domenica 27 gennaio 2019

Il Sole Domenica 27.1.19
L’universo sotto forma di parole
«Ramayana». Il grande poema epico della mitologia indiana
È ora tutto leggibile in italiano il poema epico per eccellenxa, meditazione profonda sul divino, sul potere, sulle passioni e sulla eterna dinamica del bene e del male
do Giuliano Boccali


A cura di S. Sani, C. Della Casa, V. Mazzarino, A. Pellegrini, T. Pontillo, Introduzione di J. Brockington, Mimesis, Milano-Udine,
https://spogli.blogspot.com/2019/01/il-sole-domenica-27.html

Il Ramayana, “Storia di Rama”, è l’intero universo in forma di parole, secondo la visione profondamente incorporata nella cultura letteraria indiana: poema epico per eccellenza, castone di miti e racconti, scrigno di descrizioni della natura e dello scontro delle passioni umane, parabola del potere, meditazione profonda sul divino, sulla sua discesa nel tempo e sulla dinamica eterna del bene e del male. Si apre l’opera e, dopo poche strofe, ci si trova immersi in un’atmosfera di meraviglia per l’esuberanza delle immagini, la potenza dell’invenzione fantastica, poi, con il dipanarsi della trama, per la geometria della vicenda e dei destini. La sua cifra è l’iperbole – Rama da solo sbaraglia un esercito di quattordicimila demoni – e giustamente è stato detto che il Ramayana non è un singolo poema sia pure immenso, ma un’intera letteratura; dall’India, la storia del principe ereditario di Ayodhya, dell’amata sposa Sita e del mostruoso Ravana, demone dalla dieci teste, ha infatti fecondato per millenni la letteratura dello stesso subcontinente e in varie forme si è diffusa fin dall’antichità in Asia Centrale, in Cina, nel Sud-Est asiatico, in Malesia, in Indonesia giungendo fino al Giappone e alle Filippine. Non solo: le forme d’arte ispirate dal Ramayana non si limitano alla lettere e alla mistica, ma spaziano dalla scultura alla miniatura, dalla danza al wayang, il celebre teatro delle ombre giavanese, fino alla serie televisiva trasmessa con successo clamoroso in India nel 1987-88 e poi riversata in video per gli hindu della diaspora, cioè nel mondo intero.
Ora, dopo qualche riassunto o riscrittura molto parziale, grazie all’impresa coraggiosa e lungimirante di Mimesis lo straordinario poema è interamente leggibile in italiano: in tre volumi per un totale di oltre 1.700 pagine, è stato elegantemente tradotto e accuratamente annotato da un pool di studiosi fra i più qualificati nell’indologia nazionale (e non soltanto), tutti non nuovi a imprese di altissimo profilo culturale: Saverio Sani (coordinamento dell’opera, Libri V e VII, Glossario), il compianto Carlo Della Casa (Libro III), Vincenzina Mazzarino (Libro I), Agata Pellegrini (Libri II e IV), Tiziana Pontillo (Libro VI). Sottolineo la circostanza che appartengano a tre generazioni diverse – parrebbe quasi una situazione indiana tradizionale nella storia di un testo – a testimonianza della vitalità degli studi nel nostro Paese. Mentre l’introduzione, chiara e ricchissima senza prolissità, è firmata da uno dei massimi specialisti di Ramayana al mondo, John Brockington.
Il contributo di tutti loro fa sì che il nostro Paese – fra i non molti sul piano internazionale – possa adesso vantare un’edizione del Ramayana nella propria lingua attuale; vanto per l’Italia di oggi ancora più significativo se si rammenta che in assoluto la prima edizione integrale a stampa del testo sanscrito del poema, pubblicata nel periodo 1843-1850 e utilizzata anche per i suoi studi da un gigante dell'indologia come Otto von Böhtlingk (1815-1904), si deve per una volta proprio a uno studioso italiano, Gaspare Gorresio (1807-1891), che completò il suo imponente lavoro con la traduzione (1847-1858).
Molto opportunamente, la traduzione presentata da Mimesis è condotta appunto sull’edizione di Gorresio basata sulla recensione bengalese (gaudiya), che fra le altre si distingue per l’abbondanza del testo e la levatura poetica: perciò la recente uscita ha anche il sapore di una celebrazione e di una festa letteraria. In questa versione, il Ramayana consta di circa 24.000 shloka, strofe assimilabili per noi a quartine di ottonari: si tratta di una dimensione corrispondente a più di due volte l’Iliade e l’Odissea messe assieme. Il testo è suddiviso in sette libri (kanda) il primo e l’ultimo dei quali si ritengono aggiunte piuttosto tarde, dedicate rispettivamente all’adolescenza del protagonista e (il VII) all’approfondimento di alcuni antefatti, ma soprattutto alle vicende successive all’incoronazione di Rama. L’autore, secondo la tradizione indiana, è il veggente Valmiki che figura anche fra i personaggi non secondari dell’opera. In realtà, di lui non sappiamo nulla, ma non c’è dubbio che il poema nel suo nucleo narrativo fondamentale sia stato ideato da «un poeta di considerevole abilità e sensibilità che profuse notevole attenzione e scrupolo nell’organizzare la trama» (Brockington). Quale è pervenuto a noi, il Ramayana è frutto di precedenti che risalgono almeno al VI secolo a.C. e di una serie di espansioni fino al III d.C., per essere poi fissato anche linguisticamente nel corso dell’epoca Gupta (fine IV-VI sec.), il periodo classico per eccellenza della civiltà indiana.
La narrazione centrale, improntata ai valori dell’aristocrazia guerriera, racconta la vicenda di Rama, primogenito del re di Ayodhya Dasharatha, amatissimo dal padre, dai tre fratelli e dal popolo; egli rimane vittima degli intrighi di una seconda sposa del genitore che costringe quest’ultimo a dichiarare erede il figlio di lei Bharata, assolutamente riluttante. Ma Rama, campione del dharma, la legge religiosa, serenamente accetta la volontà subita dal padre e si reca con l'amata sposa Sita e con il fedele fratello Lakshmana in esilio nella foresta. Qui, con uno stratagemma magico, la donna viene rapita da Ravana, potente sovrano di Lanka e dei demoni antropofagi chiamati rakshasa, che si è invaghito di lei. Rama è disperato, anche perché di Sita, trasportata per l’aria dal rapitore sulla sua isola, rimangono solo labili tracce e nessuna certezza della sopravvivenza. Aiutato però dal fratello, dalla popolazione delle scimmie antropomorfe chiamate vanara e dal dio-scimmia Hanumat figlio del Vento, Rama riuscirà a rintracciare Sita e a invadere con gli alleati Lanka, liberando la sua diletta dopo avere debellato i rakshasa e ucciso il rivale al termine di un formidabile duello. Il principe torna con la sposa ad Ayodhya su un carro volante, che attraversa i cieli dell’India da Lanka alla piana del Gange…
I due libri aggiuntivi, oltre agli sviluppi cui si è accennato, realizzano però un’operazione di ben maggiore rilievo: nei libri II-VI, pur se dotato di straordinari poteri, Rama è un uomo, anzi, l’esempio del sovrano perfetto. Le aggiunte compiono l’alchimia di tramutarlo in un Dio, che viene incluso nella sacra lista delle manifestazioni del supremo Vishnu. E così la sua vicenda assume l’aspetto della “discesa” (avatara) del divino nel tempo e nello spazio, al fine di risollevare il mondo oppresso dalla corruzione e dal male rappresentato da Ravana. Nel secondo millennio d.C., il Ramayana è soggetto a profonde rielaborazioni di natura mistica, che esaltano la grazia salvifica del divino Rama con toni di devozione ardente, culminando in un altro dei capolavori della letteratura indiana, il Ramcaritmanas, “Il lago delle imprese di Rama” (fine XVI sec., in hindi) di Tulsidas. Emblematico è il fatto che, nella lingua del Mahatma Gandhi, il nome Ram significasse “Dio” tout court. E nulla può rappresentare il sentire indiano riguardo al Ramayana meglio di queste parole appartenenti al poema stesso (I vol., 1, 103) che valgono anche da augurio per il lettore: «Chi reciti le imprese di Rama, questo racconto che assicura lunga vita, che procura fama, che accresce la forza, si affrancherà da ogni male; leggendo e meditando questo racconto, meritorio per chi lo ascolta e per chi lo recita, l’uomo si libera da ogni pena».