Corriere 4.1.19
Un ricordo dello scrittore israeliano scomparso il 28 dicembre. «Contagiava con il suo amore per la letteratura»
Amos Oz scolpiva le fiamme
Ma sempre con delicatezza
Eshkol Nevo rievoca il maestro: spero che avremo il suo stesso coraggio
di Eshkol Nevo
La
scomparsa dello scrittore Amos Oz, che era nato a Gerusalemme il 4
maggio 1939 e si è spento lo scorso 28 dicembre a Tel Aviv a causa di un
tumore, ha segnato un lutto grave per la letteratura israeliana e
mondiale. Tra gli allievi di Oz, la cui opera ha segnato una stagione
fondamentale nella vicenda culturale del suo Paese, spicca il romanziere
israeliano Eshkol Nevo (nato nel 1971), che a suo tempo frequentò le
sue lezioni all’Università Ben Gurion. A Nevo, autore di libri
importanti come il romanzo «Nostalgia» (edito in Italia da Mondadori nel
2007 e poi riproposto da Neri Pozza nel 2014) si deve questo ricordo di
Oz, che unisce la commozione personale a riflessioni acute sul ruolo
svolto dal maestro nella vita sociale dello Stato ebraico.
Amos Oz
era il mio maestro. Alla prima lezione del corso di scrittura
all’Università Ben Gurion ha esordito con questa frase: «Non posso
insegnarvi a scrivere. Però vi posso insegnare a cancellare». Hanno
fatto seguito esercizi stimolanti. E riscontri incisivi. Ma più di tutto
mi sono rimasti impressi il basilare rispetto con cui si rivolgeva a
tutti i presenti e la serietà con cui si dedicava a qualunque testo gli
venisse presentato. Anche il più acerbo. A fine seminario mi sono reso
conto che da Amos non avevo imparato soltanto come scrivere, avevo
imparato anche come insegnare: con riverenza, con dedizione assoluta,
con la consapevolezza che il potere nelle mani di un maestro va usato
soltanto per giovare.
Il secondo corso che ho seguito con lui era
dedicato ai racconti brevi di Shai Agnon. Amos non insegnava Agnon come
lo insegnano al liceo, con lo scopo di cavarne interpretazioni, ma da
autore che cerca di individuare in che modo la lettura di un grande
narratore può diventare motore per la scrittura. Ci leggeva Agnon, riga
dopo riga. Delucidava e illuminava. Collegava e spiegava. Più di tutto,
ci contagiava con il suo amore per Agnon.
Al termine di una
lezione mi sono avvicinato al podio dove si trovava. Volevo raccontargli
una cosa. Ho aspettato in fila. C’era sempre una fila di persone che
volevano intrattenersi con lui. E a ciascuna dedicava un’attenzione
indivisa. Quando è arrivato il mio turno, mi ha chiesto di accompagnarlo
all’aula successiva in cui doveva entrare. Mi sono pavoneggiato con
lui, mi ero licenziato dal lavoro e adesso «scrivevo e basta». Lui si è
fermato, mi ha guardato con il suo sguardo penetrante e ha detto: «Io
non ho mai “scritto e basta”». E ha aggiunto: «Non son certo che sia
cosa buona, per un uomo, “scrivere e basta”».
Adesso ripenso a
quella frase. Contiene un nocciolo di saggezza universale: l’anima
dell’uomo ha bisogno di un contatto con il mondo concreto, altrimenti
languisce nella sua solitudine. Ma racchiude anche un’ideologia. Non
basta scrivere belle storie. O romanzi ben costruiti. Certo, ci si può
accontentare di questo, ma un vero intellettuale non può non essere
coinvolto nella società in cui vive. Esprimere la sua opinione, anche
quando non è popolare. Illuminare con le sue parole gli angoli bui,
anche quando nessuno li vuol vedere.
La verità va detta: Amos ha
pagato un prezzo alto per il suo coinvolgimento politico e sociale.
Mentre per molti riusciva a formulare in modo incisivo quel che
provavano, molti altri sentivano che rappresentava tutto quello che
avversavano.
«Non ho bisogno che tutti mi amino tutto il tempo» ha
detto una volta Amos. Eppure, serve coraggio per rinunciare a questo
amore, e serve coraggio per andare controcorrente, e serve coraggio per
essere leale solo ed esclusivamente a te stesso e alla tua bussola
interiore.
Spero che io e la mia generazione avremo il coraggio che ha avuto Amos: di non tacere al nostro Paese, quando cambia faccia.
Amos è rimasto il mio maestro anche quando ho smesso di studiare con lui.
Dopo
ogni nuovo romanzo, ricevevo la sua telefonata. O una lettera. A volte
entrambe. Oltre alle cose che del libro gli piacevano, segnalava sempre —
con delicatezza, con voce gentile — ciò a cui a suo avviso era
possibile aspirare. Anche dopo l’ultimo libro, ha telefonato. Questa
volta, per scusarsi. Stava leggendo il mio nuovo romanzo più lentamente
del solito, per via delle chemioterapie che lo indebolivano. Perciò non
l’aveva ancora terminato. Sperava solo che io non la prendessi male.
Lui
sperava che io non la prendessi male? Mentre lo scrivo, sento un
brivido. Ma non solo io ricevevo quelle telefonate, e le lettere stilate
in una scrittura incredibilmente fitta.
Chiunque abbia avuto il
privilegio di avere rapporti con Amos Oz conosceva il segreto: il più
grande degli scrittori in lingua ebraica, l’oratore che scolpiva le
fiamme, lo stregone della tribù, nella vita privata era una persona di
straordinaria delicatezza. E di straordinaria generosità.
Alcuni
anni fa, dopo la pubblicazione del suo libro Giuda, l’ho intervistato.
Il giornale me l’ha proposto e ho pensato che fosse un’ottima scusa per
incontrarci. Ci siamo seduti nel suo studio. Abbiamo bevuto un tè. Poi
un altro tè. Si è arrampicato sulla scala per prendere un libro dallo
scaffale più alto della sua biblioteca.
Adesso torno a rileggere
quell’intervista. E scopro che verso la fine gli avevo chiesto della
fine: della prospettiva di cui godiamo quando ci avviciniamo all’ultima
parte della nostra vita.
Ecco come ha risposto: «Nella mia vita,
ho ottenuto più di quanto sperassi. Ci sono persone che alla mia età
sono amareggiate, si comportano come se stessero per essere cacciate
fuori da una festa in pieno svolgimento. Io provo gratitudine. Sono
grato per un bel libro. Per una buona conversazione. Per i miei figli e
nipoti. Per le amicizie».
E ha aggiunto: «Trascorro molto tempo
con i morti, ripenso alle persone che ho conosciuto e amato nel corso
della vita, ci sono più persone che ho amato e oggi non sono con noi,
che non persone che ho amato e sono con noi. Mi mancano. Vivo come fossi
gravido. Con i morti nella pancia. Di tanto in tanto converso con loro.
Pongo domande, e ricevo risposte».
Alcune settimane fa ci siamo
nuovamente incontrati in casa sua. Non immaginavo che sarebbe stato
l’ultimo incontro. Amos era malato. Ma come sempre sprizzava acume e
racconti. E come sempre lui e sua moglie Nilli non mi hanno permesso di
andarmene prima di rifornirmi di provviste letterarie per la strada.
Avessi saputo che era il nostro ultimo incontro, sarei forse stato più generoso nelle parole di congedo.
Forse gli avrei detto che il maestro giusto, al momento giusto, può cambiare la vita a una persona.
Adesso
converso con lui nel mio cuore, pongo domande e ricevo risposte, leggo e
rileggo i suoi libri. Raccolgo frasi belle con cui consolarmi: «In cuor
suo sapeva che la maggior parte delle persone ha bisogno di più amore
di quanto ne possa ricevere»; «La mia maestra Zelda… riteneva opportuno
richiamarmi garbatamente, se qualche volta smetti di parlare, le cose
qualche volta potranno parlare a te»; «Un uomo deve agire per gli altri e
non distogliere lo sguardo; se vede un incendio, ha il dovere di
cercare di spegnerlo; se non ha un secchio d’acqua, può usare un
bicchiere; se non ha il bicchiere, avrà un cucchiaino, l’importante è
continuare a provare».
Amos Oz, amato maestro, il tuo ricordo sia di benedizione.
(traduzione di Raffaella Scardi)