Corriere La Lettura 13.1.19
+1% di migranti
secondo la rivista «Lancet» equivale a...
+2% di ricchezza
di Giuseppe Remuzzi
Che
gruppi di individui o interi popoli decidano di lasciare le loro terre e
migrare altrove non è certo una novità; tutti noi siamo figli di
migranti e la nostra «identità nazionale» è di fatto «identità» di gente
che ha lasciato le proprie terre per via del clima divenuto sfavorevole
oppure per conflitti. Oggi però questo fenomeno è particolarmente
sentito, con prese di posizione anche molto forti da parte di chi ha
responsabilità di governo in diverse regioni del mondo — dagli Stati
Uniti all’Europa all’Australia. C’è chi vorrebbe limitarla,
l’immigrazione, o impedirla del tutto con due grandi argomenti, usati
probabilmente anche in buona fede: «I migranti ci costano; non solo, ma
gravano sul bilancio dei nostri sistemi sanitari». E ancora: «I migranti
diffondono malattie».
È davvero così? Il «Lancet» — la più grande
rivista di medicina dell’Europa — ha voluto vederci chiaro e ha
lanciato un’iniziativa molto speciale: l’hanno chiamata Commission on
Migration and Health, si trattava di individuare venti esperti fra
sociologi, economisti, studiosi di salute pubblica e di diritto
internazionale, umanisti e antropologi da almeno 13 Paesi diversi — che
poi si sarebbero incontrati in varie occasioni — con l’obiettivo di
studiare questo problema in ogni possibile dettaglio e arrivare a un
documento condiviso che potesse eventualmente essere utilizzato da chi
ha responsabilità di governo per orientare le proprie scelte.
Il
risultato di questo lavoro è un rapporto di quasi 50 pagine, pieno di
tabelle, figure, numeri che è appena stato pubblicato online (ma presto
avremo anche la versione cartacea ancora più completa) con una quantità
impressionante di informazioni. È di fatto il più grande sforzo che sia
mai stato concepito per valutare gli effetti delle migrazioni
sull’economia e sulla salute di chi ospita gente costretta a lasciare il
proprio Paese.
Un dato per cominciare: le persone che nel 2018
hanno deciso di muoversi o che lo stanno facendo sono un miliardo, e la
maggior parte di loro se ne va da Paesi poverissimi per raggiungere
regioni un po’ meno povere o appena un po’ più sicure. I «migranti
internazionali» — quelli di cui di questi tempi tutti parlano — sono
stati invece 258 milioni, non molto di più di quanto è sempre successo
da trent’anni a questa parte. Sull’intera popolazione mondiale i
«migranti internazionali» rappresentavano il 2,9% nel 1990 e sono stati
il 3,4% nel 2017. Di questi il 65% migra per trovare lavoro, mentre i
richiedenti asilo sono relativamente pochi, non solo; i dati del
«Lancet» indicano che il numero globale di rifugiati dal 1990 al 2011 è
diminuito e che i migranti che si muovono all’interno di uno stesso
Paese per via di siccità o di guerre sono comunque molti di più dei
rifugiati o richiedenti asilo (coloro appunto che vengono considerati
«migranti internazionali»). È vero che i Paesi industrializzati hanno
avuto più «migranti internazionali» degli altri ma sono soprattutto
studenti e lavoratori ed è ormai stabilito da diversi studi — e la
“Lancet Commission” lo conferma — che questi ultimi contribuiscono alla
crescita economica dei Paesi verso cui migrano. Chi ha più «migranti
internazionali» è l’Asia (80 milioni) seguita dall’Europa (78 milioni) e
dal Nord America (58 milioni).
In generale, e nonostante in
questi calcoli siano compresi anche i rifugiati, lo studio del «Lancet»
dimostra che ciascun aumento dell’1% nella popolazione adulta di
migranti in una certa area geografica aumenta il Prodotto interno lordo
(Pil) di quella regione del 2%. Per quanto il dibattito sia tuttora
molto vivace, i più sono convinti del fatto che i migranti ricevano di
più in contributi assistenziali di quanto non contribuiscano con le
tasse all’economia di chi li ospita, ma l’analisi di tutti i dati
disponibili lascia pochi dubbi: restituiscono più di quanto prendono, e
migliorano il mercato del lavoro anche per gli altri. Non solo: i
migranti contribuiscono al benessere globale in modo determinante, solo
nel 2017 hanno spedito alle loro famiglie 613 miliardi di dollari che è
molto di più — tre volte tanto a essere precisi — di quanto tutti i
Paesi industrializzati messi insieme fanno nell’ambito della
cooperazione internazionale a favore dei Paesi poveri. Per esempio in
Nepal e Liberia, tanto per fare due esempi, un terzo del Pil viene da
quanto mandano i migranti ai loro cari e questo ha avuto un impatto
estremamente favorevole sulla qualità di vita di quei due Paesi.
Sul
fatto invece che le cure ai migranti sottraggano risorse ai servizi di
salute dei Paesi che li ospitano nessuno pare avere dubbi, ma nemmeno
questo è sostenuto dai dati della letteratura. Invero i migranti
rappresentano una risorsa importante per qualunque sistema sanitario del
mondo occidentale, si pensi anche solo all’assistenza agli
ultraottantenni fragili e non autosufficienti. Ma c’è di più, i migranti
sono parte integrante dello staff di molti ospedali a vario titolo, ed è
così da anni almeno per i servizi più umili — le pulizie, per esempio, e
lo smaltimento dei rifiuti — ma lo è sempre più anche nelle funzioni
apicali (basti pensare che nel Regno Unito il 37% dei medici non ha una
laurea inglese, si sono laureati nell’Europa dell’Est, in India, in
Africa o nel Sud-Est dell’Asia). Non solo: un nuovo studio condotto su
15,2 milioni di persone provenienti da 92 Paesi ha dimostrato che i
migranti muoiono di meno di malattie cardiovascolari, digestive,
respiratorie, nervose, mentali della popolazione generale; muoiono meno
anche di tumori e — cosa davvero sorprendente — muoiono meno degli altri
anche di eventi traumatici. Per le malattie del sangue e per quelle
muscolo-scheletriche non ci sono differenze fra migranti e non, mentre
di epatiti virali, tubercolosi e Hiv si ammalano e muoiono di più i
migranti. Nonostante ciò, il rischio che i richiedenti asilo trasmettano
queste malattie ai residenti è molto basso (niente a che vedere, per
intenderci, con le terribili epidemie che gli europei hanno portato in
America ai tempi della colonizzazione) e i dati disponibili dimostrano
che la trasmissione è soprattutto da migrante a migrante e vale anche
per la tubercolosi, incluse le forme resistenti.
Insomma: l’idea che i migranti portino infezioni non è sostenuta dalle evidenze disponibili in letteratura.
Pochi
invece sembrano preoccuparsi del fatto che batteri e virus oggi
viaggiano soprattutto in aereo e che le infezioni che importiamo
dall’estero vengono dai viaggi intercontinentali, dal turismo di massa e
dalle attività commerciali più che dai migranti. È da quei rischi che i
sistemi sanitari di tutto il mondo devono imparare a difendersi e farlo
per tempo, ma pensare di essere protetti perché si nega l’accesso a chi
richiede asilo sarebbe un errore.
«Ma i migranti hanno tanti
figli e questo potrebbe mettere a rischio i bambini degli altri —
penserà qualcuno di voi — o non è vero nemmeno questo?».
Vediamo.
I
dati finora disponibili dimostrano che quanto a fertilità i migranti
acquisiscono le caratteristiche dei residenti (meno di 2,1 nascite per
donna per chi è migrato in Francia, Germania, Spagna, Svizzera, Svezia e
Regno Unito) e qualche volta hanno addirittura meno figli di chi li
ospita e la tendenza è a diminuire ancora, con l’unica eccezione delle
donne che vengono dalla Turchia; e non basta, i migranti interni —
dell’India e dell’Etiopia per esempio — ricorrono più spesso a misure di
contraccezione degli indigeni.
Non è detto che questo si applichi
ai migranti clandestini e a quelli di cui non c’è documentazione; per
loro non ci sono evidentemente abbastanza dati per fare analisi
statistiche accurate. Nonostante tutto, però — scrive il «Lancet» —, la
paura che i migranti o i loro bambini portino malattie e possano
rappresentare fonte di contagio per i residenti ha favorito quasi
dappertutto il diffondersi di misure restrittive che rasentano la
detenzione. Questo non solo non ci protegge ma paradossalmente aumenta
il rischio di contagio per loro e per noi.
La Commissione del
«Lancet» su questo punto prende una posizione molto chiara: «Sono le
condizioni igieniche precarie che rendono vulnerabili i richiedenti
asilo, bisogna esserne consapevoli e sviluppare politiche che tengano
conto delle conoscenze scientifiche e della complessità dei problemi».
Non si dovrebbero mai improvvisare soluzioni sull’onda delle emozioni.
A
questo punto il «Lancet» ha chiesto ai più illustri membri della
Commissione di provare a interpretare le diverse realtà locali alla luce
dei dati raccolti in questi tre anni di lavoro. Secondo Ibrahim
Abubakar, che lavora a Londra, i migranti sono più sani degli inglesi,
contribuiscono in modo sostanziale al funzionamento del servizio
sanitario e all’economia del Paese «ma questo — scrive Abubakar — i
politici non lo riconoscono, creano un ambiente ostile verso i
rifugiati, negano loro le cure e questo ha un effetto negativo anche sui
servizi che il Regno Unito potrebbe offrire ai suoi cittadini». Terry
McGovern, che è professore di Salute pubblica alla Columbia University
di New York, sostiene che i migranti sono parte essenziale della
stabilità sociale e del benessere degli Stati Uniti. E aggiunge:
«Deportarli o metterli in carcere li condanna a contrarre malattie che
non avrebbero, ci sono almeno 38 studi che lo dimostrano e che
enfatizzano le gravi conseguenze di queste scelte anche sulla salute
mentale, messa a dura prova anche dal fatto di separare i bambini dai
genitori». E Bernadette Kumar dell’Istituto norvegese di Salute pubblica
aggiunge che nel Nord Europa le discriminazioni etniche hanno un
effetto negativo sulla coesione sociale e rallentano il progresso. Il
commento più interessante è forse quello di Nyovani Madise dell’Istituto
africano per le politiche di sviluppo (lui lavora in Kenya ed è uno dei
membri più influenti della Commissione): «Gli africani sono in generale
molto mobili — dice —. I dati della “Lancet Commission” dimostrano che i
migranti all’interno dell’Africa contribuiscono all’economia delle
regioni verso cui migrano. Ma non solo, restituiscono soldi alle regioni
da cui provengono, e questo aiuta il continente intero. E che dire dei
dati che dimostrano come i migranti siano accolti meglio nelle aree più
vicine a loro, che di solito hanno risorse limitate, mentre i Paesi
ricchi che avrebbero certamente meno problemi tendono sempre di più a
respingerli?».
Chissà, forse è venuto il tempo di chiedersi
davvero se l’umanità non debba cogliere l’opportunità offerta dalle
migrazioni per migliorare i propri servizi a vantaggio di tutti e
specialmente di chi, se no, è destinato a restare ai margini della
società senza poter portare il proprio contributo (che invece potrebbe
essere prezioso) alla crescita globale.
Una volta conclusi i
lavori della «Commissione» il direttore del «Lancet» che l’ha fortemente
voluta, Richard Horton, ha rilasciato un’intervista bellissima: «Con
sempre più aspirazioni da parte delle nuove generazioni a poter
migliorare il proprio futuro, il fenomeno delle migrazioni non passerà
ed è chiaro che chi lascia il proprio Paese contribuisce all’economia di
chi li accoglie più di quanto costi. Dipende da noi prenderne vantaggio
con la consapevolezza che il futuro delle nostre società e il benessere
dei nostri figli dipenderà sempre di più dal modo con cui sapremo
affrontare e governare questa emergenza: non c’è nulla di più importante
in questo momento al mondo».
È verissimo. Anche perché negli anni
a venire i cambiamenti del clima indurranno ancora più persone a
muoversi (da qui al 2050 per esempio saranno 143 milioni quelli che
lasceranno le loro case per trasferirsi altrove, anche solo all’interno
del loro Paese, nessuno lo fa volentieri e va detto che i migranti del
clima non sono protetti da nessuna legge). Un dramma? Forse, oppure il
modo con cui l’umanità saprà adattarsi a circostanze climatiche diverse,
a patto che tutto questo possa essere sostenuto da politiche di
sviluppo e investimenti adeguati. E questa è responsabilità di tutti. I
Paesi ricchi — scrive il «Lancet» — non possono lavarsene le mani.