lunedì 28 gennaio 2019

Corriere della Sera 28.1.19
Accuse al compagno della madre
Orrore in casa
Ucciso a 7 anni a mani nude
di Fulvio Bufi


Un bambino di sette anni ucciso a mani nude e a colpi di scopa, la sorellina di otto picchiata e grave in ospedale. Sotto interrogatorio nella notte, da parte del pm e della polizia, il compagno della madre dei due bambini. La tragedia a Cardito, nel Napoletano, vicino ad Acerra, luogo di nascita del 24enne di origine tunisina. A dare l’allarme, ieri pomeriggio, i vicini di casa della coppia che avevano sentito le urla dei bambini. Nell’abitazione anche la figlioletta dell’uomo, 4 anni, illesa.

NAPOLI La telefonata al 112 è arrivata nel primo pomeriggio: «In via Marconi a Cardito c’è qualcuno che grida, deve esserci una lite in famiglia».
Era molto peggio. Quando una pattuglia della polizia ha raggiunto l’indirizzo indicato e gli agenti sono entrati nell’appartamento da dove provenivano le urla, hanno trovato un bambino di sette anni riverso su un divano. Morto. Poco distante la sorellina, un anno più grande, con il volto massacrato. C’era anche un’altra bambina, di quattro anni, ma nessuno le aveva fatto niente.
Cardito è uno dei tanti paesi dell’entroterra napoletano, e in via Marconi, in quell’appartamento all’interno di un vecchio palazzo con un grande portone nero e un piccolo cortile dal quale si accede alle scale, convivevano Badre Tony Essobti, 24 anni, di origini tunisine ma nato in Italia, ad Acerra, e Valentina Caso, trent’anni, trasferitasi lì dalla penisola sorrentina. Con la coppia tre bambini: la più piccola figlia di entrambi, gli altri due soltanto della donna, che li aveva avuti da una precedente unione.
Essobti è uno che è sempre vissuto ai margini della legalità. Non soltanto per l’attività di venditore ambulante senza licenza, ma soprattutto per gli arresti e le denunce accumulati in passato per scippi e furti. Adesso, però, si ritrova addosso un’accusa di omicidio, perché tutti i sospetti per la morte di quel bimbo, che si chiamava Giuseppe, e per il pestaggio della sorella ricadono su di lui.
Anche se quello che è successo nell’appartamento non è ancora chiaro fino in fondo, anche se solo l’autopsia dirà come è morto il bambino, il quadro secondo la polizia e i magistrati della Procura di Napoli Nord, guidata da Francesco Greco, è già abbastanza chiaro: i due fratellini sono stati picchiati con una violenza inaudita.
La famiglia
Il 24enne sotto accusa è il padre della terza figlia della donna, unica bimba rimasta illesa
Il più piccolo ha subito colpi fatali, l’altra è stata più fortunata: non ha lesioni interne, anche se i segni dei colpi ricevuti sono evidenti su tutto il corpo, non soltanto sul viso. Per fortuna è vigile e cosciente, e anzi è stata proprio lei a dare un contributo all’indirizzo che hanno preso le indagini quando, mentre veniva portata via dall’appartamento per essere accompagnata in ospedale, ha detto che il compagno della madre aveva picchiato con una scopa sia lei che suo fratello.
Perché lo abbia fatto è quello che gli inquirenti hanno cercato di farsi spiegare durante un lungo interrogatorio iniziato alle otto di sera e andato avanti fino a notte inoltrata. Essobti lo ha sostenuto in qualità di indagato, assistito quindi da un avvocato difensore e con la prospettiva di essere trasferito subito dopo in carcere, perché sottoposto a un provvedimento di fermo da parte del pubblico ministero.
La prima versione che l’uomo ha fornito alla polizia non ha fatto che aggravare la sua posizione, perché ha cercato di convincere gli agenti che i bambini fossero caduti dalle scale. Ma si tratta di una bugia fin troppo evidente, visto il tipo di ferite. C’è invece un’ipotesi agghiacciante: che si sia accanito sui figli della compagna perché riteneva che lei avesse verso di loro troppe attenzioni e li preferisse all’altra bambina.

Corriere della Sera 28.1.19
In ospedale
I medici e il viso tumefatto della piccola che si è salvata
«Mai visto nulla di simile»
di F. B.


NAPOLI Cominciata con le grida che hanno destato allarme nei vicini di casa di Badre Tony Essobti e della sua compagna Valentina Caso, tanto da indurli ad avvertire le forze dell’ordine, la tragedia di Cardito è segnata da due momenti di profondo silenzio. Il primo ha come teatro l’ospedale pediatrico Santobono di Napoli, dove la sorellina di Giuseppe, il bambino ucciso, è stata trasportata e dove è tuttora ricoverata. Quando l’hanno visitata, quando hanno visto il suo volto gonfio e tumefatto, i medici sono rimasti attoniti. Muti.
Il Santobono è il più grande ospedale pediatrico del Sud, al pronto soccorso arrivano casi di ogni genere, ma una creatura ridotta a quel modo da percosse e bastonate, dicono che nemmeno lì l’avevano mai vista.
L’altro momento di silenzio assoluto, è andato in scena invece a Cardito, in via Marconi, dove dal pomeriggio si è radunata una folla che con il passare delle ore è andata sempre più crescendo. Era una folla vociante, i commenti alla tragedia si alternavano a qualche pettegolezzo sui rapporti tra Badre Tony e la sua compagna, più grande di lui, sui loro screzi che però mai avrebbero fatto pensare a un epilogo come questo.
Una folla che quando dal portone del palazzo è uscita Valentina Caso, sconvolta e rannicchiata sul sedile posteriore di un’auto civile della polizia, è diventata addirittura urlante. Grida e anche insulti all’indirizzo della donna, accusata evidentemente di non aver protetto i figli dalla violenza del suo uomo. In realtà la Caso non è accusata di nulla, il magistrato l’ha sentita come teste, anche se in effetti è poco convincente quando dice di non essersi accorta di quello che stava succedendo in casa.
La folla in strada
Le urla contro la madre accusata di non aver protetto i figli dalla violenza, poi il silenzio davanti alla bara
Tutte le voci, i commenti, le mezze frasi della gente in strada si sono fermate all’improvviso in serata, quando, conclusi i rilievi della polizia scientifica, è stato possibile trasferire il corpo del piccolo Giuseppe all’obitorio del Policlinico di Napoli, dove sarà eseguita l’autopsia.
Quando dal cortile del palazzo è spuntato il carro funebre tutti sono ammutoliti. In strada si sentiva soltanto il rumore del motore del furgone scuro che si è allontanato scortato da un’auto della polizia.
Poi nessuno ha più avuto voglia di commentare. «Queste cose le vedi in televisione — ha detto a bassa voce il sindaco di Cardito, Giuseppe Cirillo — ma quando succedono sulla tua pelle, a casa tua, non riesci proprio a capacitartene».
Queste cose le vedi in tv, se succedo-no a casa tua non te ne capaciti

Corriere 28.1.19
Dati choc e possibili rimedi
I neonati al Sud muoiono il 40% in più
di Federico Fubini


Nel 1994 Al Gore, vicepresidente degli Stati Uniti, chiese a un gruppo di ricercatori se e come fosse possibile prevedere il fallimento di uno Stato e il collasso dell’ordine pubblico. Gli studiosi raccolsero una massa di dati su centinaia di Paesi e li consegnarono alla Cia, che li rese pubblici. Un professore di Harvard, Gary King, li analizzò e arrivò a una conclusione: l’indizio che permette di prevedere con più sicurezza di qualunque altro l’avvitamento di un Paese verso la condizione di «Stato fallito» è la mortalità infantile.
P iù bambini muoiono nei loro primi dodici mesi di vita, più è probabile che l’ordine pubblico andrà in pezzi e quella nazione diventi santuario di mafie, terrorismo, epidemie.
L’Italia in questo è fra i Paesi più solidi al mondo. Per fortuna, e per merito del Servizio sanitario nazionale, la mortalità infantile è fra le più basse nella cinquantina di economie principali della Terra. Non raggiunge i livelli da record dell’Islanda (0,7 per mille), o della Finlandia (1,9), ma a quota 2,8 per mille bambini nati vivi è la decima più bassa al mondo e nettamente davanti a Danimarca, Germania, Olanda, Francia o Canada. Anche attraverso la crisi economica il miglioramento non si è mai fermato e anzi dal 2005 si registra un calo di decessi dello 0,8 per mille: significa che nel 2016 si sono salvati quasi 400 bambini che dieci anni prima sarebbero stati persi. È uno dei successi più spettacolari, e poco raccontati, di un Paese che per quasi tutto il resto sembra aver perso stima di sé. In questo la serie di quattro decessi in pochi mesi in un reparto di neonatologia di Brescia sembra avere a che fare più con la fatalità e la sfortuna che con negligenze o problemi dell’ospedale stesso.
Le diseguaglianze in culla
Tutto ciò naturalmente vale per i grandi numeri. Ma è quando si guarda dentro le medie che vengono a galla sorprese meno rassicuranti. Soprattutto, viene fuori che in Italia «la disuguaglianza inizia nella culla». È il titolo di uno studio pubblicato di recente sulla rivista Pediatria da Mario De Curtis della Sapienza di Roma e da Silvia Simeoni dell’Istat.
I due ricercatori, sulla base dei dati di natalità e mortalità infantile del 2015, arrivano a una conclusione per molti aspetti sconvolgente: le probabilità di morire durante i primi dodici mesi di vita sono del 40 per cento più alte nelle regioni meridionali che nel Nord del Paese. E la vulnerabilità della popolazione immigrata ai problemi sanitari resta alta in misura abnorme: gli stranieri rappresentano l’8 per cento della popolazione, il 15 per cento delle nuove nascite (da entrambi genitori di nazionalità estera) e il 23 per cento della mortalità infantile.
Le ineguaglianze tra regioni
Lo studio di De Curtis e Simeoni è basato sul 2015, ma di recente l’Istat ha aggiornato i dati al 2016 e le differenze risultano altrettanto marcate. Forse anzi lo sono di più, visto anche che la popolazione di bambini in Italia è sempre più limitata e il Paese continua ogni anno a registrare circa 15 mila nascite in meno rispetto all’anno prima.
Il grafico in pagina mostra che la mortalità infantile in Italia varia dal 2,29 per mille a Nordest (il livello della Norvegia, quinta migliore performance al mondo) al 3,68 per mille delle Isole (il livello della Lettonia, 23esima al mondo); quanto ai figli di entrambi genitori immigrati — scrivono De Curtis e Simeoni — viaggia ancora più in alto a quota 4,5; ma è oltre l’otto per mille per i bambini nati da donne africane che arrivano dalle aree subsahariane.
I margini di miglioramento
Pure nei progressi degli ultimi decenni, lo scarto fra il Nord e il Sud dell’Italia non si è mai chiuso. Per quanto drammatico, questo dato di fatto implica però che i margini di miglioramento siano enormi e del tutto a portata di mano se semplicemente ci si ispira alle migliori pratiche nel Paese. Se nel 2016 l’Italia avesse avuto in media gli stessi livelli di mortalità infantile delle sole regioni del Nordest, le più virtuose, si sarebbero salvati 246 bambini in più fino ai dodici mesi di età e ne sarebbero rimasti in vita 177 in più solo nelle regioni meridionali. Ma è quando si proiettano questi dati su un decennio o un ventennio che ci si rende conto fino a che punto le diseguaglianze nella culla contano per la demografia di intere aree del Paese.
Le cause delle disparità
Risolvere queste disparità è tutt’altro che impossibile, quando se ne comprendono le origini. De Curtis e Simeone mostrano che gran parte della mortalità infantile oggi avviene nel primo mese di vita, spesso a causa di complicanze attorno al parto. Sono le circa cento strutture ospedaliere più piccole d’Italia, quelle che nella media assistono poco più un parto al giorno, ad essere meno attrezzate alle emergenze. Per questo avere magari meno Punti Nascita del servizio sanitario sul territorio, ma più strutturati e preparati, non permette solo di risparmiare denaro pubblico. Fa anche una differenza per qualcosa che conta molto di più.

Corriere 28.1.19
Il neonatologo Mario De Curtis
«Povertà e lavori pesanti
incidono sulle differenze»
di F. Fub.


Mario De Curtis, ordinario di Pediatria alla Sapienza di Roma, è lo studioso in Italia che ha dedicato più attenzione al problema della mortalità infantile.
Professore, quali sono le cause delle diseguaglianze fra Nord e Sud nei decessi del primo anno di vita?
«I fattori economici e sociali incidono. Ma un fatto oggettivo è l’alta concentrazione di reparti di maternità piccoli, da 500 nascite all’anno. Spesso non sono attrezzati a sufficienza. Un accordo Stato-Regioni del 2010 prevedeva di chiudere quelli sotto i mille nati l’anno. Ma si fatica a farlo».
I figli di genitori stranieri hanno una mortalità del 70% superiore.
«Soprattutto per le condizioni di salute delle donne immigrate in gravidanza. Svantaggio sociale, economico e culturale, attività lavorative meno garantite e più pesanti, un’alimentazione incongrua, carenti condizioni igieniche e abitative, cure ostetriche tardive e inadeguate spiegano molto».
Come vede evolvere la situazione?
«Purtroppo potrebbe peggiorare con il “decreto Sicurezza”, che restringe il diritto alla protezione umanitaria. Molte donne non riceveranno più l’aiuto all’integrazione lavorativa e abitativa fornita dai Comuni. Inevitabilmente ci saranno ripercussioni anche nell’assistenza sanitaria e sociale».

Repubblica 28.1.19
Mappe
Per il 58% serve un uomo solo al comando
Gli italiani vogliono il leader forte piace la democrazia senza partiti
I più convinti della necessità di avere un leader forte sono gli elettori della Lega: oltre otto su 10. Poi seguono gli elettori di Forza Italia (76%).
di Ilvo Diamanti


La "nostra" democrazia sta cambiando. Non da oggi. Ma, da qualche tempo, i segni del mutamento appaiono più evidenti. In Italia come (e più che) altrove. Mi riferisco, specificamente, alla democrazia "rappresentativa". E, in particolare, al declino dei partiti. Il principale canale della rappresentanza. La "democrazia dei partiti", che abbiamo conosciuto nel corso del dopoguerra, si è trasformata in "democrazia dei leader".
Anzitutto, perché i partiti si sono "personalizzati".
Soprattutto, a partire dagli anni Novanta, dopo il crollo della Prima Repubblica. E dei partiti che l’avevano accompagnata. La svolta, allora, venne segnata da Silvio Berlusconi.
L’imprenditore dei media, presidente del Milan, che divenne imprenditore politico.
Giusto 25 anni fa, nel 1994, "scese in campo", mutuando tecniche e linguaggi dall’impresa e dal calcio. Fondò "Forza Italia" e denominò "azzurri" i suoi elettori. FI apparve subito un "partito personale" – come lo definì Mauro Calise. Ideologia, organizzazione, dirigenti: tutti espressi da Berlusconi.
Riconducibili alla sua persona.
Alle sue aziende. Forza Italia era – e rimane - il "partito di Berlusconi". Il Partito del Capo (definizione di Fabio Bordignon). Un modello riprodotto da altri soggetti politici. Con alterno esito. Ma, in una certa misura, tutti i partiti, dopo quella fase, si sono "personalizzati". Fino a divenire, talora, "personali".
In-distinguibili dalla persona del Capo.
Basti pensare, per primo, al partito, anti-berlusconiano, per definizione. L’Italia dei Valori. Il partito "di" Antonio Di Pietro.
Magistrato simbolo di "Mani pulite". Censore implacabile dei conflitti di interesse del Cavaliere. L’IdV agisce in simbiosi con Di Pietro. A sua immagine. Mentre "scendono in campo" altri "partiti personali".
Su basi diverse. Alleanza Nazionale, ad esempio, nasce nel 1995. A destra. Per superare il retroterra e il marchio post-fascista del MSI. Per andare oltre, Fini "personalizza" il partito. Lo trasforma nel Partito di Fini. Lo stesso percorso avviato, successivamente, da Mario Monti. Dopo l’esperienza di governo, dal novembre 2011 al dicembre 2012, si presenta alle elezioni del 2013 a "capo" di una coalizione centrista, de-nominata: "Con Monti per l’Italia". Intorno a "Scelta Civica". Il suo "partito personale".
Gli unici partiti "im-personali", fino a pochi anni fa, erano quelli con radici storiche più profonde. In primo luogo, il Partito Democratico. Sorto nel 2007. Dalla convergenza della Margherita e dei DS.
Post-Democristiani e Post-Comunisti. Insieme. Un Post-Partito, per echeggiare un testo di Paolo Mancini.
Confluenza di due partiti "condannati", nella Prima Repubblica, a guidare il governo e l’opposizione. L’uno contro l’altro. Fino alla caduta del muro. Anche la Lega proviene dalla Prima Repubblica. Sorta dalle Leghe regionaliste, negli anni Ottanta e, soprattutto, dalla Lega Nord per l’indipendenza della Padania, negli anni Novanta. Guidata da Bossi e, quindi, da Maroni. Tuttavia, nell’ultimo decennio, entrambi, PD e Lega, si sono "personalizzati". Il PD è divenuto PDR. Il Partito di Renzi. Mentre la Lega si è trasformata "radicalmente". Matteo Salvini l’ha de-territorializzata. La Lega Nord è divenuta Nazionale. E sovranista. Ha occupato lo spazio lasciato vuoto, a Destra, da FI e da AN. E Salvini le ha dato il suo volto.
Infine, c’è il M5s. L’ultimo arrivato. Un non-partito.
Collettore dei ri-sentimenti politici. Privo di una specifica connotazione "personale".
L’unica figura in grado di identificarla è (stato) Beppe Grillo. Un anti-politico per definizione. Leader della "comunicazione" post-televisiva. Della dis-intermediazione, prodotta da internet e dai Social.
Così, è possibile leggere la storia recente della politica e della democrazia in Italia come un percorso "oltre" i partiti.
Orientato dall’ascesa dei leader.
Oggi i "partiti" sono largamente declinati. Solo l’8% degli italiani esprime fiducia nei loro riguardi. Mentre oltre il 40% pensa che la democrazia possa funzionare anche senza i partiti.
E quasi 6 elettori su 10 (sondaggio di Demos, dicembre 2018) sostengono la necessità di "un leader forte a guidare il Paese". I più convinti: gli elettori della Lega: oltre 8 su 10. Poi, gli elettori di Forza Italia (76%).
Ispirati dall’inventore del modello. Quindi: la base del M5s. Un non-partito, che non dispone di "un leader forte". Ma beneficia del sentimento anti-partitico diffuso. Mentre i suoi elettori si affidano all’unico vero "leader forte" al governo.
Matteo Salvini. Si spiega anche così il loro ripiegamento elettorale, in questa fase.
Il Pd, infine, soffre della crisi post-PdR. Doppiamente. Perché è difficile, per non dire impossibile, per una base elettorale che ha memoria dei "partiti di massa" sentirsi a casa in un partito personale. Il PdR. E perché nessuno degli attuali candidati, in corsa alle Primarie, appare in grado di "personalizzarlo". (Per fortuna…).
Così, la nostra democrazia si sta trasformando alle fondamenta. I partiti, vecchi e nuovi, si stanno personalizzando. E, per questo, l’intero sistema politico è divenuto instabile. Perché i partiti personali sono legati ai leader. Sorgono e affondano assieme a loro. Com’è avvenuto a IdV, Scelta Civica, AN. Alla stessa FI. Mentre il PD ha sofferto e soffre della propria mutazione in PdR. Quanto al M5s, risente del "minor tasso di personalità" rispetto alla Lega di Salvini. E la stessa Lega: cosa (ne) sarà dopo Salvini?
In generale, è evidente che la democrazia italiana si sia personalizzata. Insieme ai partiti. Spinta dai media. Vecchi e ancor più nuovi. Dalla TV, dalla rete, dai social. Così, stiamo diventando una "Repubblica personale". Di fatto. In modo im-personale e in-consapevole.

La Stampa 28.1.19
Stefania Prestigiacomo
“Ho visto ragazzi torturati. Disumane le speculazioni”
di Alessandro Di Matteo


Stefania Prestigiacomo, che situazione ha trovato sulla «Sea watch»?
«Una situazione difficile. Ho trovato uomini e, soprattutto, tanti giovani, ragazzi, segnati dalle giornate di mare e, molto di più, dal periodo trascorso in Libia. Abbiamo ascoltato le loro storie agghiaccianti di violenze e di prigionia, ci hanno mostrato i segni delle torture. Sommare a tutto ciò un inutile braccio di ferro, in una situazione che comincia a essere a rischio anche dal punto di vista igienico mi pare inumano».
Non è una “crociera” o un “pacchia” insomma...
«Ovviamente no. Ma non voglio entrare dentro questa retorica che trasforma i drammi umani e i problemi politici in chiacchiera e materiale per hater dei social network».
Però Salvini accusa lei e gli altri parlamentari saliti sulla nave di avere violato la legge.
«Ci denunci e chieda il nostro processo, così avremo anche noi come lui il dubbio se rinunciare o meno all’immunità».
Il leader della Lega usa un argomento che fa presa tra i cittadini: perché non se ne fanno carico i paesi dove è registrata la nave o dove ha sede la Ong?
«Da questo punto di vista Salvini non ha torto. Esiste un enorme problema europeo sulla questione migranti e ha ragione l’Italia a chiedere che le persone che arrivano vengano equamente distribuite fra i paesi dell’Ue».
Lei ha parlato di «show mediatico»: pensa anche lei, come Berlusconi, che la vicenda sia usata per distrarre i cittadini?
«Guardi, io sono appena scesa da una nave piena di disperati e ho davvero difficoltà a leggere quelle esistenze come elementi di polemica politica nazionale. Sicuramente la questione migranti è centrale nella dialettica fra la destra e la sinistra in Italia e sicuramente è oggetto di speculazione politica. Ma io oggi non riesco proprio a leggerla in questi termini».
Ma questa linea non porta Fi in rotta di collisione con un alleato importante come la Lega in vista delle regionali?
«Poche ore prima che io salissi sulla Sea Watch il presidente Berlusconi ha detto che se fosse dipeso da lui quei 47 li avrebbe fatti sbarcare. Il problema dell’alleanza con la Lega è ampio, complesso e non dipende dai quei 47 migranti».
Come è nata la sua decisione di andare sulla nave? Non era scontato per una parlamentare del centrodestra.
«La nave è all’ancora davanti la mia città. Siracusa da anni ospita e accoglie migranti nel segno della convivenza e dell’integrazione. Io sono stata fra i migranti sia da componente del governo che da esponente dell’opposizione. Semmai viene da chiedersi come mai fossi la sola parlamentare siracusana sulla Sea Watch».
Tajani ha detto che lei è andata a titolo personale, ma anche Berlusconi ha detto che avrebbe autorizzato lo sbarco. Fi cambia linea sull’immigrazione?
«La posizione di Forza Italia sull’immigrazione è molto chiara ed è quella del coinvolgimento e della responsabilizzazione dell’Europa. Abbiamo i nostri valori di umanità a cui non possiamo rinunciare mai. Forse sul caso specifico Tajani non aveva sentito Berlusconi».
Molti suoi colleghi di Fi però si sono infastiditi per questa sua iniziativa, le rimproverano di essersi affiancata al Pd e a Leu.
«Mi scusi, io non riesco a fare distinzioni politiche su una iniziativa di carattere umanitario. Io mi sono affiancata alla mia città che è disposta ad accogliere i migranti e non ho problemi a dialogare con colleghi di qualsiasi partito su questi temi».

Corriere 28.1.19
Stefania Prestigiacomo
«Stremati e con un solo bagno. Non si può essere indifferenti»
La parlamentare di FI: con i colleghi idee diverse ma su certi temi c’è unità
di Dino Martirano


ROMA «Come si faceva a rimanere indifferenti? Quella nave con 47 persone a bordo ammassate una sull’altra è ancorata davanti al porto della mia città. Come potevo far finta di niente?». Stefania Prestigiacomo, parlamentare della prima ora di Forza Italia, parla dall’aeroporto di Catania al termine di una giornata trascorsa a bordo della «Sea -Watch» insieme ai deputati Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) e Riccardo Magi (+Europa) e al sindaco di Siracusa Francesco Italia (centrosinistra): «La mia — risponde a chi, anche nel suo partito, l’ha criticata per il trasversalismo umanitario — è stata un’azione dettata dalla coscienza...».
Il ministro Matteo Salvini ha mostrato di essere molto irritato, in particolare per la presenza a bordo di una parlamentare di Forza Italia.
«Mi dispiace che Salvini sia irritato. In realtà io l’ho cercato a lungo nella giornata di sabato ma non ha risposto. Eravamo in contatto con la Capitaneria di porto per avere un permesso per salire a bordo. Alla fine ci è stato negato e così stamattina (ieri, ndr) abbiamo deciso di raggiungere la nave con un gommone preso in affitto».
Dal Viminale ora dicono che avete violato le norme della Sanità marittima. Invece quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è derubricata ad accusa politica.
«Non abbiamo violato nulla. Al punto che, alla fine, hanno inviato a bordo la dottoressa Di Giacomo della Sanità marittima per procedere a una visita sbrigativa solo nei nostri confronti: “Sta bene? Compili questo modulo...”. Io comunque ho chiesto alla dottoressa di dare un’occhiata anche ai migranti...».
La vice presidente della Camera, Mara Carfagna, dice che i parlamentari hanno tutto il diritto di svolgere queste ispezioni. Si aspettava una parola anche da parte del presidente Fico?
«Sono onorata che la mia collega Mara abbia detto questo e abbia difeso le prerogative dei parlamentari. Certo, ci aspettavamo una parola del presidente Fico che però, almeno per ora, non è arrivata».
Le rimproverano forse che si sia accompagnata con Sinistra italiana e +Europa.
«Rappresentiamo tre opposizioni diverse, ognuno ha le sue idee ma sulle questioni umanitarie si può essere uniti. Sono due colleghi validissimi. E siamo tutti abbastanza grandi per decidere da soli».
È vero che, volendo, le motovedette dell Guardia costiera e della Finanza avrebbero potuto fermarvi?
«Erano lì, e se avessimo fatto qualcosa di illegale ci avrebbero bloccati. E non lo hanno fatto».
In che condizioni sono i migranti a bordo?
«Sono ammassati in un unico ambiente. Sono stremati, hanno sguardi smarriti. Mi ha colpito un ragazzino di 15 anni che è rimasto sempre in silenzio, in disparte. Altri ci hanno raccontato della permanenza in Libia in stato di schiavitù. Ci hanno mostrato le cicatrici sui corpi».
Quanto possono resistere a bordo?
«Hanno un bagno, una tazza sola, in 47. E non possono scaricare in mare perché sono alla fonda vicino alla costa. Io dico che devono poter sbarcare e non saranno certo questi 47 naufraghi a far arretrare la fermezza del governo».
Anche Silvio Berlusconi, chiede che i migranti sbarchino. Però in Forza Italia, a partire da Antonio Tajani, ora si dice che la sua è stata un’iniziativa personale.
«Ecco, mi affido alle parole del presidente Berlusconi che mi sembra interpreti il sentimento dominante nel nostro partito. Quando si tratta di compiere un gesto umanitario non si può rimanere indifferenti».
Sulla rete la Lega ha lanciato anche riferimenti sessisti su di lei. Ci risiamo?
«Me lo dice lei, quando avrò tempo me ne occuperò. Per ora preferisco concentrarmi sulle immagini che ho visto a bordo. Certo, la Lega sulle donne ha una posizione ambigua, a volte...».
Se fosse senatrice come voterebbe sulla richiesta di processare Salvini?
«Il voto su Salvini al Senato? Ma non aveva detto che rinunciava all’immunità?».

Corriere 28.1.19
In tre anni 36.800 migranti minorenni
Alla fine del 2018 censiti in 10.787: di 869 non si sa dove sono
Quelli dati in affido non arrivano a 500, mancano i tutori
di Milena Gabanelli e Simona Ravizza


il nodo protezione umanitaria per i nuovi maggiorenni
È entrata nella rada di Siracusa la Sea-Watch. A bordo anche 13 minori, di cui 8 non accompagnati. Dovrebbero sbarcare per essere accolti nelle strutture dedicate, ma la risposta del Viminale è: no, perché c’è chi fa finta di essere minore. Questione complessa poiché, come succede per quasi tutti i migranti, sono privi di documenti, e per l’accertamento dell’età nei casi dubbi serve un’équipe formata da interpreti, pediatri, neuropsichiatri, radiologi, psicologi. I costi sono alti, e Regioni e ministero dell’Interno se li rimpallano, i team scarseggiano e rimane alto il rischio di mandare adulti tra i ragazzini. Infatti, negli ultimi 3 anni, in 45.159, approdati sulle coste italiane e non accompagnati, si sono autodichiarati minorenni, mentre il numero di minori accertato è stato poi di 36.878. Dove sono?
Gli scomparsi
In 20.862 hanno compiuto i 18 anni, dunque, sono usciti dalle statistiche. E tutti gli altri? Le autorità hanno segnalato la fuga dai centri di accoglienza di 5.229 ragazzini e ragazzine, tuttora irreperibili. La maggior parte di loro, di nazionalità eritrea o afgana, voleva raggiungere i parenti nel nord Europa; altri, egiziani, cercavano di arrivare a Milano per unirsi ai connazionali, attivi soprattutto nella ristorazione. Si pensa che l’eccessiva durata delle procedure di ricongiungimento familiare li abbia spinti ad allontanarsi per ritrovare in autonomia i familiari. Le cronache raccontano di 12-13enni morti durante il viaggio verso il confine; fra gli altri, molti, per procurarsi velocemente denaro necessario a proseguire il viaggio, si suppone siano finiti nel giro dello spaccio e in quello della prostituzione, attivo nel reclutare le giovani nigeriane.
Cosa dice la legge
Dal 6 maggio 2017 in Italia è in vigore la legge Zampa, una delle migliori normative al mondo in fatto di tutela: equipara il «minore solo» a quello italiano senza genitori. Significa che deve essere dato in affido, o accolto in una casa famiglia, oppure in centri dedicati in grado di garantire la sua crescita e l’inserimento sociale, con l’affiancamento costante di un tutore. Cosa succede in realtà?
I censiti ad oggi
I minori non accompagnati che risultano censiti al 31 dicembre 2018 sono 10.787. Dovrebbero essere «tutti» sotto tutela, invece non è possibile individuare dove siano stati collocati 869 di loro. Soltanto 461 sono stati dati in affido, soprattutto a parenti e connazionali. Nonostante sia la soluzione migliore, sia per il benessere del bambino che per i costi contenuti, stimati intorno ai 500 euro al mese, i numeri restano bassi, per la scarsa sensibilizzazione promossa dalle istituzioni.
La prima destinazione
Sono 3.032 i minori nei centri di prima accoglienza, dove vengono ospitati subito dopo lo sbarco. In queste strutture accreditate da Comuni e Regioni è previsto un tempo massimo di permanenza di 30 giorni, perché è elevato il rischio di essere adescati dalla criminalità con la promessa di soldi facili. In realtà i tempi sono più lunghi: si arriva anche fino a nove mesi. I minori dovrebbero essere collocati nei centri presenti in tutte le Regioni, ma di fatto ben 1.748 minori sono concentrati in Sicilia dove la normativa consente la deroga agli standard previsti: dal numero massimo di minori per struttura, a quello minimo di operatori dedicati. Poi un centinaio si trovano nei centri di accoglienza straordinaria (Cas), autorizzati dai prefetti solo per le situazioni di massima emergenza.
La chiusura di 70 centri
Il 27 marzo scadrà il finanziamento del ministero dell’Interno a 70 Centri di prima accoglienza. Ne rimarranno aperti 7 in Sicilia e 1 in Molise. La buona notizia è che i minori che oggi stanno nei Centri di prima accoglienza saranno trasferiti dove dovrebbero già stare, cioè nelle strutture di seconda accoglienza, dove viene insegnato l’italiano, e garantito il percorso di crescita e integrazione. La cattiva notizia è che i posti per ospitarli non bastano.
Dove i minori dovrebbero stare
La seconda accoglienza contempla lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Oggi ospita 3.087 minori; ognuno costa 80-100 euro al giorno, stanziati dal Fondo asilo migrazione e integrazione del ministero dell’Interno. Il 24 gennaio il Viminale ha annunciato che incrementerà la disponibilità di posti di 400 unità. Ma siccome i minori da trasferire superano i 3.000, è evidente che i ragazzini rimarranno «concentrati» in Sicilia, nonostante i ripetuti inviti del Garante Nazionale dell’Infanzia a smistarli in tutta Italia, proprio per consentire una migliore integrazione. E infatti le percentuali parlano da sole: in Lombardia l’8%, in Emilia-Romagna il 7,5%, in Sicilia il 38%.
Casa famiglia
Sul totale dei minori non accompagnati, 3.338 stanno nelle case famiglia allestite su base volontaria dai Comuni, ma sempre più sindaci si rifiutano di accoglierne altri, anche per motivi economici: il rimborso che ricevono è di 45 euro al giorno pro capite, a fronte di spese doppie. Risultato, le adesioni sono talmente poche che non vengono neppure utilizzati i soldi a disposizione: sui 170 milioni del 2016 erogati dal Fondo minori ne sono stati utilizzati solo 125,5; sui 170 del 2017 poco più di 156.
I tutori che non ci sono
Per legge ciascun minore deve avere un tutore, e ogni tutore può occuparsi di tre minori. I cittadini che hanno dato la disponibilità ad assumere l’incarico a titolo volontario sono 5.501, ma quelli effettivamente nominati dai Tribunali dei minorenni oggi sono decisamente meno. Così c’è ancora la tutela di massa, come denunciava lo scorso maggio la Garante per l’Infanzia Filomena Albano.
I maggiorenni a rischio
Cosa ne sarà poi dei 6.492 minori che diventeranno maggiorenni nel 2019? La protezione umanitaria, alla quale è stata fin qui legata una gran parte dei permessi di soggiorno al compimento dei 18 anni, non è più prevista dal decreto Sicurezza. Prima della sua entrata in vigore, i minorenni che presentavano domanda di asilo, se non c’erano i presupposti per la protezione internazionale, considerata la particolare condizione di vulnerabilità, potevano accedere alla protezione umanitaria. Ora che il decreto l’ha abolita, i minori che hanno fatto richiesta di asilo, e si vedranno notificare il diniego a ridosso della maggiore età, o a 18 anni compiuti, diventeranno irregolari. Per rimpatriarli non ci sono gli strumenti. In conclusione, dopo averli illusi attraverso il percorso di integrazione, fatto di diritti e doveri, li abbandoniamo; costruendo così un potenziale bacino di reclutamento per la criminalità comune, e di odio verso la società che dovrebbe integrarli.

La Stampa 28.1.19
La rivolta dei prefetti
“Non deportiamo nessuno”
di Francesco Grignetti


C’è un gran malumore, tra i prefetti italiani. Dapprima li hanno usati come paracadute per piazzare i migranti che sbarcavano a decine di migliaia, lasciandoli litigare con i sindaci e le comunità locali, e nell’emergenza hanno fatto i salti mortali, pochi come sono. Ora però stanno fioccando gli avvisi di garanzia perché quel centro di accoglienza non era in regola o quell’altro truccava i conti. Sono almeno quaranta i funzionari indagati in giro per l’Italia. Uno è l’attuale prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto, che si è sfogato così: «Noi eravamo la parte più debole del sistema. L’obbligatorietà doveva essere stabilita per legge anche per i sindaci; invece la politica ha preferito scaricare tutto sui prefetti».
I casi che alimentano il malcontento dei prefetti sono diversi. Non ha fatto piacere, per dire, sentirsi definire «deportatori» perché hanno organizzato la redistribuzione dei richiedenti asilo che si trovavano a Castelnuovo di Porto. Ha spiegato il prefetto Paola Basilone: «Era tutto programmato. Il contratto di gestione, che è già stato prorogato cinque volte, scade il 31 gennaio. Il centro andava chiuso e non c’era possibilità di continuare».
L’ultima goccia, però, è collegata alla svolta securitaria di questi mesi. Avvertono la critica di chi dà a loro, ai prefetti, parte della colpa. «Beh, mi scoccia che i prefettizi, che rappresento, siano visti solo come il braccio armato del politico di turno», sbotta Antonio Giannelli, presidente del Sinpref, il sindacato che rappresenta il personale del ministero dell’Interno.
Bruciano le critiche di chi vede come le commissioni territoriali si siano prontamente adeguate all’indirizzo politico e così siano quasi scomparsi gli asili umanitari (dopo il decreto che li ha ridimensionati a pochi casi specifici). «Non sono mai decisioni facili. Ci sono colleghi che non ci dormono la notte. Non abbiamo mai trattato le persone come numeri. La differenza è che prima c’era il massimo dell’indeterminatezza, con pazzesche differenze a seconda delle sedi».
Ora è venuto il coro di critiche dei magistrati all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Sentono invocare in giro la «disubbidienza civile» contro la stretta di Salvini. E Giannelli diventa una pentola in ebollizione: «Noi siamo prefetti - dice - e perciò tenuti all’obbedienza delle leggi. Il magistrato può interpretarle, è una sua prerogativa. Noi, no. Noi applichiamo e facciamo applicare».
Intanto su Salvini pende una richiesta di autorizzazione a procedere per il caso Diciotti, che lascia il Viminale in una situazione anomala, con il titolare indagato per un reato gravissimo e sottoposto alla procedura dei reati ministeriali. «Io - dice ancora - sono un cittadino di questa Repubblica prima che un funzionario dello Stato. Mi sono formato nella ferma convinzione che nessuno è superiore alla legge e che la Costituzione demanda alla magistratura di giudicare in proposito. Dopodiché, la legge contempla allo stato l’ultima forma di autorizzazione a procedere da parte in questo caso del Senato della Repubblica».
Giannelli ha letto con attenzione l’intervista del professor Giovanni Maria Filck a La Stampa di qualche giorno fa: «Mi pare pertanto chiaro che sarà una valutazione politica di tale consesso a stabilire se un ministro della Repubblica ha agito “a tutela dell’interesse costituzionalmente rilevante” o “per il perseguimento del preminente interesse nazionale”. In questo caso, peraltro, ricordo che il ministro è anche Autorità nazionale di pubblica sicurezza, come del resto sono poi i prefetti nei diversi ambiti provinciali».

Il Fatto 28.1.19
Decreto Sicurezza: sono 8 le Regioni “ribelli” che ricorrono alla Consulta
Scontro con l’esecutivo - “Legge anticostituzionale: discrimina i richiedenti asilo”
di Loredana Di Cesare

Sono otto le regioni “ribelli” che stanno impugnando il decreto Sicurezza davanti alla Corte Costituzionale, per la parte che riguarda l’immigrazione.
Il tempo per presentare ricorso sta per finire: la scadenza è prevista per venerdì primo febbraio. Le ragioni della Toscana, Umbria, Basilicata ed Emilia Romagna, capofila nella battaglia, hanno convinto anche Calabria, Piemonte, Sardegna e Marche.
La giunta marchigiana è l’ultima arrivata: ha approvato la delibera per il ricorso alla Consulta appena una settimana fa, il 22 gennaio. La Sardegna si aggiungerà dopodomani. Prima che arrivi la decisione dei giudici costituzionali, però, bisognerà attendere almeno un anno.
Le delibere regionali presentano molti passaggi comuni. Di seguito, ecco i principali.
Protezione umanitaria
Prima del decreto, veniva concessa – per vittime di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza, di mancato rispetto dei diritti umani – a chi non poteva accedere allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria. Per i governatori, l’abrogazione della protezione umanitaria (articolo 1 della legge Salvini) non soltanto aumenta gli irregolari sul territorio, ma rende anche più difficile assistere le persone che hanno diritto alle cure sanitarie, all’assistenza sociale, alla formazione lavorativa e all’istruzione.
Residenza anagrafica
Un altro dei punti fondanti dei ricorsi è l’eliminazione della residenza anagrafica per i richiedenti asilo (articolo 13). L’art 13 stabilisce che il permesso di soggiorno attribuito ai richiedenti protezione internazionale non costituisce documento idoneo per l’iscrizione anagrafica.
Competenza regionale
“Gli articoli 1 e 13 – si legge nella delibera della Basilicata – rappresentano norme lesive dell’autonomia regionale e degli enti locali, impattando in maniera significativa su competenze concorrenti e residuali garantite dalla Costituzione”. Questo è il punto di partenza: il governo ha legiferato incidendo su materie che, in base all’articolo 117 della Costituzione, competono alle Regioni.
Stranieri discriminati
“In materia di assistenza sociale, sanitaria, istruzione, formazione e politiche attive del lavoro – continua la delibera lucana – sono lesi i diritti essenziali della persona, con disparità di trattamento tra i cittadini degli stati membri e stranieri regolarmente soggiornanti e in violazione delle convezioni internazionali”. Motivazioni pressoché identiche si leggono nella delibera toscana.
Prestazioni assistenziali
Per la giunta dell’Umbria, la cancellazione della residenza anagrafica è “lesiva di altre disposizioni costituzionali in quanto irragionevolmente sono introdotti due presupposti diversi per situazioni che debbono essere (ed erano) disciplinate unitariamente: da un lato, per i cittadini italiani e gli altri titolari di permesso di soggiorno, le prestazioni assistenziali e sociali vertono sul presupposto della residenza anagrafica; dall’altro lato, i richiedenti asilo, anche se immigrati regolari, dovranno attestare il domicilio”.
Il circuito Sprar
Emilia Romagna e Calabria puntano il dito anche sull’articolo 12 del decreto che riguarda il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) che è affidato agli enti locali. I richiedenti asilo adesso potranno essere ospitati soltanto nei Cara. Per entrambe le regioni siamo dinanzi a una “soppressione” dell’accoglienza presso gli enti locali. Per l’Emilia Romagna il decreto “sopprime testualmente l’accoglienza dei ‘richiedenti asilo’ (…) nonché ‘la tutela dei rifugiati e degli altri stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria’ presso i servizi di accoglienza dagli enti locali, di fatto riservando tale forma di accoglienza ai soggetti titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati”.

Il Fatto 28.1.19
Macron: “L’Italia merita altri leader”


Emmanuel Macron è passato al contrattacco dell’Italia. Ieri in visita al Cairo, il presidente francese ha detto che non risponderà alle critiche di Di Maio e Salvini sulla Francia perché “non hanno alcun interesse”, come riferiscono i media francesi. Però poi ha affondato: “Non risponderò, è la sola cosa che si aspettano. Tutto questo è irrilevante. Il popolo italiano è nostro amico e merita dei leader all’altezza della sua storia”. “Prima di fare la morale, liberi l’Africa”, la replica di Di Maio.

Il Fatto 28.1.19
Blitz a bordo della Sea Watch Diciotti, Di Maio “testimone”
Otto giorni - Ancora negato lo sbarco alla nave al largo di Siracusa. Il ministro dell’Interno insiste con la “pacchia”. Toninelli: “Dovevano andare in Tunisia”
Stefania Prestigiacomo, Nicola Fratoianni e Riccardo Magi
di Paola Zanca


C’è chi ha perso un occhio, chi ha cicatrici sul viso e sul corpo, tagli e dita ammaccate per le botte ricevute nei centri di detenzione libici. Uno su quattro ha tra i 14 e i 17 anni. Però il ministro dell’Interno Matteo Salvini vede solo “mare calmo, cuffiette, telefonini e ragazzotti a torso nudo”: la solita pacchia, che con lui è finita.
Da otto giorni 47 naufraghi sono a bordo della Sea Watch 3, a due minuti e mezzo di navigazione dal porto di Siracusa. Ieri, contravvenendo all’inedito divieto di ispezione disposto dalle autorità, tre parlamentari sono arrivati sulla nave dell’Ong dopo aver noleggiato un gommone privato. Eppure, sempre ieri, l’unico aspetto di questa storia che ha creato scalpore è che su quel gommone, insieme a Nicola Fratoianni (Leu) e Riccardo Magi (+Europa), ci fosse anche una rappresentante di Forza Italia, Stefania Prestigiacomo, decisa a verificare di persona quali fossero le condizioni dei migranti. “È una madre”, l’ha giustificata con sommo paternalismo il presidente di Forza Italia Antonio Tajani, “evidentemente è stata colpita più dal fattore umano che politico”. “Abbiamo voluto dimostrare che c’è qualcosa che va oltre gli schieramenti”, ha risposto lei, subito nel mirino degli odiatori web.
Nonostante la mezza rivolta che ieri si è levata da Forza Italia contro la Prestigiacomo, era stato lo stesso Silvio Berlusconi, ancora ieri, a dire che “francamente, con senso di realismo, 47 nuovi immigrati che si aggiungono ai più di 600mila che abbiamo oggi sul territorio del Paese non cambiano nulla: se fosse mia responsabilità, io li farei senza dubbio sbarcare”. Un attimo dopo, il leghista Igor Iezzi twittava sulla “vergogna azzurra” dei parlamentari che chiedono che “i clandestini siano sbarcati”.
Ma ieri non è stata solo una giornata di battibecchi interni al centrodestra. Anche nella maggioranza gialloverde è andato in scena il consueto botta e risposta tra Salvini e i 5 Stelle.
Da una parte i due ministeri coinvolti nell’affare Sea Watch (il Viminale per lo sbarco, le Infrastrutture per l’attracco) mostrano la stessa linea: il ministro Danilo Toninelli ha sostenuto sul blog delle Stelle la tesi di Salvini, ovvero che la nave abbia “disobbedito” e messo a rischio la vita dei migranti perché anziché dirigersi in Tunisia ha puntato verso l’Italia, nonostante il maltempo. Dall’altra, ospite di Barbara D’Urso, il 5 Stelle Alessandro Di Battista ha portato avanti una posizione differente: “Per me dovrebbero sbarcare, ci vuole molto coraggio.
Poi devono essere accuditi e con massima dignità fatti partire verso Amsterdam”, ha aggiunto l’esponente grillino, visto che la nave dell’Ong batte bandiera olandese. “Bisogna creare un incidente diplomatico” per farsi ascoltare dall’Europa, è la tesi del Movimento, ribadita anche dal vicepremier Luigi Di Maio. Che ieri, su La7, ha anche annunciato di essere “pronto a testimoniare” sul fatto che la decisione di non far sbarcare il pattugliatore della Guardia Costiera, il Diciotti, fu presa di comune accordo da tutto il governo. Non fu quindi una iniziativa personale del ministro Salvini, che – se il Parlamento darà il via libera – dovrà rispondere in tribunale di sequestro di persona. Di Maio dà per scontato che il processo si farà: “Salvini ha detto che lo vuole, non gli faremo un dispetto votando contro”.

Il Fatto 28.1.19
Il mega-tempio dei mormoni a Roma, ma in Italia hanno solo 25mila fedeli
Sfarzo in ogni dettaglio: lampadari di Murano e marmo di Carrara. Per il Vaticano non sono cristiani
di Fabrizio d’Esposito


Lo sfarzo avvolge ogni dettaglio, leggendo i reportage apparsi in queste settimane su alcuni quotidiani: marmo di Carrara, duecento lampadari di Murano, persino i lapislazzuli. È il grande tempio dei mormoni a Roma Est (nella foto). Via dei Settebagni: circa 60mila metri quadrati su un’area acquistata più di vent’anni fa per due miliardi e mezzo di lire. I lavori sono durati quasi un decennio ma ora è tutto pronto. Oltre al tempio, ci sono un parco e varie costruzioni. Gli edifici saranno pure aperti al pubblico da oggi fino al 16 febbraio.
Ufficialmente, la dizione esatta è Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Quello di Roma è il tredicesimo tempio europeo e visto che in Italia i mormoni sono poco più di 25mila, la nuova chiesa è un riferimento anche per Grecia, Cipro, Albania e Romania.
Impossibile però sapere i costi della faraonica opera. Un mistero che incuriosisce ancora di più se si pensa che i mormoni hanno rinunciato all’otto per mille, dopo l’accordo con lo Stato italiano. In tutto il mondo sono 16 milioni e il loro Vaticano è negli Stati Uniti, in Utah. Ricchi e potenti (il repubblicano Mitt Romney che sfidò Obama nel 2012 per la Casa Bianca è mormone) si definiscono cristiani, ma più di un dubbio è lecito.
Al netto delle loro origini massoniche all’insegna della poligamia, i mormoni devono il loro nome al Libro di Mormon, consegnato dall’Angelo Moroni al profeta Joseph Smith che lo pubblicò per la prima volta nel 1830. Il Libro di Mormon integra Bibbia e Vangelo ma secondo una sentenza dell’ex Sant’Uffizio della Chiesa del 2001, quando il prefetto era l’allora cardinale Ratzinger, i mormoni praticano una sorta di astruso politeismo, contaminato dalla fantascienza.
Scrisse l’Osservatore Romano: “Per i mormoni la trinità sono tre dei. Dio Padre è un uomo esaltato, oriundo di un altro pianeta. Ha avuto dei parenti. Ha una moglie, la Madre celeste. Procreano dei figli. Il loro primogenito è Gesù Cristo. Anche lo Spirito Santo è figlio di genitori celesti”. Il pianeta dove vive Dio Padre si chiama Kolob. Una sorta di cristianesimo alieno.

Il Fatto 28.1.19
In Francia i gilet gialli fanno parte del paesaggio
I manifestanti hanno occupato l’Arco di Trionfo a Parigi
di Mathilde Goanec


“Il 17 novembre ho guardato i gilet gialli in tv. Il 18 ho detto a mia moglie che mi vergognavo di essere rimasto a casa. Allora ho preso la macchina e ho raggiunto una rotatoria”. Nel frattempo Pierre Volpi, neo-pensionato di La-Londe-les-Maures, un comune del Var, ha recuperato il tempo perso. Da due mesi a questa parte, una volta superata l’esitazione del primo giorno di manifestazione, è diventato uno dei pilastri del gruppo dei Gilet gialli presente sui comuni di La-Londe-les-Maures, Bormes-les-Mimosas e Le Lavandou. Ha anche spento la tv per convertirsi al web.
Con la sua “bella squadra” – come la chiama lui -, circa 1500 iscritti su Facebook, non occupa più le rotatorie ma si sposta in funzione del tipo di azione. Il sabato si riuniscono tutti per manifestare a Tolone. Il 15 gennaio, Pierre raggiunge Sarah e Robert a casa di Pascal e tutti e quattro si mettono a discutere in giardino. Per sfondo, galline che scorazzano tra i piedi, una voliera, che Pierre trova molto bella, e la casa di Pascal, una vera opera da artista del bricolage.
Ebrei e musulmani
Dalla parte opposta della Francia, Emmanuel Macron, in maniche di camicia, sta tenendo il suo primo grande dibattito davanti a 600 sindaci riuniti in una palestra della Normandia. Ai quattro Gilet gialli la cosa interessa poco e scherzano sul presidente che “fa le domande e dà le risposte”.
La lettera di Macron, pubblicata domenica 13 gennaio, li ha lasciati di sasso. Il trucco, dicono, è fin troppo facile da trovare: “L’immigrazione, l’identità, non sono temi per noi. Macron sta provando a dividerci”. Robert ne approfitta per precisare ai suoi nuovi amici che ha origini ebraiche, mentre Sarah ricorda che è musulmana. Pascal ride: “Noi cristiani siamo in minoranza a questo tavolo”, dice. Sarah continua: “Il fatto che Macron non risponda alle nostre domande, e anzi sostenga che siamo una folla antisemita, omofoba e che istiga all’odio, è molto grave”. Eppure Macron “qualcosa è riuscito a farla”. “Ci ha svegliati”, aggunge Pierre.
All’orizzonte, continua, mostrando un volantino, si profila il Referendum di iniziativa civica (Ric). “Se in Islanda ci sono riusciti, perché non dovremmo farcela pure noi? – interviene Robert -. Hanno nazionalizzato le banche, rifiutato di pagare il debito, dissolto l’Assemblea nazionale e indetto un’Assemblea costituente. Ci hanno messo un anno. Noi possiamo tenere altrettanto”. Pierre nota, ridendo, che “chiedendo il Ric, e non misurette che potrebbero essere prese rapidamente, i Gilet gialli hanno paradossalmente scelto la strada più lunga”. Sarah, lavoratrice autonoma nell’artigianato, constata comunque che il movimento, che occupa “un posto importante” nella sua vita, provoca sempre più tensioni e sentimenti di rigetto: “Indossare il gilet giallo, esporlo in macchina, ora è più complicato. Le persone ci dicono che abbiamo vinto, che dobbiamo tornarcene a casa, ci trattano come casi sociali”. Il governo gioca su questo progressivo disamore dell’opinione pubblica insultando il movimento, che definisce oltranzista e istigato da “faziosi e sovversivi”.
Il forte di Bregançon
Per i Gilet gialli del Var, la vicenda della “presa del forte di Bregançon” è stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. Quando, a fine dicembre, hanno saputo che Macron ci avrebbe passato le feste di Natale in famiglia, hanno deciso di andare a fare un pic nic sotto il fortino, portando degli striscioni. Tra loro c’erano anche Pierre, Robert, Pascal e Sarah. La polizia li ha braccati, poi è intervenuta la stampa. “Fino a quel momento nessuno si era davvero accorto di noi – confessa Florent, un Gilet del Var incontrato a Parigi –. Eravamo dei bravi ragazzi del sud che, a un certo punto, si sono ritrovati in mezzo ai gas lacrimogeni. E poi c’è stata la manifestazione del 5 gennaio, che ci ha mandato su tutte le furie”. Durante l’“Atto ottavo” della protesta, tutta la Francia ha visto il comandante della polizia Didier Andrieux mentre picchia un Gilet giallo di Tolone sul cofano di un’auto. La scena, preceduta da una serie di altri episodi di violenza, ha scioccato profondamente i manifestanti e il Var ha fatto irruzione sul campo delle violenze poliziesche e del radicalismo giallo.
“Le violenze della polizia ci hanno obbligato a cambiare discorso”.
“Lanciare pietre e mostrare la foto di Macron con la testa decapitata sono gesti violenti, lo so, ma sappiamo tutti che la rivoluzione non si fa con le rose, o no?
L’amicizia fraterna nata dal movimento potrebbe, paradossalmente, diventare l’altro tallone d’Achille dei Gilet gialli. Come continuare a esistere, mediaticamente e politicamente, e andare oltre la dimensione strettamente locale, restando apolitici? “Uno dei limiti del nostro movimento è che ci ostiniamo a non voler discutere su cosa fare del nostro futuro – martella Elvire -. La questione vale anche per i gestori di un gruppo Facebook che riunisce 6.000 persone, che non sono poche. L’essere apolitici a ogni costo per me ci mette nell’impasse”.
La linea resta apolitica
La giovane donna, dirigente nella funzione pubblica, si è già fatta escludere due volte dal gruppo di Bandol per la sua adesione manifesta al partito della France Insoumise. Ogni volta ritorna, senza scoraggiarsi, ma teme che alla lunga passare notti intorno a bidoni dati alle fiamme e a “mangiare salsicce” sia tempo perso. “Neanche io ho aspettato i Gilet gialli per voler cambiare la società – risponde Manu -. Ma quando sono qui con voi non è per assistere a una riunione di partito, è per partecipare a un movimento di contestazione”.
Olivier ritiene che sia tempo di “trasformare il movimento, di far schiudere la crisalide”. È la sfida degli atelier di riflessione che si tengono tutti i mercoledì sera nella sala della Società Nautica di Bandol. La parola si libera. “Alcuni di noi appoggiano azioni più dure, altri azioni pacifiche – spiega Olivier -. Abbiamo deciso che le due forme possono coesistere”. Più la notte avanza e più le domande si fanno pressanti: è il caso di partecipare al grande dibattito? di federare i gruppi dei Gilet Gialli del sud della Francia? di lanciare una forma di coordinamento nazionale come hanno fatto a Commercy? Che statuto dobbiamo dare ai portavoce?
Incrociamo un giovane diplomato a Sciences-Po, vicino all’UPR-Union Popolaire Républicaine, il partito sovranista di François Asselineau, che confessa di “vivere i più bei giorni” della sua vita militante, contento che il dibattito si sia esteso al Ric. C’è anche una pensionata che, in bella scrittura, ha riempito tre pagine di rivendicazioni nel cahier de doléances, ma non vuole farsi coinvolgere troppo perché “teme l’influenza dell’estrema destra sul movimento”. La linea apolitica resta però un caposaldo per i Gilet. “Su questo punto non cediamo. Qualsiasi cosa, ma questo no, non è negoziabile”.
A Tolone, nel 1995, un certo Jean-Marie Le Chevallier, del Front National, è riuscito a carpire la poltrona di sindaco, per la durata di un mandato. Da allora il Var resta un dipartimento caro all’estrema destra. Alcuni responsabili politici sono riusciti a radicarsi localmente e Marine Le Pen è arrivata in testa al primo turno delle presidenziali. Eppure, alle ultime legislative, nel Var ha spopolato il partito di Macron, La République en marche. “Di tanto in tanto si sente parlare di immigrazione, ma non si è mai visto tra noi nessuno che politicamente aderisca al Fronte National – sottolinea Géraldine -. Chi vota Fn nel Var non è Gilet giallo. “Ma è tra noi che le cose si complicano”, deve riconoscere Géraldine.
Sul posto ci sono anche tre roulottes e uno stand dove ci si può informare sul Ric, annotare delle idee e consultare il regolamento di come funziona un’occupazione. Per adesso, Vinci Autoroutes, i gendarmi e i responsabili politici locali tollerano l’accampamento e, dal momento che la maggior parte delle rotatorie sono state sgomberate, molte persone affluiscono al casello. Comincia poco alla volta a prendere piede l’idea di trasferirsi a tempo indeterminato e di insediare una sorta di fortino che domini su tutta la pianura, anche se il “gruppo di Le Luc” si rivendica profondamente pacifista. Éric, che porta una sciarpa militare in maglia intorno al collo, ha a lungo militato nell’“intellighentsia locale di gauche”, con l’associazione Attac o aderendo alla Lega per i diritti umani. “È tutta la vita che aspetto questo movimento. I miei vecchi compagni di battaglia non sono Gilet gialli. Qui è come essere in trincea, non ci sono né comfort né pulizia, e non è un posto molto rassicurante. Ma ci stiamo vivendo cose straordinarie”.

La Stampa 28.1.19
Risarcimento alla Russia per l’assedio di Leningrado
La Germania ha donato ieri 12 milioni di euro alla Russia, come «gesto umanitario» in occasione del 75esimo anniversario della fine dell’Assedio di Leningrado
di Letizia Tortello


Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria delle vittime dell’Olocausto, una ricorrenza fissata a livello internazionale, nella data in cui le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, nel 1945. Esattamente un anno prima, il giorno 27 è stata la fine di un altro genocidio, sempre compiuto dal Terzo Reich: dopo 900 giorni, nel 1944 finiva il più lungo assedio della Seconda guerra mondiale. La Wehrmacht tedesca voleva annientare la città russa di Leningrado, oggi San Pietroburgo: l’assalto durò dall’8 settembre del ’41 al 27 gennaio ’44. Causò più di un milione di vittime civili, morte per fame e disperazione, compresi centinaia di migliaia di bambini. Fu una delle più cocenti sconfitte della «Blitzkriege» di Adolf Hitler contro la Russia sovietica, che oppose un’inattesa resistenza alle forze armate tedesche.
Per ristrutturare un ospedale
La città di Leningrado era uno dei tre obiettivi principali dell’Operazione Barbarossa contro i bolscevichi, annunciata nel Mein Kampf. Nel giorno del 75° anniversario dalla fine dell’assedio, ieri, il governo tedesco ha annunciato lo stanziamento di 12 milioni in favore di Mosca, per contribuire al riammodernamento di un ospedale che ancora oggi cura reduci di guerra. I fondi verranno anche utilizzati per la creazione di un centro per le relazioni russo-tedesche, come hanno annunciato i ministeri degli Esteri di Mosca e Berlino in una dichiarazione congiunta.
A San Pietroburgo le celebrazioni del ricordo dell’assedio si sono trasformate in una parata trionfale: la città è tornata simbolicamente al 1944, durante l’assedio, con tanto di annunci radiofonici dei raid aerei. Il presidente russo Vladimir Putin ha assistito alla sfilata con oltre 2500 soldati in uniformi moderne e d’epoca, e carri armati. Susanne Schattenberg, storica e direttrice del Centro di ricerca dell’Est Europa dell’Università di Brema, ha spiegato ai giornali tedeschi in che situazione disperata e disumana si trovava la gente di Leningrado in quei 900 giorni: «C’era chi mangiava l’erba, chi uccideva i cani e gatti, il cannibalismo era una pratica diffusa per sopravvivenza. Nel milione di morti e più, molti si spegnevano per fame e con sofferenze indicibili». Si moriva nei letti, straziati da spasmi e dolori muscolari. «E allora si mangiava la carne di chi non era sopravvissuto», conclude la ricercatrice.

La Stampa 28.1.19
Trump, pressing sugli alleati per fermare il 5G della Cina
di Francesco Semprini


Il caso Huawei torna a mettere in crisi la diplomazia internazionale. Il premier canadese Justin Trudeau ha richiamato il suo ambasciatore a Pechino, colpevole di aver preso le parti di Meng Wanzhou, la direttrice finanziaria del colosso cinese delle tlc arrestata a Vancouver e in attesa di estradizione negli Usa.
La settimana scorsa l’ambasciatore John McCallum aveva detto che Meng ha «buoni argomenti dalla sua parte»: il primo dei quali è «il coinvolgimento politico di Donald Trump» nella vicenda. L’ambasciatore si era poi pentito pubblicamente di avere fatto questa affermazione, ma era tornato sull’argomento venerdì scorso commentando al «Toronto Star» che sarebbe «fantastico» se gli Usa abbandonassero la loro richiesta di estradizione. Da qui la mossa di Trudeau che ha licenziato il suo diplomatico a Pechino richiamandolo in patria.
Il bando
La tesi di McCallum è che Trump abbia agito per motivi politici. La Casa Bianca, non è un mistero, vuole mettere le briglie a Huawei. Un decreto è atteso a giorni e si sta lavorando alle ultime limature del testo, che vieterà l’uso delle tecnologie della casa di Shenzhen non solo all’interno del governo federale - dove il bando è già in vigore da tempo - ma anche per tutte le aziende private e i settori ritenuti strategici, dalle tlc all’energia. La Casa Bianca vorrebbe imporre la sua linea ai Paesi partner e alleati.
La pressione sugli alleati
Secondo Washington il gigante cinese non deve vincere la sfida delle reti di nuova generazione 5G. Chiunque controllerà la rete 5G - è il ragionamento di molti esperti - avrà inevitabilmente il controllo di tutto il flusso di dati, con la possibilità di modificarli senza chiedere alcuna autorizzazione.
Insomma, per l’amministrazione Trump la sfida per la supremazia nel 5G è la nuova «corsa agli armamenti».
La scorsa settimana la questione è stata al centro della visita a Washington del ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt, a cui è stato chiesto di allineare la strategia di Londra con quella Usa. Ma forti sono le pressioni anche su Varsavia: la Casa Bianca potrebbe infatti condizionare lo schieramento di nuove truppe Usa in Polonia e la creazione lì di una nuova base - chiamata «Fort Trump» - proprio alle decisioni che verranno prese su Huawei.
E poi si insiste soprattutto su Berlino, visto che proprio in Germania il gigante cinese vorrebbe creare il suo hub principale in Europa e il quartier generale nel Vecchio Continente.

Repubblica 28.1.19
Pechino
Addestramento in stile militare
Marce al freddo, lotta, niente coccole i campi cinesi per "veri uomini"
Addio patriarcato alla Confucio: generazioni di figli unici sono cresciuti con mamme e nonne E adesso le famiglie più all’antica sono ossessionate dalla perdita della virilità
di Filippo Santelli


PECHINO «Chi è il migliore?». «Io sono il migliore!». «Chi è il più forte?».
«Io sono il più forte!». «Chi siete voi?». «Siamo veri uomini».
Devono urlarlo a pieni polmoni i bambini del Real Boys Club, varie volte al giorno. Prima di iniziare a placcarsi e spintonarsi sul campo da football. Quando è il momento di fare i compiti.
Mentre corrono a petto nudo nel freddo dell’inverno pechinese, uno dei vari esercizi stile militare cui vengono sottoposti.
E pazienza se i più piccoli hanno appena sette anni, o se i più grandi non arrivano a 13. I genitori li hanno mandati lì per diventare maschi come Confucio comanda, tempra e responsabilità da capo famiglia.
Prima che sia troppo tardi e, orrore degli orrori, l’amato figlio cresca gracile e effeminato come i ragazzetti di cui è piena la televisione. «Qui non educhiamo femminucce», dice al New York Times Tang Haiyan, 39 anni, ex insegnante di educazione fisica che nel 2012 si è inventato alle porte della capitale questo campo di addestramento per preadolescenti a base di testosterone. E il successo sembra dargli ragione visto che alla non modica retta di 2mila euro a semestre qualche migliaio di famiglie gli hanno affidato i pargoli. Perché il problema della "mascolinità" è un’ossessione per i genitori cinesi più all’antica. La paura è che le nuove generazioni di figli unici iper coccolati crescano a immagine e somiglianza delle figure femminili da cui sono circondati, madre nonna e maestra, lontani dalla patriarcale autorevolezza canonizzata dalla tradizione mandarina. Lo scorso settembre la performance di una celebre boy band durante lo show tv che celebra l’inizio dell’anno scolastico, visione obbligata per tutti i bimbi dell’Impero, ha scatenato una ondata di proteste social. Orde di genitori infuriati hanno messo mano alla tastiera criticando l’esaltazione sulla tv di Stato del modello "piccola carne fresca", come qui si definiscono, non per forza in modo dispregiativo, le giovani stelle dal torso sottile e dall’aspetto androgino. Attori o cantanti amatissimi dalle ragazzine, molto meno da mamme e papà. All’epoca dovette intervenire addirittura il Quotidiano del Popolo, voce ufficiale del Partito comunista, per difendere con sorprendente modernità la diversità di gusti estetici e ricordare che la vera bellezza è interiore. Ma oltre al fisico è anche lo spirito che il campo di Tang promette di indurire. «Era come una ragazzina ipersensibile», racconta al South China Morning Post la madre di uno degli allievi. «Forse siamo stati troppo apprensivi e gli abbiamo tolto l’opportunità di essere indipendente. Non era sicuro di sé e piangeva di fronte a ogni difficoltà». Al Real Boys Club chi frigna non viene coccolato. I compiti si fanno da soli, senza il fiato sul collo dei genitori. Si istruiscono i bambini al lavoro di squadra e al rispetto delle regole: i trasgressori retrocedono al grado di "uovo puzzolente". Le famiglie insomma chiedono al marziale Tang quello che non sono più in grado di fare, educare i figli. E lui lo fa a modo suo: trasformandoli in piccoli soldati.

Repubblica 28.1.19
Il reportage
L’Africa che cambia
Scuole ed energia la scommessa della nuova Etiopia
di Federico Rampini


ADDIS ABEBA La vera Etiopia la si scopre lasciando la capitale, i suoi grattacieli in costruzione, i suoi ingorghi e il suo smog. L’Onu ha la maggiore sede africana a Addis Abeba, ma se i funzionari restano lì hanno una visione parziale. Prendere un volo fino a Bahir Dar, spingersi su strade sterrate fino alla regione di Gumuz, uno dei vasti altipiani etiopi, offre una prospettiva diversa. Una puntata nelle zone rurali ridimensiona un po’ l’entusiasmo per il "miracolo etiope", pubblicizzato nel mondo dal premier-celebrity, il 42enne Abiy Ahmed reduce da una recente tournée internazionale.
Un’ora di strada asfaltata da Bahir Dar, due di strada sterrata (impraticabile nella stagione delle piogge), un’ora finale di arrampicata a piedi, e si raggiunge un polo estremo, l’opposto di Addis Abeba. Lungo il percorso incrocio bambine e bambini che trasportano sulle spalle taniche d’acqua o canne da zucchero o cesti pieni di cipolle, camminando per tragitti lunghissimi. Altri bambini lavorano nei campi coi genitori, la schiena piegata in due. I contadini usano aratri di legno come mille anni fa; non hanno mai visto un trattore. Carretti trainati a mano, al massimo da un asinello. Giovani pastori sorvegliano mandrie di mucche "indiane" (la razza con la gobba), magre quanto i loro padroni.
Arrivo in cima a una collina abitata da etnìe tribali di origine sudanese, e i segni di una povertà estrema sono evidenti.
Non la fame, perché la terra è fertile e i contadini non mancano di cibo. Però nella folla di bambini che accorrono a osservare i visitatori si notano delle pance gonfie (infezioni da vermi intestinali, mi dice un esperto), e occhi malati.
La distanza che abbiamo percorso è una barriera tremenda per chi ha bisogno di raggiungere un ambulatorio; o una scuola. Né si trovano insegnanti disposti a un simile pendolarismo per il magro stipendio statale. Perché i bambini non rimangano analfabeti un vescovo locale ha addestrato due ragazze del posto, uniche e rudimentali maestre per tutte le classi: centinaia di bambini di età diverse riuniti in un grande hangar. Il vescovo ha chiesto aiuto al direttore di un ong americana, Gabriele Delmonaco di "A Chance In Life", che organizza questo viaggio col progetto di portare una scuola vera fino a questo luogo remoto. La gente di qui — e in molte altre regioni rurali — abita ancora nei tradizionali tucùl: muri di terra e sterco, tetti di paglia. Il bestiame dorme insieme agli umani.
Entrando la prima impressione è di una camera a gas: il fuoco è perennemente acceso, per scaldarsi di notte e anche bruciare erbe aromatiche che scacciano zanzare da malaria, zecche e altri insetti micidiali.
Gli incendi sono frequenti; anche le malattie polmonari, per chi respira tanto fumo. Il regalo che i bimbi chiedono più spesso, è una penna biro.
Nella cittadina di Bahir Dar incontro un medico inglese, David, venuto a lavorare come volontario nel policlinico "universitario" aperto da poco — il secondo ospedale in un’area che ha 15 milioni di abitanti — ma ancora sprovvisto delle attrezzature più essenziali. E’ un ortopedico ma gli capita di dover operare feriti da armi da fuoco, arrivano da zone di combattimento, dove le faide etniche non sono sopite.
L’Etiopia ha una buona fama di questi tempi perché è un’oasi di stabilità circondata da vicini turbolenti o repressivi: Sudan, Eritrea, Somalia. Ma il modello etiopico, come mi spiega un esule eritreo consulente dell’Onu, poggia su un equilibrio fragile. E’ una federazione etnica dove i ricordi delle oppressioni reciproche sono ancora freschi, ferite aperte.
Storicamente la minoranza Tigray ha controllato il potere e le armi, gli Ahmari dominano l’economia, mentre la maggioranza Oromo solo di recente ha conquistato il governo con Abiy. Ci sono altri 80 gruppi etnici e almeno quattro comunità religiose: ortodossi, musulmani, protestanti e cattolici. L’idea di Stato è ancora un’astrazione, esercito e polizie federali sono milizie dei movimenti di liberazione etnici, riconvertite di recente.
Il contesto internazionale non aiuta: la Russia "perse" l’Etiopia con la caduta del dittatore comunista Mengistu (1991); l’Occidente simpatizza con Abyi ma scommette pochi capitali su di lui; la vera contesa per l’egemonia qui è tra la Cina e l’Arabia saudita. Pechino costruisce infrastrutture; gli arabi edificano moschee e attraverso l’importazione di manodopera etiope operano una islamizzazione strisciante.
Se confrontata con la maggioranza dei Paesi subsahariani l’Etiopia è un modello avanzato per varie ragioni. Tutte precarie. E’ il granaio d’Africa, una vera potenza agricola col più grande patrimonio di bestiame di tutto il continente, di che sfamare i suoi 105 milioni di abitanti ed anche esportare. Ma fu teatro di carestie storiche, due delle quali contribuirono alla caduta dei due ultimi regimi (Haile Selassie, Mengistu). Quella del 1973, che fece duecentomila morti finché Selassie riuscì a nasconderla, contribuì alla nascita della "cultura degli aiuti" in Occidente, i cui errori sono stati analizzati con severità dall’economista Dambisa Moyo dello Zambia ("La carità che uccide", Rizzoli 2011). Com’è possibile morire di fame in una nazione così fertile, con tanti laghi e fiumi? L’eccessivo sviluppo degli allevamenti ha contribuito all’erosione dei terreni. La parcellizzazione delle terre non incentiva gli investimenti in tecnologie.
L’industria agroalimentare è quasi inesistente: rara eccezione è Illycaffè che ha costruito un rapporto con contadini e imprenditori locali, la famiglia di Ali e Ahmed Legesse a Sidamo. La mancanza di infrastrutture e la politica — il prestigio dei dittatori, le contese etniche — hanno rallentato l’arrivo di aiuti quando alcune regioni erano colpite da siccità.
L’altitudine di gran parte del suo territorio la protegge anche da molti flagelli tropicali-equatoriali; ma solo in parte. C’è meno malaria, febbre gialla e tifo, che in altri Paesi africani. Ma queste malattie non sono del tutto debellate. Altre sono endemiche per la mancanza di acqua potabile, le fognature a cielo aperto. Perfino i medici locali, i volontari di lungo corso, è impossibile che non si siano presi almeno una volta malaria o febbre tifoide o dissenteria. La mortalità infantile elevata (che riduce la longevità media poco sopra i cinquant’anni) si spiega con l’assenza di un’igiene basilare.
L’acqua pulita resta un bene irraggiungibile in campagna.
«Hai un bell’insegnare che bisogna lavarsi le mani — mi dice la suora indiana che dirige un ambulatorio nella zona Gurage — ma scavare un pozzo artesiano costa 70.000 euro, l’acqua per lavarsi qui non c’è».
Risorsa preziosa, l’acqua non serve solo per bere e lavarsi: è la più grande fonte d’energia. La Salini-Impregilo sta costruendo la quarta grande diga nazionale, e sta ultimando quella che viene definita la Diga della Rinascita.
Egitto e Sudan seguono con preoccupazione questi progetti con cui l’Etiopia controlla a monte il flusso del Nilo Azzurro.
L’astuto Abiy è andato al Cairo a garantire che esporterà energia anche ai Paesi vicini. Eppure l’elettricità non basta nemmeno all’Etiopia: i blackout sono continui.
La dottoressa tedesca che da trent’anni dirige l’ospedale Attat, a Welkite nella regione dei Gurage, confessa qual è il sogno della sua vita: «Poter lasciare tutto in mano a loro, a medici e personale etiope, senza più bisogno di una supervisione o di volontari stranieri». Ma proprio il personale medico è un serbatoio di talenti apprezzati all’estero, che vanno ad aumentare i ranghi della diaspora. C’è una singolare triangolazione con l’India: molti medici indiani emigrano in America e in Inghilterra, gli ospedali di Mumbai, Delhi e Bangalore ora reclutano etiopi. Alla mia partenza, l’aeroporto internazionale di Addis Abeba mi consegna un’ultima immagine di questo Paese: il terminal è invaso da cinesi.
Dambisa Moyo sostiene che dagli anni Sessanta ogni decennio ha visto una nuova "teoria" su come innescare uno sviluppo durevole dell’Africa.
Stiamo vivendo nel decennio della teoria cinese. Finirà meglio delle precedenti? Non è una domanda retorica né ironica.
Avendoli visti al lavoro per asfaltare le strade verso Awassa, in una regione del caffè, ho rivalutato l’importanza dei loro investimenti: non sono solo predatori; anche se nella popolazione locale cresce la diffidenza.
Sul volo da Addis, la mia vicina di sedile è diretta a San Francisco. E’ un’infermiera etiope qualificata, assiste chirurghi in sala operatoria. Ha lasciato il suo Paese sei anni fa: assunta dal policlinico di Stanford nella Silicon Valley.

La Stampa 28.1.19
Un libro di Franzinelli
Mussolini anno zero
I Fasci di Combattimento un movimento multiforme che all’inizio sedusse molti futuri oppositori del Duce
di Mirella Serri


In un’illustrazione d’epoca di Vittorio Pisani, un seguace della prima ora di Benito Mussolini affigge un manifesto per pubblicizzare l’adunata milanese del 23 marzo 1919 in cui vennero ufficialmente fondati i Fasci di Combattimento: l’invito era rivolto a ex interventisti, futuristi, Arditi, repubblicani, dannunziani. In un primo tempo il raduno era previsto al Teatro Dal Verme, ma poi si ripiegò sul più modesto Circolo dell’Alleanza Industriale, in piazza San Sepolcro. Qui sotto Mussolini e gli altri più noti partecipanti all’adunata in un disegno del ’19. A destra, un manifesto commemorativo dell’evento fondativo del fascsismo realizzato in stile post-futurista negli Anni Trenta.

«Sarà creato l’anti-partito, sorgeranno cioè i fasci di combattimento… sarà fissato un programma di pochi punti ma precisi e radicali»: l’annuncio del convegno che sanciva l’esordio dei Fasci di Combattimento campeggiava da giorni in bella vista sul Popolo d’Italia di Benito Mussolini. Il futuro Duce si aspettava una gran massa di aderenti al nuovo movimento, un ribollente calderone di rivendicazioni dei reduci della Prima guerra mondiale, degli ex interventisti, dei futuristi, degli Arditi, dei repubblicani e dei dannunziani. Per la mattinata del 23 marzo 1919, data del raduno, era stato prenotato il teatro milanese Dal Verme. Più realisticamente ci si era poi trasferiti al circolo dell’Alleanza Industriale, in piazza San Sepolcro.
Quel meeting fondativo del «fascismo primigenio» fu determinante nella storia d’Italia e costituì anche una svolta esistenziale e politica nella vita del dittatore. Adesso, a ripercorrere in dettaglio e con dovizia di documenti inediti la nascita dei Fasci di Combattimento è lo storico Mimmo Franzinelli nel saggio Fascismo. Anno zero (Mondadori, pp. 300, € 22). In 200 schede propone i profili mai pubblicati di coloro che sottoscrissero il debutto del fascismo. E illustra la multiforme natura del movimento.
Con la riunione al circolo di piazza San Sepolcro, dove si presentarono circa duecento persone, Mussolini diede il via a una nuova strategia: era pronto ad attaccare, non più solo a parole ma versandone il sangue, i socialisti, i «pussisti» (i socialisti riformisti del Psu) e gli esponenti del «Pipì» (il Partito popolare italiano fondato da Luigi Sturzo). A distanza di pochi giorni dall’adunata, il 15 aprile, il gruppo degli squadristi, capeggiato dall’Ardito Ferruccio Vecchi e da Filippo Tommaso Marinetti, distrusse la sede dell’Avanti!, negli scontri morirono due socialisti e vi furono anche vittime tra i passanti. L’impresa fu giustificata come una reazione alle prepotenze dei rossi e il ministro della Guerra, Enrico Caviglia, soddisfatto ricevette a Milano Marinetti e Vecchi, elogiandoli per l’azione contro i «sovversivi». L’assalto costituì un gran successo per Mussolini, perché diede grande visibilità ai Fasci. Notevole eco mediatica ebbe anche l’eccidio di Lodi con sessanta fascisti giunti sui camion che uccisero tre giovani.
Chi furono i seguaci dell’anti-partito che voleva scavalcare a sinistra i socialisti predicando giustizia sociale e Assemblea costituente dei combattenti? Alla riunione di marzo diedero il loro apporto coloro che diventeranno gli esponenti più in vista del regime, dal ferroviere Roberto Farinacci poi segretario del Pnf, all’avvocato torinese Cesare Maria De Vecchi, a Manlio Morgagni, futuro direttore dell’Agenzia Stefani. Ma il movimento creato da Mussolini aveva connotati molto ambivalenti, non era solo nazionalista e guerrafondaio, ma anche massimalista, radicale, antiborghese (seguendo l’input del Futurismo), si muoveva contro la corruzione, l’affarismo, il «pescecanismo» degli industriali e le discriminazioni salariali.
Tratti equivoci
Con questi tratti così equivoci e ambigui annoverò tra i suoi seguaci personalità destinate a diventare i punti di riferimento del mondo di sinistra. Molti dei primi adepti infatti si allontanarono e durante il Ventennio nero scontarono pure anni di esilio o di galera.
Ecco dunque Ernesto Rossi, che sarà il fondatore del Partito radicale, pronto a scrivere al maestro di Predappio, a nome di un gruppo di giovani reduci fiorentini, «Dolenti di non poter partecipare… ti mandiamo la nostra entusiastica adesione… Solo i giovani potranno rispondere all’appello del Popolo d’Italia… contro la voce ormai rauca dei nostri vecchi cristallizzati nella loro inutile saggezza». Fu Gaetano Salvemini, avrebbe rivelato con la consueta sincerità Ernesto Rossi, ad aprirgli gli occhi sulla vera natura della banda mussoliniana.
Sotto la dittatura, Rossi condividerà la cella con Augusto Monti, professore di grande levatura antifascista al liceo classico Massimo D’Azeglio di Torino, che era stato anche lui sedotto dalla sirena dell’anti-partito. Il giurista Silvio Trentin, che nel 1943 organizzerà le formazioni partigiane in Veneto, si era candidato alle elezioni per il Fascio veneziano e il 4 aprile ossequiava Benito: «Nello strazio senza requie in cui viviamo tutti noi, in quest’ora grigia di compromessi e di mercantilismo soffocante e di ciniche profanazioni, guardammo e guardiamo a Lei come l’artefice sicuro della rinascita». Applaudiva «con tutta l’anima, e con ogni entusiasmo, alla Sua miracolosa attività esaltatrice e rinnovatrice».
Una pioniera del femminismo
Il poeta Giuseppe Ungaretti spiegava al capo dei Fasci che la diserzione dall’accolita milanese era giustificata da motivi di lavoro. Pietro Nenni, repubblicano e successivamente segretario del Partito socialista, fu il cofondatore del Fascio bolognese. La scrittrice futurista Eva Kühn Amendola, madre del leader comunista Giorgio e moglie del ministro liberale Giovanni Amendola (assassinato dagli scherani del Duce), fu molto legata ai Fasci e personalmente al poeta Marinetti.
Tra i fanatici del movimento erano Ernesta Bittanti e Luigi Battisti (vedova e figlio di Cesare Battisti); il filosofo Giuseppe Rensi che poi firmerà il Manifesto degli intellettuali antifascisti; lo storico Corrado Barbagallo; il professor Piero Jacchia che combatterà a fianco di Carlo Rosselli in Spagna; il letterato milanese Luigi Rusca e il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris (dirigente dell’Unione Italiana del Lavoro).
La pioniera del femminismo Regina Terruzzi nel 1929 cercherà la raccomandazione dell’amante di Benito, Margherita Sarfatti, per avere il brevetto di sansepolcrista. Il celebre maestro Arturo Toscanini, anche lui noto per la resistenza a oltranza al regime, fu sostenitore dei Fasci e si presentò, senza essere eletto, alle elezioni-flop a fianco di Marinetti e di Mussolini. Dopo il fallimento dell’esperienza elettorale nell’autunno del 1919 il direttore del Popolo d’Italia convogliò l’anti-partito che guardava a sinistra nel partito di destra sostenuto da mazze ferrate e olio di ricino. Il progetto però si era delineato fin dal primo vagito: durante lo storico incontro Marinetti attivò una colletta per acquistare «indispensabili pistole». Siglava così, al primo apparire, la vera vocazione del potere fascista.

La Stampa 28.1.19
La “sindrome diciannovista” in un mondo smarrito
Dall’Italia all’Europa la violenza diffusa dalla guerra capitalizzata dalle destre
di Giovanni De Luna


Il 1919 propose al mondo una cronologia fitta di eventi, tutti all’insegna di una violenza politica irrefrenabile, seduttiva, eccessiva. Ed è quella violenza totalmente dispiegata a rendere (per ora) improponibili i richiami al diciannovismo che affollano le analisi sui sovranismi e i populismi di oggi. Allora c’era stata la guerra e la sua fine aveva visto crollare tutti i riferimenti politici, sociali, culturali del vecchio ordine ottocentesco. Era come se si fosse spalancato un immenso cratere in cui scomparvero imperi plurisecolari (la Russia zarista, l’Impero ottomano, l’Austria-Ungheria, la stessa Cina), forme di organizzazione politica e statuale, modi di vivere.
Focolai di rivolta si accesero così ovunque ci fossero reduci restii a deporre le armi, un’utopia rivoluzionaria a incendiare gli animi, un demagogo pronto a inebriare le masse. Inoltre, un nuovo soggetto aveva fatto irruzione nel sistema politico internazionale, uno Stato, la Russia comunista, che deliberatamente si poneva come obiettivo il suo rovesciamento violento. E intorno alla bandiere rosse che sventolavano sul Cremino si raccolsero allora gli slanci rivoluzionari delle masse che il Novecento aveva scaraventato come protagoniste della storia.
Il rischio del contagio bolscevico è, in questo senso, una specificità assoluta di quell’anno, che non trova nessun riscontro nella realtà dell’Europa di oggi, a meno che non si pensi all’Ungheria di Orban o all’Italia di Salvini come possibili modelli da proporre su scala internazionale.
Nell’Ungheria di allora, ad esempio, nel marzo 1919 i comunisti guidati da Béla Kun instaurarono una repubblica sul modello sovietico. L’esperimento durò pochi mesi e fu stroncato (già in agosto); il potere fu assunto dall’ammiraglio Horthy, che governò il Paese con durezza, dando vita un regime fascistoide. Anche a Vienna, nel giugno 1919, ci furono tentativi insurrezionali subito repressi. In Germania, l’altra grande potenza sconfitta, si affermò l’organizzazione rivoluzionaria Lega di Spartaco (Spartakusbund), fondata nel 1917 da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg e trasformatasi poi in Partito comunista tedesco; nel gennaio del 1919, a Berlino, un suo moto rivoluzionario fu soffocato nel sangue. Due mesi dopo ce ne fu uno analogo, a Monaco, rovinosamente fallito.
Il 15 gennaio 1919, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg furono assassinati dai Freikorps ( i «corpi franchi», formazioni illegali che praticavano abitualmente l’omicidio degli avversari politici) ai quali il socialdemocratico Noske aveva affidato il compito di mantenere l’ordine a Berlino: si consumò la definitiva rottura tra le due principali componenti della sinistra (i socialdemocratici e i comunisti), che avrebbe pagato a caro prezzo la sua incapacità di mantenersi unita. In Italia la prorompente vittoria elettorale dei socialisti e dei cattolici, alle elezioni del novembre 1919, lasciò intravedere la possibilità che la crisi dello Stato liberale potesse avere un esito compiutamente democratico, nonostante le impazienze estremistiche dei comunisti e dei massimalisti.
In realtà, nessuno di questi slanci rivoluzionari ebbe un esito vittorioso e in generale si ripetè quello che successe in Ungheria. Nel 1922 in Italia si installò la dittatura di Benito Mussolini. In Germania, prima dell’irresistibile ascesa del nazismo, l’agonia della repubblica di Weimar si consumò all’insegna di un terrorismo di destra sempre più violento: in quegli anni furono assassinati oltre 350 persone, tra cui il ministro degli esteri Walter Rathenau (ucciso il 14 giugno 1922), mentre si registrarono anche due tentativi di colpi di Stato, quello del generale von Luttwitz e di Wolfgang Kapp (un alto funzionario prussiano), a Berlino, nel 1920, e quello di Monaco (che segnò il debutto sulla scena politica di Adolf Hitler), l’8 novembre 1923.
Gli incendi bolscevichi appiccati in quel 1919 si rivelarono fuochi di paglia e, in tempi brevissimi, a capitalizzare la violenza diffusa dalla guerra, facendone una risorsa strategica per sbaragliare le sinistre, furono i regimi fascisti o comunque di destra. In Europa, tra le grandi potenze, solo la Francia e la Gran Bretagna mantennero un sistema politico democratico. In ogni caso, l’eccesso di violenza sprigionatosi dalle trincee e inoculato dalla guerra nelle viscere profonde della società europea produsse ovunque effetti anche non immediatamente riconducibili alla politica. Ed è questo che fa sembrare irripetibile «quel» 1919.
Una fortunata serie su Netflix ha oggi indicato nella ferocia respirata in guerra la matrice del successo dei gangster di Birmingham, tutti reduci dalle trincee, i «peaky blinders». E perfino dall’altra parte dell’oceano, la stessa società americana fu attraversata da agitazioni sociali e manifestazioni di intolleranza. I movimenti rivoluzionari che agitavano l’Europa erano stati avvertiti come una pericolosa minaccia; tra il 1918 e il 1919, la «red scare», la paura rossa, attanagliò un’opinione pubblica disorientata, emotivamente instabile. Il sospetto e il rancore circondavano gli stranieri - soprattutto gli Slavi - visti come possibili agenti del comunismo russo. Il Paese sembrava volersi chiudere in sé stesso, spezzando lo slancio solidaristico verso l’Europa che aveva portato i suoi ragazzi a immolarsi sulle colline delle Ardenne, in una guerra lontana. Nel 1919 il Congresso rifiutò sia i trattati di Versailles, sia la Società delle Nazioni, l’istituzione che Wilson aveva sognato come il luogo in cui coltivare gli ideali della pace e della democrazia.
Di fatto, il nesso tra la distruttività della guerra e il 1919 era strettissimo; e le dimensioni catastrofiche assunte dalla violenza bellica non potevano certo essere affrontate all’insegna dei vecchi parametri geopolitici ottocenteschi. Fu quello che tentò di fare la conferenza di pace di Versailles, che si aprì proprio in quell’anno. Dal suo inevitabile fallimento ebbero origine trent’anni di conflitti mondiali, ininterrottamente fino al 1945.

Corriere 28.1.19
Ieri e oggi
Esce giovedì dal Saggiatore la nuova edizione de «Il sovversivo» di Corrado Stajano
Solo, giovane, anarchico
Franco Serantini: storia di vita e di morte
Pestato dalla polizia nel 1972. Una vicenda ancora attuale
Vittima dei pugni e dei manganelli durante disordini a Pisa, in carcere fu lasciato senza cure
Morì dopo due giorni
di Corrado Stajano


Sembra l’immagine di un giovane uomo in attesa della morte, quella di Franco Serantini, il 5 maggio 1972, immobile sull’angolo di via delle Belle donne che dà sul Lungarno Gambacorti di Pisa. Non fa un gesto, potrebbe facilmente scappare nei vicoli della Nunziatina, il quartiere proletario, pochi passi alle sue spalle, salvarsi dalla violenza dei poliziotti, una decina, che coi calci dei moschetti, i manganelli, gli scarponi, i pugni lo massacrano. Con ferocia, con crudeltà riversano su quel povero ragazzo tutta la loro furia, le loro frustrazioni.
Quando uscì questo libro, nel 1975, lo presentò con altri Dario Fo: in un silenzio di ghiaccio, davanti a un migliaio di persone dentro e fuori dalla Palazzina Liberty di Milano, l’attore lesse con voce grave, senza una parola di commento, le due pagine che riportano i dati dell’esame necroscopico. Una stazione del Calvario, il vento della morte su un ragazzo colpevole soltanto di avere gridato qualche insulto contro i fascisti raggruppati per un comizio in una piazza non lontana, e forse contro quei maramaldi imbestiati del 1° Raggruppamento Celere di Roma, coetanei ventenni della vittima.
La breve esistenza di Franco Serantini sembra una storia ottocentesca ai limiti dell’invenzione settaria, colma com’è di miseria, di violenza, d’ingiustizia. Il destino di sofferenza e di dolore che tocca in sorte ai poveri.
Serantini nasce a Cagliari il 16 luglio 1951, figlio di nessuno. N.N. — nomen nescio, non noto — un marchio rovente che fino al 1975 pesò anche sui documenti dei bambini e poi degli adulti senza madre e senza padre.
All’orfanotrofio per due anni, viene dato in affidamento a due coniugi siciliani. La coppia vive quietamente con il bambino, poi la donna si ammala e nel 1955 muore. L’Amministrazione provinciale di Cagliari ordina allora che Franco venga affidato all’Istituto del Buon Pastore della città, in un quartiere chiamato «Il Giorgino», simile al ghetto di un paese nordafricano.
È un bambino e poi un ragazzino chiuso, taciturno, infelice. Non è un bravo scolaro e neppure un bravo studente, in perenne conflitto con le suore che un certo giorno si appellano al Tribunale dei minori. «Per rimediare alla lunga istituzionalizzazione», scrivono i giudici nella loro ordinanza, Serantini viene destinato al riformatorio di Pisa, il San Silvestro, il rimedio più ragionevole davvero per un giovane fragile, incensurato, tra l’altro.
Accade che la città lo affascini, per lui è la scoperta della vita. Com’è diversa Pisa dai posti dove è vissuto, con quel verde tenero del Campo, il bianco della Cattedrale e del Battistero, la Torre, le piccole strade dei vecchi quartieri, l’Arno. Sono gli anni — il ’68 — della ribellione studentesca e operaia. In mezzo a quelle migliaia di ragazzi di ogni regione che riempiono vie e piazze, Franco, introverso com’è, ferito, si sente uguale agli altri, non più il figlio di nessuno.
Ha voglia di fare. Studia, prende la licenza media, si iscrive a un Istituto professionale. Legge tutto quel che trova, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, di Gaetano Salvemini, chissà come, chissà perché. Parla, discute, conosce ogni giorno persone nuove.
Sono i pochi anni sereni della sua esistenza. La passione della politica prende anche lui. Non ama la violenza, si avvicina con naturalezza agli anarchici, diventa l’anima del gruppo Giuseppe Pinelli, l’anarchico fermato a Milano il 12 dicembre 1969, dopo la strage di piazza Fontana, entrato vivo e uscito morto dalla Questura. Si dà da fare come se volesse recuperare un tempo perduto, donatore di sangue, cameriere a Viareggio. Capisce l’importanza del leggere, del sapere, costruisce la sua cultura. Su un quadernetto dalla copertina nera scrive tutto quello che gli salta in testa, appiccica articoli di giornale, fotografie, non si stanca mai di parlare di Pinelli, di Valpreda. Lavora in un ufficio di perforazione schede e con i suoi guadagni compra un motorino, un Ciao usato di color blu. La felicità.
Il 7 e l’8 maggio 1972 si svolgono le elezioni politiche nazionali. La campagna elettorale è aspra. Pisa è una roccaforte della sinistra extraparlamentare. Alla vigilia del voto, il 5 di maggio, il venerdì, è in programma un comizio fascista. Lotta continua si oppone con durezza. Carabinieri e polizia sono giunti in città in gran numero. Il conflitto esplode, tre ore di guerriglia.
Rinchiuso nel carcere «Don Bosco» Serantini sta visibilmente male. Nessuno interviene. Il giorno dopo, il sabato a mezzogiorno, viene interrogato dal magistrato che non si accorge di nulla, anche se il ragazzo non riesce neppure a tenere la testa levata.
Non si parla di una radiografia — nel carcere funziona un attrezzato centro medico specialistico —, non gli viene misurata neppure la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca. Il medico gli prescrive Sympatol-Cortigen e una borsa di ghiaccio da mettere sul capo, «in permanenza».
Anche un profano capirebbe che il ragazzo è alla fine, in coma. Muore a mezzanotte e 45 minuti del 7 maggio, la domenica delle elezioni. Si tenta di seppellirlo in fretta, di nascosto.
Franco Serantini è vittima di una doppia morte, quella selvaggia a opera della polizia e quella dello Stato che rifiuta di processare se stesso. Il tempo della giustizia mancata è segnato poi da infiniti conflitti giudiziari, da reticenze, bugie, avocazioni decretate dal procuratore generale di Firenze, Mario Calamari, da processi fasulli che finiscono nel nulla.
Il coraggio di un giudice istruttore, Paolo Funaioli, e il gesto di un commissario di polizia, Giuseppe Pironomonte, che si dimette per la vergogna, rappresentano il Paese civile, rispettoso dell’animo umano.
Quasi mezzo secolo dopo l’altra Italia non è ancora riuscita a far ascoltare la lezione di dignità dettata dalla legge e dalla Costituzione della Repubblica (art. 2; art. 3; art. 13).
Il calendario delle violenze dura da decenni. Qualche esempio di fatti fuorilegge del XXI secolo.
Genova, luglio 2001, il G8, una mattanza. È impressionante l’attacco poliziesco contro inermi, giovani e vecchi, già colpiti, a terra. Amnesty International aprì un’inchiesta e in una lettera pubblica 700 professori delle università italiane si appellarono al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, con domande e proteste circonstanziate sui fatti accaduti. E poi il vergognoso assalto alla scuola Diaz, presenti alte autorità di polizia venute da Roma, e l’indecente pestaggio alla caserma-lager di Bolzaneto, sangue, violenza, tortura, con il sottofondo musicale di inni fascisti.
Ferrara, settembre 2005. In corso Ercole I d’Este, la strada dove Giorgio Bassani fa vivere nel suo Giardino dei Finzi-Contini i protagonisti del romanzo, Micòl e Alberto, quattro poliziotti aggrediscono con ferocia Federico Aldrovandi, un ragazzo di 18 anni — tornava da una festa —, lo calpestano schiacciandolo con gli scarponi, lo colpiscono, dalla testa ai piedi; con i manganelli che si spaccano. 54 lesioni grandi e piccole. La morte.
Roma, ottobre 2009. Stefano Cucchi, un giovane di 31 anni «trovato morto» all’ospedale Sandro Pertini. Arrestato, deteneva una piccola quantità di droga, massacrato. Le fotografie rese pubbliche sono impressionanti. Il viso di Stefano è un mascherone sanguinante. Sono necessari nove anni perché un carabiniere pentito racconti quel che accadde nella prima caserma dove fu rinchiuso. (Qual è l’educazione civile, politica, militare che viene impartita nelle caserme? La Costituzione non è andata al di là delle garitte delle sentinelle e dei corpi di guardia?).
Nel ricordare queste storie di vita e di morte — in Italia esistono anche tante energie positive troppo spesso non viste e non integrate nella comunità — viene in mente Nuto Revelli quando ricordava le donne della montagna piemontese che, durante la Resistenza, a rischio della vita, aiutavano i partigiani, nel nome e nel ricordo dei figli e dei fratelli scomparsi o morti in Russia. Nelle tragiche vicende di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi rifulge proprio l’appassionato ruolo delle donne, Patrizia Moretti, la madre coraggio di Federico, e Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, con il suo luminoso non mollare.
Questa nuova edizione del Sovversivo, 44 anni dopo l’uscita del libro, è arricchita dagli straordinari disegni di un grande artista, Costantino Nivola.
Sardo come Serantini, con la sua stessa passione umana e politica, vide il libro a Roma in casa dello scrittore Antonio Cederna. Si incuriosì, se lo fece prestare. Viveva negli Stati Uniti, a Roma era ospite dell’Accademia americana. Amico di Antonio e della sua famiglia, frequentava spesso, durante i viaggi in Italia, la sua casa. Si appassionò al libro. Si identificò, forse, nel ragazzo Serantini. Lui, figlio di un muratore, era nato nel 1911 a Orani (Nuoro). Aveva lasciato l’Italia nel 1938 in seguito alle leggi razziali del fascismo, la moglie era di origine ebraica. Visse dapprima a Parigi e poi, per decenni, negli Stati Uniti. Si fece subito conoscere come disegnatore e come scultore. Usava la sabbia, la terracotta, il marmo, fu attratto dal fervore dell’ambiente nuovo, vicino alla cultura dell’arte informale, autore di graffiti murali, di monumenti di granito esposti in molte città in America e in Italia.
Lavorò nello studio di Le Corbusier, fu stilisticamente vicino a Saul Steinberg, insegnò alla Columbia University, alle università di Harward e di Berkeley. A Orani il Museo Nivola ospita una grande collezione delle sue opere. È morto nel 1988 a Long Island. Vicino a Boston vive l’amata figlia Chiaretta.
Si appassionò dunque alla storia di Franco Serantini e negli spazi bianchi del libro, prima dell’inizio dei capitoli e ai margini delle pagine, ne raccontò coi suoi disegni la vita e la morte. Un unicum editoriale.
I disegni di Costantino Nivola sono l’ultimo dei doni che Franco Serantini ha avuto, dopo quell’indimenticabile funerale, partecipe e commossa tutta la città di Pisa.
Ha ricevuto altri doni, il ragazzo sardo. Il monumento dei cavatori di marmo di Carrara, a lui dedicato in piazza San Silvestro dove una volta aveva sede il riformatorio; la Biblioteca che porta il suo nome, 50.000 libri, 6.000 periodici, 500 metri di documenti; il concerto, N.N. di Francesco Filidei, musicista che vive a Parigi, conosciuto e stimato in tutta Europa.
La memoria del ragazzo sardo non si è smarrita.

Corriere 28.1.19
Gino Bartali, non solo ciclismo: un campione del bene
di Stefano Montefiori


PARIGI In tempi di litigi tra Italia e Francia «il più francese dei giornalisti italiani» Alberto Toscano, che da trent’anni vive a lavora a Parigi, ha dedicato un libro a Gino Bartali: il campione che vinse il Tour de France nel 1948, contribuì a placare la tensione in Italia dopo l’attentato a Togliatti, e venne accolto al traguardo in Francia da una clamorosa ovazione quando ancora era vivo il ricordo dell’aggressione di Mussolini nel 1940.
È uscito in questi giorni Una bici contro il fascismo (Baldini+Castoldi), l’edizione italiana del volume che Toscano ha pubblicato un anno fa a Parigi facendo conoscere ai francesi l’aspetto a loro meno noto di Ginaccio: l’avere contribuito a salvare 800 ebrei dalla persecuzione nazista, partecipando alla rete clandestina che tra Toscana e Umbria creava e distribuiva i documenti falsi indispensabili per sfuggire ai campi di concentramento.
Bartali usò la bicicletta per vincere due Tour de France, tre Giri d’Italia e quattro Milano-Sanremo, e per trasportare tra Firenze e Assisi, nascosti nell’intelaiatura, i documenti che avrebbero salvato centinaia di persone. Il Bartali campione fu popolarissimo, mentre il Bartali eroe è rimasto a lungo segreto, per suo volere. Dopo la morte è stato nominato «Giusto tra le Nazioni» dal Memoriale di Yad Vashem, ma in vita Gino non volle — quasi — mai parlare del suo coraggio.
Tra le pagine più belle del libro ci sono quelle in cui Toscano racconta una confidenza ricevuta dalla figlia di Bartali, Bianca Maria. «Avevo forse otto o dieci anni quando mio padre mi disse all’improvviso, senza che gli avessi fatto alcuna particolare domanda, la frase “Una volta io ho salvato tante persone!”. Solo quella frase, inattesa, che è rimasta impressa nella mia memoria e di cui ho capito solo molto più tardi tutto il significato. Poi mio padre aggiunse altre parole, che invece ripeteva spesso: “Il bene si fa ma non si dice!”. Da allora in poi, non mi ha mai più parlato delle persone che aveva salvato durante la Seconda guerra mondiale».
Una bici contro il fascismo è un’inchiesta giornalistica piena di testimonianze inedite, come quella dell’imprenditore Christian Huyghues Despointes, che ha contattato l’autore dopo avere letto la prima edizione in francese. Un altro pregio del libro è il tono personale usato da Toscano. Dalla dedica «a mia madre Ada, nata lo stesso anno di Bartali, che ha percorso con ottimismo un secolo così difficile», al ricordo del padre Aldo, che un mattino del 1938, a Novara, apprese di avere perduto il lavoro in quanto «non ariano» e nel 1943 fu costretto a partire in bicicletta verso la Svizzera.
Arricchito dalla prefazione di Gianni Mura e dalla postfazione di Marek Halter, Una bici contro il fascismo è un viaggio nella personalità profonda dell’uomo celebre per la semplicità del motto «tutto sbagliato, tutto da rifare». Nei giorni di nuove e finora impensabili tensioni al confine franco-italiano, il libro è anche una dichiarazione di amore verso l’Europa costruita sulle macerie lasciate dal fascismo.

La Stampa 28.1.19
Il pellegrinaggio al cippo di Alto che ricorda il medico eroe Felice Cascione, “U Mégu” che scrisse “Fischia il vento”
di Paola Scola


«Da intorno e sotto aumentarono le insistenze e quello allora intonò: “Fischia il vento, infuria la bufera”». Lo scrive Beppe Fenoglio, ne Il partigiano Johnny. Si riferisce alla prima canzone partigiana, intonata a Curenna di Vendone, nel Natale 1943. In forma ufficiale la si ascoltò la prima volta ad Alto, nel piazzale della chiesa, nell’Epifania ’44. Lì, nei prati del paesino, l’ultimo della provincia di Cuneo, oltre la collina che guarda al mare di Albenga, il 27 gennaio di 75 anni fa i fascisti trucidarono Felice Cascione, capo partigiano medico. «U Mégu» era l’autore del testo di Fischia il vento.
Dove Cascione cadde c’è un cippo. Un basamento di pietra e sopra una colonna sbrecciata. Ieri, tutto il giorno, a Madonna del Lago è continuato il «pellegrinaggio laico» di quanti, come ogni anno, hanno voluto ricordare il sacrificio del «medico eroe», Medaglia d’oro al valor militare e così descritto da Italo Calvino: «Il tuo nome è leggenda, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s’arruolarono sotto la tua bandiera».
«La cerimonia è nata quasi spontaneamente. Non esiste un vero programma - spiega il sindaco, Renato Sicca, fra i primi a recarsi al cippo -, ma le persone salgono da Piemonte e Liguria, dove Cascione era nato. Il viavai è proseguito l’intera giornata. Per la comunità è un momento sentito e importante, ora anche in memoria di Carlo Trucco, il partigiano Girasole, da poco scomparso». Qualcuno ha scritto: «Non ci sarà il sorriso di Girasole ad accompagnare gli altri amici. Ma lui ci sarà lo stesso. E la giornata è dedicata a lui. Ciao Girasole, l’hai incontrato “U Mégu”?». E, sui social, l’associazione intitolata a Cascione: «Sono passati 75 anni dalla tua ultima mattina, Felice. Ma per le persone con la schiena dritta, come te, il tempo non passa e non passerà. Abbiamo bisogno dell’esempio di “U Mégu” e delle scelte quotidiane di chi la pensa come la pensava lui. Ciao, comandante».
Il medico di Imperia entrò nella Resistenza a capo di una brigata, a Diano. Si aggregò un reduce di Russia, dal quale impararono la melodia popolare Katyusha, cui vennero adattati i versi di «Fischia il vento, soffia la bufera/ scarpe rotte eppur ci tocca andar...», composti da Cascione. Il 27 gennaio ’44 Felice fu colpito in uno scontro, ma rifiutò di essere soccorso, per rimanere con i suoi. Mentre un compagno veniva torturato perché rivelasse chi fosse il comandante, «U Mégu» riuscì ad alzarsi e gridare: «Il capo sono io». Cadde, racconta la motivazione della Medaglia d’oro, «crivellato di colpi».
Un bambino di sette anni ucciso a mani nude e a colpi di scopa, la sorellina di otto picchiata e grave in ospedale. Sotto interrogatorio nella notte, da parte del pm e della polizia, il compagno della madre dei due bambini. La tragedia a Cardito, nel Napoletano, vicino ad Acerra, luogo di nascita del 24enne di origine tunisina. A dare l’allarme, ieri pomeriggio, i vicini di casa della coppia che avevano sentito le urla dei bambini. Nell’abitazione anche la figlioletta dell’uomo, 4 anni, illesa.


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