Corriere La Lettura 13.1.19
Il fuoco vero della protesta
Gli altri dodici Jan Palach
di Federigo Argentieri
Il
16 gennaio 1969 «la fiamma violenta e atroce», per dirla con Francesco
Guccini, bruciava il corpo dello studente Jan Palach, il quale aveva
deciso di compiere quel gesto estremo per protestare contro il lento ma
sicuro soffocamento, da parte dell’Urss e dei suoi alleati, delle
istanze di libertà e democrazia che si erano sviluppate nell’anno
precedente in Cecoslovacchia e che erano state interrotte
dall’intervento armato del 21 agosto, dieci giorni dopo il suo ventesimo
compleanno; ma soprattutto contro la scarsa resistenza che tale
soffocamento incontrava. La morte del giovane, avvenuta il 19 gennaio,
ebbe enorme risonanza internazionale: in Italia la costernazione e la
solidarietà furono quasi unanimi, come lo era stata la condanna
dell’intervento armato.
A lui furono poi dedicate varie canzoni.
Oltre a Primavera di Praga di Guccini e a Mourir dans tes bras
dell’italo-belga Adamo (vedi intervista nella pagina seguente), anche
Jan Palach della Compagnia dell’Anello e la più recente Le fate di Praga
di Sköll, queste ultime due dichiaratamente di destra. Anche l’editoria
manifestò interesse, con decine e decine di pubblicazioni di buon
livello, dalle Edizioni del Borghese a Samonà e Savelli passando per
Sugarco e gli Editori Riuniti: in tal modo la contrapposizione frontale
sulla rivoluzione ungherese del 1956 apparve superata e si potrebbe
addirittura azzardare il termine, così raro in Italia, di «memoria
condivisa» per tutto il complesso di eventi.
Il grande slavista
Angelo Maria Ripellino aveva a quel tempo rilevato che Tomáš Masaryk,
fondatore della Cecoslovacchia, «aveva svolto a Vienna nel 1881 la sua
tesi di laurea sul “suicidio come fenomeno di massa della civiltà
moderna” (…): con quel lavoro (…) si proponeva di render chiaro che “la
vita senza fede perde forza e certezza”». Palach era certamente un
seguace di Masaryk, come la sua famiglia. A 15 anni aveva appreso,
restandone assai colpito, del suicidio di Thích Quang Dúc, un monaco
buddista vietnamita che si era dato fuoco per protestare contro le
persecuzioni del governo di Saigon. È probabile che avesse saputo anche
del gesto analogo compiuto a Washington due anni dopo, nel 1965, dal
quacchero Norman Morrison, per protestare contro le uccisioni di bambini
durante la guerra in Vietnam.
Già prima però, l’8 settembre 1968,
a 18 giorni dall’invasione della Cecoslovacchia compiuta anche da
truppe del suo Paese, il cittadino polacco Ryszard Siwiec, veterano
della Resistenza antinazista e antisovietica, si dette fuoco nello
stadio di Varsavia dove si svolgeva la «festa del raccolto», alla
presenza delle massime autorità. Morì quattro giorni dopo, lasciando
moglie e cinque figli: sebbene molte persone nello stadio avessero visto
che cosa aveva fatto, la polizia riuscì a evitare che la notizia
venisse diffusa. Solo sei mesi dopo la redazione polacca di Radio Free
Europe (situata in Germania) ruppe il silenzio e rivelò che Palach non
era stato la «torcia umana numero 1», almeno non sul piano
internazionale.
Meno di due mesi dopo, il 5 novembre, toccò
all’ucraino Vasyl Makuch, anch’egli veterano della Resistenza
antinazista e antisovietica, immolarsi per protesta contro l’oppressione
del suo Paese e per l’invasione della Cecoslovacchia: il luogo
prescelto per il sacrificio era non lontano dalla piazza Maidan, lungo
il viale Kreshchatik. Makuch morì il giorno dopo e in questo caso,
nonostante la vigilanza del Kgb locale, la notizia trapelò sia tra gli
ucraini, molti dei quali avevano visto i carri armati sfilare verso la
frontiera cecoslovacca, sia all’estero. Nove anni dopo, il 21 gennaio
1978, un altro ucraino, Oleksa Hirnyk, compì il gesto estremo per
protestare contro la russificazione e la cancellazione dell’identità
nazionale ucraina, così come il tataro di Crimea Musa Mamut il 23 giugno
successivo, per denunciare l’oppressione della sua nazionalità da parte
dell’Urss.
Non risulta che Palach sapesse di Siwiec e Makuch,
poiché nulla trapelò dalle note scritte che aveva lasciato. Invece
Sándor Bauer, un liceale ungherese appena sedicenne, dichiarò
esplicitamente di aver voluto seguire il suo esempio, tanto che
anch’egli si dette fuoco sulla scalinata del Museo nazionale a Budapest
il 20 gennaio 1969, il giorno dopo la morte di Palach, definito «il
fratello ceco che ha fatto la stessa cosa». Morì tre giorni dopo. La
lapide apposta dal partito di governo Fidesz nel 2001 non menziona la
Cecoslovacchia. Va rilevato che in tutti questi casi le angherie
poliziesche seguirono un iter analogo: stretto controllo o addirittura
stato di arresto per il moribondo, persecuzione di famigliari ed amici,
confisca di materiali, obbligo di svolgere il funerale in segreto,
diffamazione costante del personaggio, definito «squilibrato», eccetera.
Se Palach non fu la «prima torcia» nei Paesi del blocco sovietico, lo
fu certamente nel suo, tanto che il suo esempio fu seguito quasi subito.
Sempre il 20 gennaio, infatti, il venticinquenne Josef Hlavatý si
bruciava a Pilsen, nella Boemia occidentale, e spirava cinque giorni
dopo: alla base del suo gesto probabilmente vi erano anche ragioni
personali (divorzio), ma era stato molto attivo durante la Primavera.
Passò
un mese e fu la volta di Jan Zajíc, anche lui proveniente da una
famiglia di orientamento democratico anticomunista: è impressionante
come le origini politiche di tutte queste vittime fossero affini, cosa
che dovrebbe far riflettere chiunque tenti di impossessarsi della loro
memoria. Per essere più chiari, all’epoca il Pci si trovò in difficoltà,
nonostante l’appoggio quasi immediato dato da Luigi Longo ad Alexander
Dubcek; ma una destra che agitava simultaneamente cartelli che dicevano
«comunisti vergogna» e altri che inneggiavano ai colonnelli golpisti
greci non faceva certo miglior figura.
Diversa dai precedenti era
l’origine politica di Evžen Plocek, operaio di Jihlava iscritto al
Partito comunista e sostenitore delle riforme dubcekiane. Dichiaratosi
stufo della compagnia forzata dei «normalizzatori», disperando ormai che
gli eventi negativi potessero essere ribaltati, si diede fuoco alla
vigilia della destituzione di Dubcek dal partito, il 4 aprile 1969,
venerdì santo.
Poco più di un anno dopo, nel maggio 1970, spirava
in Romania il ventinovenne Márton Moyses, di chiara origine ungherese
transilvana. Subito dopo la rivoluzione del 1956, ad appena 15 anni,
assieme a tre coetanei aveva cercato invano di oltrepassare il confine
nella speranza di unirsi alla Resistenza contro i sovietici. Individuato
grazie a un delatore come elemento ostile al regime per la solidarietà
verso la rivoluzione ungherese e per le sue poesie critiche, fu
processato nel 1960 e condannato a due anni di carcere. Due mesi prima
di essere liberato, per paura di rivelare qualcosa di compromettente per
i «complici», si tagliò parte della lingua con un filo e fu ricoverato
in infermeria, poi rilasciato. Non si hanno molte informazioni sulla sua
attività successiva: pur essendo dotato, non proseguì l’attività
letteraria né cercò un impiego fisso. Svolse attività saltuarie,
interessandosi di folklore e di altri temi, lavorando come giornaliero
in una cooperativa agricola, ma vivendo isolato. Il 13 febbraio 1970,
circa un anno dopo la morte di Palach e quella di Bauer, si recò nella
città di Brasov, davanti alla locale sede del Partito comunista, dove si
cosparse di benzina e si diede fuoco. Ricoverato in ospedale sotto
sorveglianza poliziesca, morì tre mesi dopo, il 13 maggio.
Quasi
esattamente due anni dopo, il 14 maggio 1972, fu la volta del
diciannovenne lituano Romas Kalanta, che compì il suo gesto nella città
di Kaunas, di fronte all’edificio che ospitava il locale Partito
comunista e i suoi controllori sovietici. Il giovane spirò il giorno
dopo, nel suo taccuino aveva scritto: «Accusate il regime totalitario
della mia morte». L’imposizione poliziesca alla famiglia di anticipare
il funerale di due ore suscitò un’ondata di indignazione tra i suoi
amici e sfociò in due giorni di tumulti che portarono all’arresto di 402
persone: 7 furono condannate a pene detentive, mentre gli espulsi da
scuole e università e licenziati dal posto di lavoro si contarono a
centinaia. Il rapporto finale del Kgb locale sosteneva che altre 13
persone nelle settimane e mesi successivi avevano seguito l’esempio di
Kalanta, che fu dichiarato malato mentale, non in possesso delle sue
facoltà al momento di compiere il gesto, ancorché riabilitato e
considerato sano e cosciente non appena l’Urss si dissolse e la Lituania
riottenne l’indipendenza.
Infine, vanno ricordati il pastore
luterano tedesco-orientale Oskar Brüsewitz (suicida nel 1976) e
l’operaio romeno Liviu Cornel Babes, quest’ultimo immolatosi anch’egli a
Brasov nel 1989, pochi mesi prima del crollo di Nicolae Ceausescu, la
cui uscita di scena fu l’unica a carattere violento nella regione.
I
«capolavori della storia», ossia le rivoluzioni pacifiche del 1989
(definizione di Jacques Levesque), avrebbero reso giustizia a queste
anime inquiete, così come alla rivoluzione ungherese del 1956, alla
Primavera di Praga e alle istanze indipendentiste ucraine e baltiche.
Oggi Palach e tutti gli altri, morti suicidi per protesta contro regimi
comunisti burocratici e oppressivi e contro l’indifferenza e la
passività che intenzionalmente essi generavano, sono ricordati con
affetto e commozione, quando non sono stati elevati al Pantheon degli
eroi nazionali. L’uso frequente dell’autoimmolazione col fuoco anche da
parte dei monaci tibetani contro l’occupazione cinese pone la domanda se
questo non sia da considerare un metodo di protesta tipicamente rivolto
contro le tirannie comuniste. Sarebbe però più opportuno precisare:
anche contro tutte le altre, nessuna esclusa.