Corriere 5.1.19
Quel voto ha «tradito» il ruolo del Parlamento
La protesta Il Pd chiede alla Corte costituzionale di pronunciarsi sullo «strappo»
Nessun dibattito Le Camere sono state mortificate, sottraendo le scelte alla logica di un confronto aperto
di Valerio Onida
Presidente emerito della Corte Costituzionale
Caro
direttore, cerchiamo di ragionare, non si dice a freddo, ma con
pacatezza, sulla vicenda della approvazione parlamentare della legge di
bilancio: un’approvazione avvenuta, al Senato, sulla base di un
maxi-emendamento «monstre» presentato dal governo, corretto fino
all’ultimo minuto, e composto da varie centinaia di commi di uno stesso
articolo, dai contenuti più disparati.
Non è la prima volta che la
cosiddetta «manovra» di fine anno viene varata faticosamente con la
discutibile procedura di un voto unico, su un testo fitto di
disposizioni diversissime, sul quale il governo pone la questione di
fiducia. Ma è la prima volta che il testo sul quale si è votato è
rimasto praticamente sconosciuto e non conoscibile da parte dei
parlamentari chiamati ad esprimersi, perché modificato fino a poche ore
prima del voto finale, senza alcuna possibilità di esame e discussione,
né in Commissione, né in Aula. Quando il governo pone la questione di
fiducia su un testo, è vero che il voto assume un significato ulteriore
rispetto a quello suo proprio, e cioè l’effetto di conferma o di
smentita del rapporto fiduciario dalla cui permanenza dipende la
continuità di vita del governo. Ma ciò non toglie che il voto continui a
essere anzitutto una espressione di consenso o di dissenso delle due
Camere rispetto a un testo preciso, destinato ad assumere forza di legge
dopo la promulgazione da parte del Capo dello Stato.
Ora,
approvare un testo che non si conosce e non si può conoscere nella sua
formulazione definitiva è qualcosa che non costituisce solo una cattiva
prassi, ma che smentisce e tradisce l’essenza stessa del ruolo del
Parlamento nel procedimento legislativo. Su questo vero e proprio
strappo sarà chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale, decidendo
sul conflitto di attribuzioni promosso da un gruppo parlamentare di
opposizione (quello del Pd) e insieme da parlamentari costituenti quel
decimo dei componenti di una Camera che per Costituzione ha il potere di
chiedere un voto dell’assemblea nell’ambito del procedimento
legislativo e su una mozione di sfiducia.
La giustificazione della
maggioranza per questo modo di procedere è che la trattativa con le
istituzioni dell’Unione Europea si è dovuta prolungare fino a
raggiungere l’intesa idonea a evitare la procedura di infrazione, e che
quindi la manovra ha dovuto essere adattata alle nuove condizioni, in
particolare ridimensionando l’entità del deficit previsto. La
giustificazione ha un suo fondamento di fatto: ma qui si rivela l’altro
vero «peccato originale» di questo tipo di manovra. Infatti, secondo la
legge generale di attuazione del nuovo art. 81 della Costituzione
(riformato nel 2012), la legge di bilancio dovrebbe limitarsi a
contenere le previsioni di entrata e di spesa nei tre anni a venire, sia
quelle derivanti dalla legislazione già in vigore, sia quelle
funzionali a realizzare i nuovi obiettivi programmatici, evidenziando i
risultati differenziali complessivi: in ogni caso solo misure
quantitative, con esclusione di norme «di carattere ordinamentale o
organizzatorio» e di «interventi di natura localistica o
microsettoriale».
Nella prassi invece la legge di bilancio (come
in passato la legge finanziaria o di stabilità) viene infarcita di
innumerevoli disposizioni particolari, aventi effetti di entrata o più
spesso di spesa a carattere spesso microsettoriale e localistico. Sono,
per quanto riguarda le spese, quelle che si usano chiamare «mance»
intese a soddisfare i più svariati interessi particolari, magari
meritevoli, ma appunto svincolati da una visione generale dei problemi.
Nella legge di bilancio appena approvata dal Senato il Sole 24 Ore ha
contato 106 micro-misure di spesa, dell’ordine da 60.000 euro a 10
milioni di euro ciascuna nel 2019. In questo modo le centinaia di commi
della legge mirano a soddisfare tanti micro-interessi, e il
maxi-emendamento governativo diventa il luogo di sintesi di queste
misure. Qui l’Europa non c’entra. Le istituzioni europee possono
giustamente avere contrattato i risultati complessivi di bilancio (il
famoso 2,04 invece che il 2,4 di deficit), ma da questo punto di vista
l’esito avrebbe dovuto essere una legge che ridefinisse in modo coerente
i saldi di bilancio, non certo un profluvio di misure spicciole di
entrata e di spesa. Certo, i risultati complessivi del bilancio
dipendono anche dalla programmazione di nuove entrate e di nuove spese,
oltre che dall’andamento previsto delle entrate e spese già regolate. Ma
il bilancio, per quanto riguarda le spese, contiene sia gli
stanziamenti per specifiche destinazioni di spesa, sia accantonamenti o
fondi speciali destinati a finanziare nuove spese che ancora debbono
essere disciplinate. Per esempio è significativo che per le due grandi
misure che l’attuale maggioranza di governo considera per sé
caratterizzanti, vale a dire la cosiddetta quota cento per le pensioni e
il cosiddetto reddito di cittadinanza, la legge di bilancio non
contenga alcuna normativa diretta a introdurle e regolarle, ma solo
degli accantonamenti. Allora sarebbe bastato rivedere la legge riducendo
o spostando gli accantonamenti, in modo da giungere ai risultati
differenziali voluti (riduzione del deficit previsto). Per le nuove
entrate è diverso, perché se non sono specificamente regolate il
bilancio non può registrarle: ma nulla vieterebbe ad esempio di ridurre
temporaneamente gli accantonamenti per le nuove spese riservandosi di
accrescerli una volta che, anche con provvedimenti separati, si fosse
provveduto a procurare e disciplinare le nuove entrate atte a coprirle.
Ma per far questo occorrerebbe davvero assegnare alla legge di bilancio
il ruolo suo proprio, riservando a separati provvedimenti legislativi le
misure particolari comportanti nuove entrate o nuove spese. Con questo
si perderebbe però l’opportunità, per i vari micro-interessi,
dell’annuale «assalto alla diligenza», cioè di agganciare il proprio
vagoncino al «treno» della legge di bilancio che ha un iter sicuro e
veloce: tanto veloce, che il Parlamento se lo vede praticamente passare
sotto il naso senza fermarsi.
Continuando ed esasperando tale
prassi si mortifica il Parlamento, e si offre al governo, che formula il
suo «maxi-emendamento», e alle sue diverse articolazioni (i ministeri),
l’opportunità di essere il luogo di sfogo di lobby e interessi
particolari, le cui ragioni finiscono spesso per sfuggire alla logica di
un confronto aperto e di un dibattito alla luce del sole.