Corriere 5.1.19
I 49 profughi sulle navi
La soluzione che l’Europa non riesce a trovare
di Luigi Manconi
I
dati essenziali sono questi: da quindici giorni, una nave dell’Ong Sea
Watch, dopo aver raccolto dalle acque del Mediterraneo 32 migranti e
profughi — tra cui 7 minori e 4 donne — chiede che un porto europeo
possa accoglierli. I naufraghi provengono da undici diverse nazioni
africane. Tutti Paesi dove si verificano condizioni di massima
insicurezza, o a causa del dominio di regimi totalitari o a motivo di
uno stato di estrema povertà; o perché dilaniati da conflitti bellici e
guerre civili o perché teatro di attività terroristiche e di
persecuzioni di natura etnica, religiosa e sessuale. Nella stessa
situazione si trova la nave dell’Ong Sea Eye, che il 29 dicembre ha
salvato 17 persone.
La lunga permanenza in mare e il peggioramento
delle condizioni climatiche producono conseguenze che dai medici di
bordo sono così riassunte: «per persone malnutrite e in condizioni di
salute molto precarie la disidratazione come causa del mal di mare è un
pericolo molto grave, soprattutto se associata all’ipotermia». Di fronte
a tale situazione, c’è chi ha scritto con scandalo di: «povericristi
salvati dal mare e sballottati tra le tempeste delle acque maltesi, una
trentina di persone umane a cinquanta miglia dai porti chiusi di un
Paese di sessanta milioni di abitanti con reddito di cittadinanza e
quota cento». Non sono le parole del sindaco (sospeso) Mimmo Lucano o
del missionario comboniano Alex Zanotelli, bensì di un giornale
flemmatico e poco incline all’emotività come Il Foglio. Ed è difficile
sottrarsi alla tentazione di comparare la vulnerabilità di quelle 49
persone spossessate di tutto alla robusta cifra di oltre 500 milioni di
cittadini europei. La replica è inevitabile: accogliendo quelle 49
persone si rischia di alimentare un flusso che può farsi imponente e
compromettere la stabilità economico-sociale di Paesi che, in
maggioranza, non godono di ottima salute.
Non si vuole qui
rispondere con la ragionevolezza, documentata da mille ricerche, che
giungono a una conclusione pressoché unanime: se l’Europa adottasse una
politica condivisa e di medio-lungo periodo, quei migranti non solo
potrebbe accoglierli, ma ne verificherebbe l’irrinunciabile necessità.
Consideriamo, piuttosto, la circostanza attuale che si configura come un
vero stato di emergenza; e che richiama l’articolo 3 della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo. Qui si legge che «nessuno può essere
sottoposto» a «trattamenti inumani o degradanti». La condizione fisica e
psicologica di quei 49 configura o no un «trattamento inumano»? E come
negare che si tratti proprio di questo, dal momento che un simile stato
di esposizione al pericolo ha ormai raggiunto, per la gran parte di
loro, le due settimane? Il nodo giuridico, prima ancora che umanitario e
politico, è questo: e su questo sembra che, nelle ultime ore, qualcosa
infine si muova grazie alla disponibilità di alcuni Paesi europei. Vi
viene la curiosità di sapere se, tra questi, si trovi la nostra Italia,
terra notoriamente dotata di «un cuore grande così»? Beh,
tranquillizziamoci: non c’è.
Viene in mente una vecchia storia:
nel 1939, la nave St. Louis salpò da Amburgo con a bordo 937 ebrei
tedeschi alla ricerca di un porto sicuro, che non trovò a Cuba, negli
Stati Uniti e in Canada. Dopo parecchie settimane, fu costretta a
tornare in Europa: una parte dei profughi fu accolta dall’Inghilterra,
altri dalla Francia, dal Belgio, dai Paesi Bassi. Molti tra essi qualche
anno dopo finiranno nei lager nazisti. Per carità, nessuna comparazione
è possibile tra le due epoche storiche, le due tragedie e le diverse
responsabilità. Ma, come hanno affermato Piero Terracina e Liliana
Segre, sopravvissuti ad Auschwitz, un fattore avvicina le due vicende:
l’indifferenza dell’Europa.
Ora, uno spiraglio sembra aprirsi: quanto ampio, chissà.