Corriere 8.1.19
Il benemerito re di Napoli
Alfonso d’Aragona trasformò la città in una vera capitale del Rinascimento
Una
biografia di Giuseppe Caridi (Salerno) dedicata al sovrano che, nel XV
secolo, diede grande lustro alla cultura partenopea. Oltre ad avviare
una serie di importanti lavori pubblici, mostrò sempre una straordinaria
generosità
di Paolo Mieli
Nel giro di
vent’anni, a metà del Quattrocento, Napoli è diventata una delle
principali città europee del Rinascimento. Cosa lo rese possibile? È
questo il nodo centrale che cerca di sciogliere il libro di Giuseppe
Caridi, Alfonso il Magnanimo, che sta per essere pubblicato da Salerno
editrice. L’Alfonso di cui al titolo del libro era nato nel 1396 e nel
1416 era subentrato al padre Ferdinando I come titolare della corona
d’Aragona, costituita dagli Stati iberici di Aragona, Catalogna,
Valenza, Maiorca e dalle isole italiane di Sicilia e Sardegna. Nel 1421
accadde qualcosa che gli avrebbe cambiato la vita: la regina di Napoli
Giovanna II, che non aveva figli, lo chiamò nella sua città a che le
desse man forte contro Luigi III d’Angiò. In cambio gli promise che lo
avrebbe nominato erede del suo regno. Anzi, lo adottò all’istante come
figlio, rendendo così implicita la successione.
Attratto dalla
prospettiva di allargare il regno d’Aragona con una città importante
come già era all’epoca Napoli, Alfonso accettò di trasferirsi alla corte
della madre adottiva. La quale però — insofferente ai modi con i quali
il sovrano aragonese aveva iniziato a svolgere il suo ruolo — due anni
dopo revocò l’adozione. Lì per lì Alfonso fu ben lieto di rientrare in
patria a sedare i conflitti insorti tra i suoi fratelli e Giovanni II,
re di Castiglia. Ma non si diede pace del ripensamento della regina
Giovanna e alla sua morte tornò nel 1435 in terra italica per far valere
i propri diritti in una guerra per la successione al trono di Napoli.
Guerra nel corso della quale si scontrò con Renato d’Angiò. Vinse, nel
1442, e da quel momento si stabilì definitivamente a Napoli senza
tornare mai più nella terra natia.
Napoli, scrive Giuseppe Caridi,
divenne di fatto la capitale dei domini di Alfonso e, grazie al
mecenatismo in virtù del quale accolse letterati, artisti e tecnici, la
sua corte divenne «un importante centro del Rinascimento italiano». In
più Alfonso adottò in campo edilizio ed economico provvedimenti che,
insieme con la promozione della cultura, proiettarono potentemente la
sua nuova «capitale» verso la modernità.
Caridi si muove nel solco
tracciato da Giuseppe Galasso — Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno
angioino e aragonese (1266-1494) edito da Utet — e Mario Del Treppo — Il
Regno aragonese nella Storia del Mezzogiorno a cura di Giuseppe Galasso
e Rosario Romeo per le Edizioni del Sole — che già avevano messo in
grande risalto l’importanza del primo re aragonese di Napoli. Alfonso
viene presentato, secondo la descrizione che ne diede Enea Silvio
Piccolomini (futuro Papa Pio II), come un uomo «di corporatura fragile,
pallido in volto, di aspetto gioviale, naso aquilino occhi vispi,
capelli neri che tuttavia cominciavano a incanutirsi e tesi verso le
orecchie, di media statura, molto sobrio nei pasti e nelle bevande, che
non beveva vino se non mescolato con molta acqua»
Nel gennaio
1444, poco tempo dopo aver piegato i suoi competitori, nemici e rivali
(in una lunga serie di battaglie e cambiamenti di alleanze che il libro
ricostruisce con meticolosità), Alfonso, ormai insediatosi stabilmente
sul trono di Napoli, mentre si trovava a Pozzuoli, fu colpito da una
grave malattia che lo ridusse in fin di vita. Le sue condizioni
peggiorarono a tal punto che ai primi di aprile si diffuse la notizia
della sua morte. Immediatamente a Napoli scoppiò una rivolta, i sudditi
catalani e aragonesi ebbero l’occasione di toccare con mano l’odio
sviluppatosi nei loro confronti e dovettero cercar riparo nei luoghi più
disparati. Qualcosa di assai simile accadde oltretutto a molti
esponenti della nobiltà partenopea, solo perché erano stati leali con il
sovrano aragonese. Poi il re all’improvviso guarì, ma «quanto era
accaduto nel periodo della sua infermità fu per lui un forte campanello
d’allarme» e gli fece conoscere l’«incostanza del baronaggio» nonché la
scarsa affidabilità dei sudditi locali.
Alfonso fece di tutto per
dissimulare il suo malumore facendo buon viso a cattivo gioco, ma per
rafforzarsi decise di far sposare al figlio (illegittimo) Ferrante — da
lui designato a proprio erede sul trono di Napoli — la figlia del
principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini, che esercitava un forte
ascendente sull’intera classe nobiliare dell’Italia meridionale. Ancora
un anno per risolvere alcune importantissime questioni militari e
stabilì che nel 1445, al massimo nel 1446, sarebbe tornato in Spagna.
Invece
non rimise piede in terra iberica. Secondo i cronisti dell’epoca,
perché si innamorò di Lucrezia d’Alagno, figlia di un nobile napoletano.
Alfonso la conobbe che aveva già superato i cinquant’anni, non volle
mai distaccarsene anche se Caridi sembra propendere per la tesi che tra i
due si fosse stabilito solo un rapporto platonico. È un fatto però che
Lucrezia ebbe un colloquio con il Papa Callisto III per indurlo a
concedere l’annullamento del matrimonio di Alfonso (e fu lo stesso
pontefice a rivelare successivamente che «quel che essa si pensava
ottenere non era possibile, perché egli non voleva andare all’inferno
con lei»). In ogni caso, secondo Caridi, «l’infatuazione per la giovane
napoletana influì certamente sul mancato rientro in Spagna di Alfonso,
che, avendo deciso di risiedervi, fece di Napoli l’effettiva capitale
della corona d’Aragona».
Già prima di incontrare Lucrezia,
peraltro, Alfonso aveva dedicato alla città «particolare attenzione
sotto il profilo urbanistico con opere di riqualificazione che andarono
dalla selciatura, livellamento e ampliamento di strade, alla
costruzione, restauro e abbellimento di edifici pubblici, dalla
sistemazione di acquedotti e reti fognarie alla ristrutturazione dei
moli del porto, della città muraria e degli stessi castelli notevolmente
danneggiati nel corso degli assedi subiti durante la guerra di
successione al trono». In particolare Castel Nuovo fu in quell’occasione
ricostruito pressoché interamente e lì il sovrano fissò la sua
principale dimora.
La consacrazione della Napoli aragonese avvenne
nel 1452 con la visita in città di Federico III d’Asburgo che, subito
dopo l’incoronazione, con quel viaggio sancì «il riconoscimento al
massimo livello del ruolo di primo piano acquisito da Napoli nel
consesso delle potenze cristiane». La visita si protrasse per dieci
giorni (avrebbero dovuto essere otto). Alfonso ordinò ai negozianti
della città di consegnare alle persone al seguito dell’imperatore
qualsiasi mercanzia da loro richiesta. Al pagamento avrebbe poi
provveduto la corona, senza alcun aggravio per i sudditi. Venuto a
conoscenza di questa disposizione, Federico d’Asburgo raccomandò ad
alcuni suoi agenti di evitare che si abusasse della liberalità del
sovrano aragonese e che si preoccupassero perciò di «proibire a chi
aveva già ricevuto un regalo di andare a chiederne un altro».
Ci
fu un solo «incidente» riconducibile a questo eccesso di prodigalità.
L’imperatore Federico — come Alfonso — era solito bere pochissimo vino,
mai fuori dai pasti e mescolato all’acqua. A sua moglie Eleonora, che
«non aveva mai assaggiato vino nella casa paterna» ed era di conseguenza
astemia, i medici avevano ordinato di berne per poter avere dei figli.
Venuta a conoscenza di tale prescrizione, la corte napoletana fece di
tutto per somministrargliene in abbondanza. Dovette intervenire
l’imperatore per ordinare alla consorte di non berne, dicendo nei modi
più espliciti che avrebbe preferito avere una moglie «sterile anziché
ubriaca». Vino a parte, «con l’ostentazione della larghezza di risorse
finanziarie di cui disponeva, manifestata mediante la sontuosità dei
festeggiamenti», Alfonso raggiunse lo scopo di destare «grande
ammirazione nella suprema autorità politica della cristianità». L’eco
della prodigalità del sovrano di Napoli (avrebbe speso, secondo
Vespasiano da Bisticci, la bella somma di 150 mila ducati) si diffuse
rapidamente in tutta Europa «con riflessi estremamente positivi per il
suo prestigio, che era l’obiettivo al quale in definitiva il re tendeva e
di cui aveva voluto si fossero fatti interpreti gli uomini di cultura
attratti a corte dalla sua magnanimità». Ed è da questo particolare che
viene il suo soprannome di «Magnanimo».
Attrasse alla sua corte
quanti più intellettuali riuscì (per primi Lorenzo Valla, autore della
celeberrima confutazione della «donazione costantiniana», Antonio
Beccadelli detto il Panormita, poi Bartolomeo Facio, Giovanni Gioviano
Pontano, Candido Decembrio, Gregorio da Tiferno, Lorenzo Buonincontri,
Giorgio da Trebisonda, Teodoro Gaza, Costantino Lascaris, Poggio
Bracciolini, Giannozzo Manetti). A tutti diede compensi più alti di
quelli che loro stessi chiedevano. Del resto fin dal suo insediamento a
Gaeta, Alfonso aveva provveduto a fornire la corte di una «cospicua
biblioteca». Al termine del saccheggio delle città conquistate,
compensava munificamente qualsiasi soldato gli portasse un libro. E
aveva fatto sapere agli altri sovrani di gradire il dono di testi
preziosi. Cosimo de’ Medici gli regalò un manoscritto di Seneca che si
diceva fosse appartenuto a Petrarca e lui lo accolse con entusiasmo
vincendo le perplessità dei suoi consiglieri, i quali sospettavano che
il signore fiorentino ne avesse avvelenato i fogli. A lui va ricondotta
la fondazione dell’Accademia promossa dal Panormita e che poi prese nome
da Pontano.
Ebbe solo benemerenze il re aragonese? No. Caridi
nota come Pontano avesse già all’epoca evidenziato qualche «ombra» su
Alfonso. Ad esempio il fatto che «la prodigalità del sovrano, pur
diffusamente da lui stesso elogiata, lo avesse indotto a contrarre
ingenti debiti». Dopodiché «in preda al dispiacere e alla collera per le
difficoltà ad onorarli, il re di Napoli cercò di rifarsi a spese degli
agenti del fisco», spogliati dei loro beni con l’ingiusta accusa «di non
aver compito in modo efficace il loro dovere». Una «condotta arbitraria
— secondo Pontano — tipica dei sovrani il cui governo degenera in
tirannide».
In ogni caso, scrive Caridi, grazie alla presenza e
alle iniziative dei numerosi intellettuali e tecnici che lì operarono,
la corte napoletana di Alfonso costituì uno dei principali centri del
Rinascimento. Al di là dell’uso di carattere propagandistico (per il
consolidamento della nuova dinastia da lui insediata) al sovrano
aragonese «va riconosciuto il merito di aver notevolmente contribuito
alla promozione della cultura in una parte dell’Italia fino ad allora
avulsa dal dinamismo intellettuale già in auge in altre aree della
penisola».
È un fatto che «a contatto con gli intellettuali della
corte napoletana numerosi connazionali spagnoli di Alfonso provenienti
dalla Sicilia e dai regni iberici, si avvicinarono all’umanesimo
italiano». Nella qual cosa — ha osservato Ernesto Pontieri nel libro
Alfonso il Magnanimo re di Napoli (1435-1458) (Edizioni Scientifiche
Italiane) — «il re correggeva se stesso perché ciò che di medievale egli
conservava, in comune con i suoi connazionali, andò via via
affievolendosi al contatto della civiltà italiana, assai più colta e
moderna». Quello del re aragonese fu a suo modo un salto. In effetti,
scrive Caridi, in campo culturale, edilizio e anche sotto il profilo
economico «mostrò una lungimiranza che sembrava allontanarlo dalla
tradizione medievale e farlo tendere alla modernità».
Riflessi
positivi di carattere culturale si ebbero anche nei regni iberici del
Magnanimo, dati gli stretti contatti mantenuti con essi da Napoli, dove
erano del resto affluiti numerosi sudditi di quegli Stati che con il
decisivo sostegno del sovrano si inserirono nelle file della feudalità e
ricoprirono cariche di rilievo nell’amministrazione pubblica. In
seguito la corte alfonsina fu senza dubbio il canale attraverso cui «le
prime correnti significative del Rinascimento italiano trovarono la via
di penetrazione verso la Spagna» Anche se va considerato che nella
stessa Spagna il diffondersi della moda e dello stile italiano non
cancellò mai l’influenza castigliana. Ma Napoli divenne da quel momento
una grande capitale europea. E fu merito di Alfonso.