoversi o che lo stanno facendo sono un miliardo, e la maggior parte di loro se ne va da Paesi poverissimi per raggiungere regioni un po’ meno povere o appena un po’ più sicure. I «migranti internazionali» — quelli di cui di questi tempi tutti parlano — sono stati invece 258 milioni, non molto di più di quanto è sempre successo da trent’anni a questa parte. Sull’intera popolazione mondiale i «migranti internazionali» rappresentavano il 2,9% nel 1990 e sono stati il 3,4% nel 2017. Di questi il 65% migra per trovare lavoro, mentre i richiedenti asilo sono relativamente pochi, non solo; i dati del «Lancet» indicano che il numero globale di rifugiati dal 1990 al 2011 è diminuito e che i migranti che si muovono all’interno di uno stesso Paese per via di siccità o di guerre sono comunque molti di più dei rifugiati o richiedenti asilo (coloro appunto che vengono considerati «migranti internazionali»). È vero che i Paesi industrializzati hanno avuto più «migranti internazionali» degli altri ma sono soprattutto studenti e lavoratori ed è ormai stabilito da diversi studi — e la “Lancet Commission” lo conferma — che questi ultimi contribuiscono alla crescita economica dei Paesi verso cui migrano. Chi ha più «migranti internazionali» è l’Asia (80 milioni) seguita dall’Europa (78 milioni) e dal Nord America (58 milioni).
In generale, e nonostante in questi calcoli siano compresi anche i rifugiati, lo studio del «Lancet» dimostra che ciascun aumento dell’1% nella popolazione adulta di migranti in una certa area geografica aumenta il Prodotto interno lordo (Pil) di quella regione del 2%. Per quanto il dibattito sia tuttora molto vivace, i più sono convinti del fatto che i migranti ricevano di più in contributi assistenziali di quanto non contribuiscano con le tasse all’economia di chi li ospita, ma l’analisi di tutti i dati disponibili lascia pochi dubbi: restituiscono più di quanto prendono, e migliorano il mercato del lavoro anche per gli altri. Non solo: i migranti contribuiscono al benessere globale in modo determinante, solo nel 2017 hanno spedito alle loro famiglie 613 miliardi di dollari che è molto di più — tre volte tanto a essere precisi — di quanto tutti i Paesi industrializzati messi insieme fanno nell’ambito della cooperazione internazionale a favore dei Paesi poveri. Per esempio in Nepal e Liberia, tanto per fare due esempi, un terzo del Pil viene da quanto mandano i migranti ai loro cari e questo ha avuto un impatto estremamente favorevole sulla qualità di vita di quei due Paesi.
Sul fatto invece che le cure ai migranti sottraggano risorse ai servizi di salute dei Paesi che li ospitano nessuno pare avere dubbi, ma nemmeno questo è sostenuto dai dati della letteratura. Invero i migranti rappresentano una risorsa importante per qualunque sistema sanitario del mondo occidentale, si pensi anche solo all’assistenza agli ultraottantenni fragili e non autosufficienti. Ma c’è di più, i migranti sono parte integrante dello staff di molti ospedali a vario titolo, ed è così da anni almeno per i servizi più umili — le pulizie, per esempio, e lo smaltimento dei rifiuti — ma lo è sempre più anche nelle funzioni apicali (basti pensare che nel Regno Unito il 37% dei medici non ha una laurea inglese, si sono laureati nell’Europa dell’Est, in India, in Africa o nel Sud-Est dell’Asia). Non solo: un nuovo studio condotto su 15,2 milioni di persone provenienti da 92 Paesi ha dimostrato che i migranti muoiono di meno di malattie cardiovascolari, digestive, respiratorie, nervose, mentali della popolazione generale; muoiono meno anche di tumori e — cosa davvero sorprendente — muoiono meno degli altri anche di eventi traumatici. Per le malattie del sangue e per quelle muscolo-scheletriche non ci sono differenze fra migranti e non, mentre di epatiti virali, tubercolosi e Hiv si ammalano e muoiono di più i migranti. Nonostante ciò, il rischio che i richiedenti asilo trasmettano queste malattie ai residenti è molto basso (niente a che vedere, per intenderci, con le terribili epidemie che gli europei hanno portato in America ai tempi della colonizzazione) e i dati disponibili dimostrano che la trasmissione è soprattutto da migrante a migrante e vale anche per la tubercolosi, incluse le forme resistenti.
Insomma: l’idea che i migranti portino infezioni non è sostenuta dalle evidenze disponibili in letteratura.
Pochi invece sembrano preoccuparsi del fatto che batteri e virus oggi viaggiano soprattutto in aereo e che le infezioni che importiamo dall’estero vengono dai viaggi intercontinentali, dal turismo di massa e dalle attività commerciali più che dai migranti. È da quei rischi che i sistemi sanitari di tutto il mondo devono imparare a difendersi e farlo per tempo, ma pensare di essere protetti perché si nega l’accesso a chi richiede asilo sarebbe un errore.
«Ma i migranti hanno tanti figli e questo potrebbe mettere a rischio i bambini degli altri — penserà qualcuno di voi — o non è vero nemmeno questo?».
Vediamo.
I dati finora disponibili dimostrano che quanto a fertilità i migranti acquisiscono le caratteristiche dei residenti (meno di 2,1 nascite per donna per chi è migrato in Francia, Germania, Spagna, Svizzera, Svezia e Regno Unito) e qualche volta hanno addirittura meno figli di chi li ospita e la tendenza è a diminuire ancora, con l’unica eccezione delle donne che vengono dalla Turchia; e non basta, i migranti interni — dell’India e dell’Etiopia per esempio — ricorrono più spesso a misure di contraccezione degli indigeni.
Non è detto che questo si applichi ai migranti clandestini e a quelli di cui non c’è documentazione; per loro non ci sono evidentemente abbastanza dati per fare analisi statistiche accurate. Nonostante tutto, però — scrive il «Lancet» —, la paura che i migranti o i loro bambini portino malattie e possano rappresentare fonte di contagio per i residenti ha favorito quasi dappertutto il diffondersi di misure restrittive che rasentano la detenzione. Questo non solo non ci protegge ma paradossalmente aumenta il rischio di contagio per loro e per noi.
La Commissione del «Lancet» su questo punto prende una posizione molto chiara: «Sono le condizioni igieniche precarie che rendono vulnerabili i richiedenti asilo, bisogna esserne consapevoli e sviluppare politiche che tengano conto delle conoscenze scientifiche e della complessità dei problemi». Non si dovrebbero mai improvvisare soluzioni sull’onda delle emozioni.
A questo punto il «Lancet» ha chiesto ai più illustri membri della Commissione di provare a interpretare le diverse realtà locali alla luce dei dati raccolti in questi tre anni di lavoro. Secondo Ibrahim Abubakar, che lavora a Londra, i migranti sono più sani degli inglesi, contribuiscono in modo sostanziale al funzionamento del servizio sanitario e all’economia del Paese «ma questo — scrive Abubakar — i politici non lo riconoscono, creano un ambiente ostile verso i rifugiati, negano loro le cure e questo ha un effetto negativo anche sui servizi che il Regno Unito potrebbe offrire ai suoi cittadini». Terry McGovern, che è professore di Salute pubblica alla Columbia University di New York, sostiene che i migranti sono parte essenziale della stabilità sociale e del benessere degli Stati Uniti. E aggiunge: «Deportarli o metterli in carcere li condanna a contrarre malattie che non avrebbero, ci sono almeno 38 studi che lo dimostrano e che enfatizzano le gravi conseguenze di queste scelte anche sulla salute mentale, messa a dura prova anche dal fatto di separare i bambini dai genitori». E Bernadette Kumar dell’Istituto norvegese di Salute pubblica aggiunge che nel Nord Europa le discriminazioni etniche hanno un effetto negativo sulla coesione sociale e rallentano il progresso. Il commento più interessante è forse quello di Nyovani Madise dell’Istituto africano per le politiche di sviluppo (lui lavora in Kenya ed è uno dei membri più influenti della Commissione): «Gli africani sono in generale molto mobili — dice —. I dati della “Lancet Commission” dimostrano che i migranti all’interno dell’Africa contribuiscono all’economia delle regioni verso cui migrano. Ma non solo, restituiscono soldi alle regioni da cui provengono, e questo aiuta il continente intero. E che dire dei dati che dimostrano come i migranti siano accolti meglio nelle aree più vicine a loro, che di solito hanno risorse limitate, mentre i Paesi ricchi che avrebbero certamente meno problemi tendono sempre di più a respingerli?».
Chissà, forse è venuto il tempo di chiedersi davvero se l’umanità non debba cogliere l’opportunità offerta dalle migrazioni per migliorare i propri servizi a vantaggio di tutti e specialmente di chi, se no, è destinato a restare ai margini della società senza poter portare il proprio contributo (che invece potrebbe essere prezioso) alla crescita globale.
Una volta conclusi i lavori della «Commissione» il direttore del «Lancet» che l’ha fortemente voluta, Richard Horton, ha rilasciato un’intervista bellissima: «Con sempre più aspirazioni da parte delle nuove generazioni a poter migliorare il proprio futuro, il fenomeno delle migrazioni non passerà ed è chiaro che chi lascia il proprio Paese contribuisce all’economia di chi li accoglie più di quanto costi. Dipende da noi prenderne vantaggio con la consapevolezza che il futuro delle nostre società e il benessere dei nostri figli dipenderà sempre di più dal modo con cui sapremo affrontare e governare questa emergenza: non c’è nulla di più importante in questo momento al mondo».
È verissimo. Anche perché negli anni a venire i cambiamenti del clima indurranno ancora più persone a muoversi (da qui al 2050 per esempio saranno 143 milioni quelli che lasceranno le loro case per trasferirsi altrove, anche solo all’interno del loro Paese, nessuno lo fa volentieri e va detto che i migranti del clima non sono protetti da nessuna legge). Un dramma? Forse, oppure il modo con cui l’umanità saprà adattarsi a circostanze climatiche diverse, a patto che tutto questo possa essere sostenuto da politiche di sviluppo e investimenti adeguati. E questa è responsabilità di tutti. I Paesi ricchi — scrive il «Lancet» — non possono lavarsene le mani.