lunedì 14 gennaio 2019

Corriere La Lettura 13.1.19
Il fuoco vero della protesta
Gli altri dodici Jan Palach
di Federigo Argentieri

Il 16 gennaio 1969 «la fiamma violenta e atroce», per dirla con Francesco Guccini, bruciava il corpo dello studente Jan Palach, il quale aveva deciso di compiere quel gesto estremo per protestare contro il lento ma sicuro soffocamento, da parte dell’Urss e dei suoi alleati, delle istanze di libertà e democrazia che si erano sviluppate nell’anno precedente in Cecoslovacchia e che erano state interrotte dall’intervento armato del 21 agosto, dieci giorni dopo il suo ventesimo compleanno; ma soprattutto contro la scarsa resistenza che tale soffocamento incontrava. La morte del giovane, avvenuta il 19 gennaio, ebbe enorme risonanza internazionale: in Italia la costernazione e la solidarietà furono quasi unanimi, come lo era stata la condanna dell’intervento armato.
A lui furono poi dedicate varie canzoni. Oltre a Primavera di Praga di Guccini e a Mourir dans tes bras dell’italo-belga Adamo (vedi intervista nella pagina seguente), anche Jan Palach della Compagnia dell’Anello e la più recente Le fate di Praga di Sköll, queste ultime due dichiaratamente di destra. Anche l’editoria manifestò interesse, con decine e decine di pubblicazioni di buon livello, dalle Edizioni del Borghese a Samonà e Savelli passando per Sugarco e gli Editori Riuniti: in tal modo la contrapposizione frontale sulla rivoluzione ungherese del 1956 apparve superata e si potrebbe addirittura azzardare il termine, così raro in Italia, di «memoria condivisa» per tutto il complesso di eventi.
Il grande slavista Angelo Maria Ripellino aveva a quel tempo rilevato che Tomáš Masaryk, fondatore della Cecoslovacchia, «aveva svolto a Vienna nel 1881 la sua tesi di laurea sul “suicidio come fenomeno di massa della civiltà moderna” (…): con quel lavoro (…) si proponeva di render chiaro che “la vita senza fede perde forza e certezza”». Palach era certamente un seguace di Masaryk, come la sua famiglia. A 15 anni aveva appreso, restandone assai colpito, del suicidio di Thích Quang Dúc, un monaco buddista vietnamita che si era dato fuoco per protestare contro le persecuzioni del governo di Saigon. È probabile che avesse saputo anche del gesto analogo compiuto a Washington due anni dopo, nel 1965, dal quacchero Norman Morrison, per protestare contro le uccisioni di bambini durante la guerra in Vietnam.
Già prima però, l’8 settembre 1968, a 18 giorni dall’invasione della Cecoslovacchia compiuta anche da truppe del suo Paese, il cittadino polacco Ryszard Siwiec, veterano della Resistenza antinazista e antisovietica, si dette fuoco nello stadio di Varsavia dove si svolgeva la «festa del raccolto», alla presenza delle massime autorità. Morì quattro giorni dopo, lasciando moglie e cinque figli: sebbene molte persone nello stadio avessero visto che cosa aveva fatto, la polizia riuscì a evitare che la notizia venisse diffusa. Solo sei mesi dopo la redazione polacca di Radio Free Europe (situata in Germania) ruppe il silenzio e rivelò che Palach non era stato la «torcia umana numero 1», almeno non sul piano internazionale.
Meno di due mesi dopo, il 5 novembre, toccò all’ucraino Vasyl Makuch, anch’egli veterano della Resistenza antinazista e antisovietica, immolarsi per protesta contro l’oppressione del suo Paese e per l’invasione della Cecoslovacchia: il luogo prescelto per il sacrificio era non lontano dalla piazza Maidan, lungo il viale Kreshchatik. Makuch morì il giorno dopo e in questo caso, nonostante la vigilanza del Kgb locale, la notizia trapelò sia tra gli ucraini, molti dei quali avevano visto i carri armati sfilare verso la frontiera cecoslovacca, sia all’estero. Nove anni dopo, il 21 gennaio 1978, un altro ucraino, Oleksa Hirnyk, compì il gesto estremo per protestare contro la russificazione e la cancellazione dell’identità nazionale ucraina, così come il tataro di Crimea Musa Mamut il 23 giugno successivo, per denunciare l’oppressione della sua nazionalità da parte dell’Urss.
Non risulta che Palach sapesse di Siwiec e Makuch, poiché nulla trapelò dalle note scritte che aveva lasciato. Invece Sándor Bauer, un liceale ungherese appena sedicenne, dichiarò esplicitamente di aver voluto seguire il suo esempio, tanto che anch’egli si dette fuoco sulla scalinata del Museo nazionale a Budapest il 20 gennaio 1969, il giorno dopo la morte di Palach, definito «il fratello ceco che ha fatto la stessa cosa». Morì tre giorni dopo. La lapide apposta dal partito di governo Fidesz nel 2001 non menziona la Cecoslovacchia. Va rilevato che in tutti questi casi le angherie poliziesche seguirono un iter analogo: stretto controllo o addirittura stato di arresto per il moribondo, persecuzione di famigliari ed amici, confisca di materiali, obbligo di svolgere il funerale in segreto, diffamazione costante del personaggio, definito «squilibrato», eccetera. Se Palach non fu la «prima torcia» nei Paesi del blocco sovietico, lo fu certamente nel suo, tanto che il suo esempio fu seguito quasi subito. Sempre il 20 gennaio, infatti, il venticinquenne Josef Hlavatý si bruciava a Pilsen, nella Boemia occidentale, e spirava cinque giorni dopo: alla base del suo gesto probabilmente vi erano anche ragioni personali (divorzio), ma era stato molto attivo durante la Primavera.
Passò un mese e fu la volta di Jan Zajíc, anche lui proveniente da una famiglia di orientamento democratico anticomunista: è impressionante come le origini politiche di tutte queste vittime fossero affini, cosa che dovrebbe far riflettere chiunque tenti di impossessarsi della loro memoria. Per essere più chiari, all’epoca il Pci si trovò in difficoltà, nonostante l’appoggio quasi immediato dato da Luigi Longo ad Alexander Dubcek; ma una destra che agitava simultaneamente cartelli che dicevano «comunisti vergogna» e altri che inneggiavano ai colonnelli golpisti greci non faceva certo miglior figura.
Diversa dai precedenti era l’origine politica di Evžen Plocek, operaio di Jihlava iscritto al Partito comunista e sostenitore delle riforme dubcekiane. Dichiaratosi stufo della compagnia forzata dei «normalizzatori», disperando ormai che gli eventi negativi potessero essere ribaltati, si diede fuoco alla vigilia della destituzione di Dubcek dal partito, il 4 aprile 1969, venerdì santo.
Poco più di un anno dopo, nel maggio 1970, spirava in Romania il ventinovenne Márton Moyses, di chiara origine ungherese transilvana. Subito dopo la rivoluzione del 1956, ad appena 15 anni, assieme a tre coetanei aveva cercato invano di oltrepassare il confine nella speranza di unirsi alla Resistenza contro i sovietici. Individuato grazie a un delatore come elemento ostile al regime per la solidarietà verso la rivoluzione ungherese e per le sue poesie critiche, fu processato nel 1960 e condannato a due anni di carcere. Due mesi prima di essere liberato, per paura di rivelare qualcosa di compromettente per i «complici», si tagliò parte della lingua con un filo e fu ricoverato in infermeria, poi rilasciato. Non si hanno molte informazioni sulla sua attività successiva: pur essendo dotato, non proseguì l’attività letteraria né cercò un impiego fisso. Svolse attività saltuarie, interessandosi di folklore e di altri temi, lavorando come giornaliero in una cooperativa agricola, ma vivendo isolato. Il 13 febbraio 1970, circa un anno dopo la morte di Palach e quella di Bauer, si recò nella città di Brasov, davanti alla locale sede del Partito comunista, dove si cosparse di benzina e si diede fuoco. Ricoverato in ospedale sotto sorveglianza poliziesca, morì tre mesi dopo, il 13 maggio.
Quasi esattamente due anni dopo, il 14 maggio 1972, fu la volta del diciannovenne lituano Romas Kalanta, che compì il suo gesto nella città di Kaunas, di fronte all’edificio che ospitava il locale Partito comunista e i suoi controllori sovietici. Il giovane spirò il giorno dopo, nel suo taccuino aveva scritto: «Accusate il regime totalitario della mia morte». L’imposizione poliziesca alla famiglia di anticipare il funerale di due ore suscitò un’ondata di indignazione tra i suoi amici e sfociò in due giorni di tumulti che portarono all’arresto di 402 persone: 7 furono condannate a pene detentive, mentre gli espulsi da scuole e università e licenziati dal posto di lavoro si contarono a centinaia. Il rapporto finale del Kgb locale sosteneva che altre 13 persone nelle settimane e mesi successivi avevano seguito l’esempio di Kalanta, che fu dichiarato malato mentale, non in possesso delle sue facoltà al momento di compiere il gesto, ancorché riabilitato e considerato sano e cosciente non appena l’Urss si dissolse e la Lituania riottenne l’indipendenza.
Infine, vanno ricordati il pastore luterano tedesco-orientale Oskar Brüsewitz (suicida nel 1976) e l’operaio romeno Liviu Cornel Babes, quest’ultimo immolatosi anch’egli a Brasov nel 1989, pochi mesi prima del crollo di Nicolae Ceausescu, la cui uscita di scena fu l’unica a carattere violento nella regione.
I «capolavori della storia», ossia le rivoluzioni pacifiche del 1989 (definizione di Jacques Levesque), avrebbero reso giustizia a queste anime inquiete, così come alla rivoluzione ungherese del 1956, alla Primavera di Praga e alle istanze indipendentiste ucraine e baltiche. Oggi Palach e tutti gli altri, morti suicidi per protesta contro regimi comunisti burocratici e oppressivi e contro l’indifferenza e la passività che intenzionalmente essi generavano, sono ricordati con affetto e commozione, quando non sono stati elevati al Pantheon degli eroi nazionali. L’uso frequente dell’autoimmolazione col fuoco anche da parte dei monaci tibetani contro l’occupazione cinese pone la domanda se questo non sia da considerare un metodo di protesta tipicamente rivolto contro le tirannie comuniste. Sarebbe però più opportuno precisare: anche contro tutte le altre, nessuna esclusa.