sabato 5 gennaio 2019

Corriere 5.1.19
Perché la Sindrome di Stendhal non poteva che nascere a Firenze
Il malessere d’autore. A diagnosticarlo per prima nel 1979 fu Graziella Magherini, guarda caso a Firenze

In edicola oggi con il quotidiano il secondo libro della Storia dell’arte raccontata da Philippe Daverio
di Stefano Bucci


La città toscana ospita un concentrato di capolavori senza eguali al mondo
Una bellezza che sconvolse lo scrittore francese e non smette di affascinare
Certo non si può dire che sia un caso se la famigerata Sindrome di Stendhal, quel malessere che colpisce il viaggiatore davanti alla grandezza dell’arte, sia stata diagnosticata nel 1979 dalla dottoressa Graziella Magherini (che la certificò anche con un libro pubblicato da Ponte alle Grazie) proprio a Firenze.
Perché sembra molto difficile, se non quasi impossibile, trovare un altro luogo che possa vantare un concentrato di capolavori (Botticelli, Caravaggio, Michelangelo sembrano essere gli autori più predisposti a scatenare la sindrome) equivalente a quello della «Città del Fiore». Basta pensare, d’altra parte, che la stessa dottoressa Magherini era responsabile del servizio per la salute mentale dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, il più antico ospedale della città. Che, fondato nel 1288 da Folco Portinari, era stato ampliato nel 1420 dal Chiostro delle Medicherie con gli affreschi di Bicci di Lorenzo. Lo stesso Spedale dove si conservano tuttora (tra l’altro) una terracotta invetriata raffigurante La Pietà di Giovanni della Robbia; un’altra terracotta con la Madonna col Bambino e due angeli attribuita a Michelozzo. E dove, nell’ex Chiostro delle Ossa, si trovava l’affresco staccato rappresentante il Giudizio universale di Fra Bartolomeo, ora al Museo di San Marco.
D’altra parte la stessa denominazione scelta da Magherini non può assolutamente fare a meno ancora una volta di Firenze, visto che sarebbe stato proprio il francese Stendhal (1783-1842), autore della Certosa di Parma ma anche grande appassionato d’arte, a descrivere nel suo Roma, Napoli e Firenze (1817) questa patologia psicosomatica da lui sperimentata in prima persona. Dove e quando? Durante una visita alla Basilica di Santa Croce, a Firenze, quando «venne colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo».
Nell’epoca dei «terzi occhi tecnologici utilizzati per fermare e immagazzinare i capolavori» di Giotto o di Ghirlandaio al posto di quelli fisiologicamente deputati a questa funzione, il malanno che aveva così profondamente segnato lo scrittore francese potrebbe però apparire definitivamente debellato. Come sembrerebbe confermare Grand Tourismo: il progetto-mostra del fotografo fiorentino Giacomo Zaganelli realizzato in collaborazione con la Galleria degli Uffizi (in mostra fino al 24 febbraio nella sala 56 del museo), che in tre video ha voluto certificare «la consuetudine a filtrare l’osservazione dell’opera d’arte attraverso l’obiettivo di smartphone, telecamere, macchine fotografiche». Ma poi si scopre che non è così e che la Sindrome di Stendhal continua a colpire, almeno a Firenze: lo scorso dicembre, un sabato mattina, un turista settantenne si accascia a terra davanti alla Venere di Botticelli (verrà poi salvato con tanto di defibrillatore) proprio agli Uffizi, un altro dei luoghi più pericolosi per gli individui predisposti. Il fatto è che, neppure oggi, si può sfuggire al potere di una tale concentrazione di bellezza come quella di Firenze.
Una concentrazione di classicità rinascimentale (ma non solo) che senza paura è potuta diventare fondale (eccellente) per film come Paisà (1946) di Roberto Rossellini (il Corridoio Vasariano), Ritratto di signora (1996) di Jane Campion con Nicole Kidman (il Duomo), Un tè con Mussolini (1999) di Franco Zeffirelli (la Gipsoteca dell’Istituto d’arte di Porta Romana), La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana (la Biblioteca Nazionale e la Chiesa di Santo Spirito). E persino per un horror di Dario Argento (La Sindrome di Stendhal, appunto, del 1996) e per Hannibal (2001) di Ridley Scott (sequel del Silenzio degli Innocenti) dove il cannibale si muove tranquillamente tra la Biblioteca di Palazzo Capponi, Ponte Vecchio e il Mercato Nuovo.
Il fascino (verrebbe da dire eterno) di Firenze è capace persino di annullare l’«effetto sbeffeggio» dell’irriverente scultura dorata Pluto e Proserpina di Jeff Koons piazzata davanti a Palazzo Vecchio, tra la Fontana del Nettuno dell’Ammannati e il gruppo scultoreo Ercole e Caco di Baccio Bandinelli, come dei 22 gommoni di salvataggio che Ai Weiwei aveva attaccato sulla facciata del quattrocentesco Palazzo Strozzi per Reframe (2006). Quella di Firenze è una bellezza diffusa che trova però alcuni centri di gravità permanenti e per niente immaginari: gli Uffizi, certo, ma anche la Galleria dell’Accademia con il David; la Porta del Paradiso del Ghiberti oggi nel Museo dell’Opera del Duomo; gli affreschi del Beato Angelico nel Convento di San Marco (tanto amati da un maestro dell’arte contemporanea come David Hockney che sogna di ritornare prima o poi a rivederli); la Cappella dei Pazzi del Brunelleschi (quello della Cupola tanto per chiarire); il Bargello con il San Giorgio di Donatello.
O, la chiesa di Santa Maria Novella con la Trinità di Masaccio: «Non grazia delicata, ma figure massicce e pesanti; non curve libere e fluenti, ma forme angolose e solide». Parola di un grande (critico) come Gombrich.