venerdì 4 gennaio 2019

Sul sito di Left è pubblicata la versione integrale corretta dell'articolo dello psichiatra Domenico Fargnoli, andato in edicola il 4 gennaio 2019 con un errore grafico che ha alterato la disposizione del testo originale. 
Il sonno della ragione, i mostri della politica
di Domenico Fargnoli
qui

Corriere 4.1.19
L’analisi di Musto (Einaudi)
Marx libero dai pregiudizi dei marxismi
di Umberto Curi


Non accade spesso che la pubblicazione di un libro segni una svolta negli studi relativi ad un autore. È più frequente il caso di saggi che, nella migliore delle ipotesi, si limitano ad aggiornare il quadro, o che sviluppano aspetti settoriali specifici, senza intraprendere una revisione complessiva. Prevale largamente, insomma, l’attitudine a lavorare all’interno di un paradigma già consolidato, piuttosto che proporre un approccio talora arrischiato, ma realmente innovativo.
Questo orientamento generale è ancora più nettamente riscontrabile negli scritti riguardanti il pensiero di Karl Marx. Dopo la vera e propria orgia ideologica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando i testi del filosofo furono utilizzati per legittimare le posizioni politiche più diverse e spesso più stravaganti, e dopo il quasi totale oblio conseguente alla cosiddetta «crisi del marxismo», i pochi libri dedicati all’autore del Capitale comparsi negli anni più recenti si sono segnalati per la riproposizione di stereotipi logori, senza alcun serio tentativo di leggere Marx come sarebbe stato giusto e doveroso, vale a dire come un grande protagonista della ricerca teorica contemporanea, degno di appartenere ad un’ideale galleria di pensatori classici.
Si può anzi rilevare un paradosso rivelatore. Fino a ieri (anzi, come si vedrà fra breve, letteralmente fino ad oggi) il Marx del quale si è ricominciato a parlare è il profeta della società comunista, l’acerrimo denigratore del capitalismo, il fautore di una filosofia del proletariato denominata «materialismo storico» — vale a dire un personaggio che, se ci si attiene rigorosamente ai suoi scritti, anziché avallare improbabili leggende fiorite all’ombra delle ideologie novecentesche, nulla in realtà ha a che vedere con la reale identità teorica del pensatore di Treviri. Fra i numerosi esempi che si potrebbero citare, per dimostrare le vere e proprie deformazioni che la sua opera ha dovuto subire, basti ricordare l’intransigenza con la quale egli aveva più volte sottolineato di non aver mai enunciato un «sistema socialista», ribadendo la sua totale refrattarietà a «prescrivere ricette per le osterie dell’avvenire».
Il grave e inescusabile ritardo nell’«essere giusti con Marx» (per parafrasare il titolo dell’opera nella quale Jacques Derrida fa i conti con Freud) è oggi finalmente colmato con la pubblicazione del libro di Marcello Musto Karl Marx. Biografia intellettuale e politica 1857 -1883 (Einaudi, pagine XI-329, e 30). Il testo è costruito sulla base di un’opzione metodologica al tempo stesso semplice ed estremamente efficace: delineare il contributo teorico contenuto negli scritti marxiani redatti fra il 1857 (l’anno dei Grundrisse, per intendersi) e il 1883 (anno della morte di Marx), contestualmente alla descrizione dei principali eventi della sua vita. E con ciò reagendo alla tendenza ancor oggi persistente a separare la narrazione dell’esistenza di Marx dalla sua elaborazione teorica.
Ne risulta un’opera in ogni senso magistrale per l’acribia della documentazione filologica, il rigore della trattazione, la cristallina chiarezza espositiva, l’originalità dell’approccio interpretativo. Già autore di altri fondamentali contributi alla comprensione del pensiero marxiano — fra i quali, Ripensare Marx e i marxismi (Carocci, 2011) e L’ultimo Marx (Donzelli, 2016) — Musto ci consegna ora un testo che sconvolge il sonnolento scenario dell’esangue letteratura marxologica, per consegnarci la viva attualità del pensiero di un grande autore classico.

il manifesto 4.1.19
Spinoza nelle lezioni di Antonio Banfi
di Alberto Olivetti


Il corso monografico dell’anno accademico 1934-1935 è dedicato da Antonio Banfi, titolare di Storia della filosofia nell’Università di Milano, alla figura ed all’opera di Baruch Spinoza. «Il corso su Spinoza. La vita, le opere, la sua filosofia del 1934-35, ha scritto Livio Sichirollo, fece epoca. Lo ricordano gli scolari della ‘Statale’ degli anni Trenta, non tutti necessariamente ‘filosofi’ (è un dato abbastanza significativo di una ‘scuola’ che andava già delineandosi).
Le ‘dispense’ non ebbero la solita vita effimera: furono ricercate di anno in anno, passarono di mano in mano, giunsero fino alla generazione successiva». «Quel corso, continua Sichirollo, inquadrato fra altri sull’elaborazione filosofica dei principi religiosi ed etici, aveva scosso per il suo tono alto, per il suo impegno civile, per l’‘ostinato rigore’ con il quale il presente e i suoi problemi sollecitavano la storia della filosofia». Il presente del fascismo, così pervasivo e permeante, in quei mesi che ne segnarono elevati picchi di esteso e crescente consenso, ed il magistero di un docente che si afferma come un esempio di quali responsabilità e doveri comporti, dalla cattedra, l’esercizio pubblico della filosofia. E quel compito che Banfi allora si assume di restituire puntualmente le vicende della breve ed intensa vita, accanto all’esame scrupoloso degli scritti, quell’intento, cioè, di delineare la personalità di Spinoza (1632-1677), «veniva acquistando rilievo, sottolinea Sichirollo, proprio nel suo smarrirsi come fatto individuale, nel suo essere calata la personalità nel movimento della cultura e della storia». Darsi il compito di penetrare il pensiero di Spinoza non per mostrarne la interna tenuta, ma per saggiarne, diresti, la gittata, la portanza alla stregua della temperie storica nell’Europa di quei cruciali anni Trenta. E la passione di Banfi «per il politico, per le società in crisi, e pertanto in formazione, dice ancora Sichirollo, trovava (in Spinoza) alimento inesauribile».
Del resto, in quelle dispense, venendo Banfi a considerare il metodo di Spinoza, tra l’altro si legge: «le famose pagine con cui si inizia il De intellectus emendatione per noi non sono una confessione di tipo agostiniano; quella di Spinoza non è una storia personale, ma è una specie di fenomenologia della coscienza filosofica la quale dall’interno dell’esperienza concreta della vita si risveglia». E nemmeno la docenza spinoziana di Banfi è, a ben vedere, un mero capitolo della sua storia personale. Questo ragionare di Banfi su concretezza della vita e coscienza filosofica, su un esperire e un pensare (l’uno all’altro, in Spinoza, intimamente inerenti), mette infatti capo, nelle lezioni tenute da Banfi, ad una speciale correlazione che viene profilandosi quasi di conseguenza: come la vita di Spinoza è sussunta nel suo pensiero, così l’effettuale vivere di Banfi si invera quale coscienza filosofica nel suo pensare Spinoza nell’anno 1935.
Di questa latitudine del suo filosofare Banfi mostra adeguata consapevolezza. Ad esempio quando a lezione dichiara: «Spinoza ha posto un problema: qual sia l’essenza strutturale del pensiero che coglie l’intimo della realtà. Egli non ha risolto tale problema, ma l’ha posto nella sua forma tipica e netta, in modo da rendere possibili le soluzioni definitive. È difficile poter dire fin dove arriva Spinoza e dove s’inizia la nostra interpretazione. Davanti ad una personalità quale la spinoziana ci importa non soltanto il suo problema filosofico tipico, bensì anche come la sua personalità lo ha vissuto». Se si tratta, allora, di cogliere l’intimo della realtà nell’Europa dell’anno 1935 non lo si potrà declinando semplicemente il nesso vita-filosofia nei termini di un rapporto tra politica e cultura secondo le modalità dell’impegno, ma elaborando invece una congrua essenza strutturale del pensiero entro i presupposti di Spinoza. Nel ribadirli, Banfi dice che «vi è in Spinoza una tale pienezza di vita oltre che di pensiero, che qualche volta la vita foggia il pensiero nella sua esigenza stessa».
Tanto che il metodo di Spinoza è inteso ad una totalizzazione della vita, decantato fino a conseguire una purificazione dell’intelletto e del vissuto.

il manifesto 4.1.19
Oltre la scomparsa del sacro, quando il culto non è che narrazione
Scaffale. Il «Catalogo delle religioni nuovissime» di Graziano Graziani per Quodlibet. Un’indagine su decine di pseudo fedi condotta tra giornalismo e letteratura
di Gennaro Serio


Il grande scrittore cattolico G. K. Chesterton non avrebbe apprezzato la visione di Kurt Vonnegut secondo la quale una religione è una finzione letteraria. Tuttavia, tra i due, quello che compare come fondatore di una chiesa è lo scrittore americano: trattasi del Bokononismo, di cui l’autore parla nel suo romanzo Ghiaccio-nove.
NEL FLORILEGIO di pseudo-religioni che Graziano Graziani ha raccolto (Catalogo delle religioni nuovissime, Quodlibet, pp. 396, euro 17,00), sparito il sacro, del culto non resta che la narrazione, o alla peggio il management corredato dalle sue policy.
Così da chiese votate a uno spirito apertamente goliardico affiorano istanze politiche e sociali, dall’ecologismo tragicomico del Movimento per l’estinzione volontaria, che chiede ai fedeli di non riprodursi per liberare le altre specie viventi dall’oppressione dell’uomo, all’ordine queer delle Sorelle della perpetua indulgenza che venerano tra gli altri Padre Fellatio e Suor GladAss, passando per il pacifismo paradossale del Prodigioso Spaghetto Volante adorato dai pastafariani, che invece di chiedere sacrifici umani in suo nome, «condisce» il suo Verbo con la memorabile massima: «Se qualcuno non crede in Me, pace, nessun problema». Al capitolo «religioni pop» compaiono il Jedismo (da Star Wars), e la chiesa Maradoniana (60 mila seguaci), per poi passare agli adoratori di John Coltrane e di Groucho Marx.
TRA I «CULTI POPOLARI» troviamo coloro che vedono divinità marittime nelle navi cargo che passano al largo delle loro isole, in Vanuatu, e i devoti di San Ernesto Che Guevara, «santo ateo» di un paesino boliviano. Tra le religioni a carattere politico figurano invece, oltre all’Essere Supremo di Robespierre l’Incorruttibile, la mistica fascista e un novello culto di Putin.
Graziani aveva già sperimentato la vertigine della lista con l’Atlante delle micronazioni, un viaggio nel quale raccontava i più piccoli e strampalati casi di auto-proclamazione nazionale, scogli isolati nell’oceano e giardini di casa compresi: una ricerca di identità condotta attraverso la demarcazione di un territorio e la creazione di un proprio «racconto di fondazione». Con questo secondo tassello prosegue un’ingegnosa operazione culturale di reductio ad absurdum, non priva di un soffuso e flaubertiano cinismo, che sposta l’attenzione dal concetto di Stato a quello di Chiesa: i grandi centri di potere dell’età moderna.
Un percorso che sembra configurarsi come un work in progress a cavallo tra giornalismo e letteratura, e che si proietta verso la contemporaneità da un’accattivante prospettiva laterale: non a caso il libro si chiude con una rassegna di riti ufologici e occultistici. Gli echi patafisici da Alfred Jarry, e quelli letterari da Il pendolo di Foucault, a trent’anni esatti dalla sua pubblicazione, rimandano a quel cupo mondo in cui, esaurita la funzione dell’enciclopedia ufficiale e l’influenza delle antiche chiese, tanti si sono abbandonati all’idea che «tutto c’entra con tutto», e qualcuno s’è persino persuaso di essere la reincarnazione del Conte di Saint-Germain.
SCORRENDO L’ELENCO di culti non così nuovi è facile rendersi conto che tra i più estrosi riti psichedelici e le grandi religioni monoteiste sussistono differenze troppo sottili. E se troviamo ridicola la religione che annuncia senza tema di smentita che il mondo è stato creato giovedì scorso e finirà giovedì prossimo, non si capisce perché dovremmo trovare meno ridicolo «il dialogo di un pastore israelita con un roveto ardente».
L’ANNUNCIO DI JARRY, per bocca di Padre Ubu, risuona da oltre un secolo con rinnovata attualità: «La patafisica è una scienza che abbiamo inventato e il cui bisogno si faceva generalmente sentire». Nulla a che vedere con il «religioso» di cui si trova traccia in quello che forse è il vero culto contemporaneo, e che compare nel catalogo di Graziani all’ultima pagina, sotto mentite spoglie: è La chiesa del tempo presente, dalla quale scaturisce tanto l’immobilismo politico e filosofico dell’Occidente, quanto l’impostura di fronte all’ansiogeno scenario dell’iper-connessione globale.

Il Fatto 4.1.18
Sfuggiti ai libici, appesi all’Europa che non trova un porto di sbarco
Frontiere chiuse per tutti. Le Ong in contatto da giorni con Malta, Italia, Spagna e Germania: ma senza risposte
di Alessandro Mantovani


La Professor Albrecht Plenck, la più piccola delle due navi che l’Europa non vuole, ieri pomeriggio era a circa cinque miglia nautiche a sud di Gozo, la seconda isola di Malta, al riparo dal vento e dal mare che vengono da nord. È stato il sesto giorno di navigazione per il cargo affittato dalla Ong tedesca Sea Eye di Ratisbona che il 29 dicembre ha soccorso in mare, a 28 miglia dalle coste della provincia libica di Sabrata, a ovest di Tripoli, 17 persone su un barchino: sedici uomini tra cui due diciassettenni non accompagnati e una donna di 24 anni, Mercy, nigeriana, che più di tutti ha avuto bisogno di cure; tre sudanesi, tre nigeriani, tre camerunensi, due ivoriani, due guineaiani, un maliano, un sierraleonese, quasi tutti sui vent’anni e un paio sopra i 40.
Qualche decina di miglia più a sud, a ridosso delle coste occidentali maltesi, c’è la Sea Watch 3 di Sea Watch, altra Ong tedesca, 50 metri di lunghezza contro i 38 dell’altra, con 32 naufraghi a bordo. Sono in mare dal 22 dicembre, ben tredici giorni, il salvataggio è stato nella stessa zona, a 26 miglia da Sabrata: ieri mattina hanno diffuso un filmato della nave sbatacchiata dalle onde che salivano sul ponte, mentre gli ospiti africani erano sotto coperta con tutto quello che significa per chi ha subito detenzioni anche lunghe in Libia. Questa mattina presto dovrebbero tentare un rifornimento in mare, ci sono rischi sanitari. “Non è facile spiegare che non c’è un porto sicuro”, raccontano da Sea Watch. Sulla nave hanno festeggiato Natale e Capodanno.
Un po’ di sollievo è arrivato ieri con la lettera di Luigi De Magistris al comandante, il sindaco di Napoli vuole aprire il porto. Il ministro degli interni Matteo Salvini ha ribadito che decide lui, in base alle regole fissate da Marco Minniti che hanno attribuito al Viminale competenze normalmente spettanti alle Capitanerie e quindi al ministero dei Trasporti: “Ogni sbarco – dice il capo della Lega – è un incentivo agli scafisti per continuare il loro sporchi traffici”. Chissà se entrassero in porto chi darebbe l’ordine di sparargli addosso e chi lo eseguirebbe…
La sorte dei 49 a bordo della Sea Watch 3 e della Professor Albrech Plenck è appesa al negoziato che la Commissione europea conduce con gli Stati membri. C’è la disponibilità della Germania, dell’Olanda e della Francia ad accogliere i migranti ma il porto non c’è ancora. Salvini fa la faccia feroce anche se in Italia non c’è nessuna emergenza, tra il 2017 e il 2018 siamo passati da 180 mila a 20 mila sbarchi, il calo era già vistoso con Minniti, la pressione dalla Libia è meno forte di prima e ad ogni modo, secondo i dati del Viminale, dal 22 dicembre sono entrate in Italia 165 persone, 359 dell’intero mese di dicembre, però “non se ne è parlato, il sospetto è che si stia alzando la voce perché c’entrano le Ong”, ha detto al Sole 24 Ore Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), agenzia Onu. Oltre all’Italia c’è Malta ed è lì che le Ong vogliono portare i 49. Un accordo sulle ricollocazioni sembra perfino banale, ma diversi accordi di questo tipo, in passato, non sono stati rispettati.
Non c’è dubbio che entrambi gli interventi di soccorso siano avvenuti nell’ampia zona Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) dichiarata dal traballante governo provvisorio di Tripoli, quello di Fayez al-Sarraj, precisamente a meno di 30 miglia dalle coste libiche, circa 130 da Lampedusa e circa 170/180 da Malta. Entrambe le navi si sono rivolte ai centri di coordinamento di Roma e La Valletta che hanno dichiarato la competenza libica. Così anche il centro tedesco di Brema, chiamato da Sea Eye: “Si sono limitati a dirci di seguire gli ordini dei libici” , ha raccontato Jan Ribbeck, capo della Missione di Sea Eye. Sea Watch dice di non aver avuto risposte dai libici, Sea Eye riferisce una risposta c’è stata. Sea Watch ha fatto sapere di aver contattato anche le autorità della Spagna, che proprio nei primi giorni di questa crisi avevano concesso alla nave Open Arms della Ong catalana Proactiva Open Arms di sbarcare con 300 migranti ad Algesiras ma a loro ha detto no. Ha contattato anche l’Olanda, di cui batte bandiera, e la Francia. Tutti no. Le Ong ad ogni modo si sono rifiutate di consegnare i naufraghi ai libici, del resto sono lì proprio perché non si fidano dei libici.
Il Segretariato generale dell’Onu ha più volte documentato torture e violenze non solo nei centri di detenzione “non ufficiali” ma anche sui migranti ripescati in mare dai guardacoste. La Commissione europea ha detto più volte che la Libia non è “un porto sicuro” ai sensi della Convenzioni internazionali. E la Sea Watch 3 è stata al centro di un episodio drammatico, nel novembre 2017, in cui persero la vita 50 persone perché un’imbarcazione militare libica e la nave della Ong si trovarono a intervenire contemporaneamente su un naufragio: il New York Times ha documentato che la motovedetta su cui i guardacoste prendevano a calci i naufraghi era una di quelle donate da Minniti a Tripoli. La questione è all’esame della Corte europea dei diritti umani. L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione consiglia a Sea Watch e Sea Eye di ricorrere ai giudici di Strasburgo anche per il rifiuto prolungato di concedere un porto che si consuma in questi giorni, configurandolo come respingimento collettivo vietato.

Repubblica 4.1.19
Intervista a Massimo Cacciari
"Violati diritti fondamentali anch’io mi sarei ribellato è in gioco la nostra anima"
di Alessandra Longo


ROMA Più che una resistenza civile «ci vuole la lotta politica». Più che il ricorso alla «propaganda», che sarebbe metodo speculare all’atteggiamento dell’avversario, servono «discorsi di verità».
Massimo Cacciari segue da Venezia la "rivolta dei sindaci".
È stato sindaco anche lui, nella città lagunare, e dice, commentando l’iniziativa dei colleghi: «Mi sarei comportato nella stessa maniera, nel rispetto delle regole, rivolgendomi al giudice ordinario e attendendo il parere della Consulta. Sono convinto che la politica del governo in materia di immigrazione sia totalmente incostituzionale. Ma bisogna stare attenti a non dare l’impressione di detenere poteri diversi da quelli attribuiti ad un amministratore».
Massimo Cacciari a che punto siamo arrivati in questo Paese?
«Bisogna distinguere l’aspetto etico-morale, da quello politico e da quello giuridico. Siamo di fronte prima di tutto ad una regressione grave, ad un disastro umanitario, alla catastrofe culturale dello spirito europeo».
Poi c’è il versante politico, il ruolo dei sindaci.
«I sindaci, gli Enti Locali, possono molto in termini di accoglienza e integrazione. Ma non sono loro a decidere chi è cittadino italiano e chi non lo è. E qui viene l’aspetto giuridico. I poteri di un sindaco sono molto ampi ma sempre nell’ambito delle norme stabilite dall’autorità centrale».
Da sindaco di Venezia avrebbe agito come Orlando e gli altri?
«È chiaro che sono stati violati principi fondamentali in materia di diritti umani. Anch’io, seguendo la procedura di legge, sarei ricorso al giudice di fronte ad un evidente regresso culturale ed etico».
C’è cautela nella sua risposta.
«Perché non bisogna alimentare la confusione su principi e responsabilità. Ognuno faccia bene la sua professione, ognuno eviti la propaganda. Sono le forze politiche che devono agire a difesa dei valori violati. Lo devono e lo possono fare anche con atteggiamenti estremi. I sindaci sono invece amministratori, non fanno le leggi. La natura dell’Ente non cambia anche se ci sono primi cittadini che da sempre fanno politica come Orlando, De Magistris, ed Emiliano. Ma io penso più in generale che i sindaci debbano agire, nell’ambito della loro competenza, sostenendo la lotta delle forze politiche. Perché è questo che ci vuole: la lotta politica. Se siamo convinti che si stia instaurando un regime autoritario non basta la disobbedienza civile».
Salvini invita i sindaci della protesta a dimettersi.
«Lasciamo perdere l’uomo, non sa quel che dice. Perché mai dovrebbero dimettersi?
Protestano contro i provvedimenti del governo e fanno tutto quello che è lecito fare».
Lasciar perdere Salvini non è facile. È il ministro dell’Interno che parla.
«Lui ci sguazza in queste situazioni, attenti a non rispondere con altra propaganda. Salvini l’hanno votato gli italiani e se lo tengano.
Chi la pensa diversamente deve combattere questo governo propriamente, con discorsi di verità».
Dicendo?
«Dicendo: guardate amici, quello che sta succedendo a livello europeo è una vergogna. Ci voltiamo dall’altra parte di fronte a nostri simili torturati e violentati in Libia, facciamo finta di niente come gli abitanti del paesello tedesco che vedevano uscire il fumo dai forni crematori. Dicendo agli italiani: è in gioco la vostra anima».

Repubblica 4.1.19
Il Pd di tutti e quello dell’Io
di Roberto Esposito


Da dove ripartire? E come? Sono queste le domande che aprono il nuovo anno della sinistra italiana. Il notevole consenso di cui continua a godere il governo, anche dopo una manovra gonfia di contraddizioni, non crea una situazione favorevole. Tanto più è necessario evitare di giocare di rimessa, nell’attesa che l’alleanza di governo si sfaldi da sola. La sinistra deve elaborare un progetto autonomo, unitario ma articolato. Si tratta di giocare a tutto campo, mettendo in sinergia i due elementi da cui è impossibile prescindere. Vale a dire un soggetto nazionale centrale e un vasto tessuto di alleanze locali che gli comunichino energia.
Il primo non può essere altro che un Pd rinnovato nella leadership e nel linguaggio. Si tratta innanzitutto di cambiare interlocutore, tornando a riparlare al Paese, piuttosto che agli amici. O ai nemici di partito. L’articolo di Renzi sul Foglio non induce all’ottimismo. Il proposito di " scrivere una pagina nuova" senza "dimettersi dall’Io", come scrive, dà l’idea dello stato di malessere di quello che fino a ieri è stato comunque un leader importante del partito democratico. Quando invece il problema è esattamente quello di fuoriuscire da un dibattito interno che va assumendo toni surreali. Per incunearsi nei tanti spazi abbandonati o compromessi dall’azione del governo. Possibile, ad esempio, che di fronte alla mortificazione dell’intero comparto dell’istruzione e della ricerca il Pd non riesca ad attivare una mobilitazione generale, non solo critica ma costruttiva?
Dal fronte delle amministrazioni locali — in particolare le città ancora governate dalla sinistra — vengono segnali più incoraggianti. Quale sia l’esito del proclamato rifiuto di alcuni sindaci nei confronti delle parti più inaccettabili del decreto sicurezza, si tratta comunque di una scossa di cui si avvertiva il bisogno. Esso dice ad alta voce che c’è un limite. Che non tutto è accettabile. Che neanche le leggi possono negare l’insieme di valori e convinzioni sui quali si regge una convivenza civile. Da questo punto di vista i sindaci, legittimati da un ampio consenso popolare, conservano un ruolo fondamentale che spiega la relativa prudenza della risposta di Conte. D’altra parte non venne, venticinque anni fa, proprio dalla " primavera dei sindaci" la prima riscossa contro il blocco sociale della destra berlusconiana, anche più compatto di quello attuale?
Certo, la sinistra dei sindaci di Milano, Napoli, Firenze, Palermo è tutt’altro che omogenea. Come tenere insieme il riformismo europeo di Sala con il ribellismo mediterraneo di de Magistris? Cosa hanno in comune, nella loro cultura politica, Nardella e Orlando? Ma il punto è proprio questo. O si riesce a federare tale diversità in un progetto comune, oppure nessuna di queste esperienze avrà la capacità di costituire quella massa critica di cui la sinistra ha bisogno per uscire dall’angolo. Senza la forza propulsiva che hanno sempre avuto le città italiane, una sinistra moderna e plurale non può esistere. D’altra parte la più avanzata di esse non è nata con Pisapia, e si è sviluppata con Sala, proprio riunendo le diverse anime della sinistra? Nel declino di Roma, Milano rappresenta qualcosa di più della seconda città d’Italia. È il simbolo dell’unica sinistra vincente negli ultimi decenni. Solo allargando il proprio campo, incorporando lo spirito civico di esperienze che stanno crescendo in diverse città, la sinistra può tornare competitiva. E solo questa iniezione di energie nuove può obbligare il Pd ad abbandonare il proprio passatempo autoreferenziale e ad entrare finalmente in partita.

Repubblica 4.1.19
Dietro la rivolta dei Comuni la paura di una nuova bomba sociale
Con 120 mila irregolari in più nelle strade sarà difficile garantire la sicurezza. L’allarme del volontariato
di A. Z.


Ieri mattina, quando il ragazzo, subsahariano, 18 anni tra qualche giorno, si è presentato allo sportello per chiedere la residenza, gli impiegati dell’ufficio anagrafe del Comune di Palermo sono andati nel panico. Il giorno dopo il clamoroso guanto di sfida lanciato dal sindaco Orlando, in assenza del capo area ancora in ferie, nessuno se l’è sentita di rispondere a quel giovane migrante che non aveva la minima idea di essere diventato il primo possibile caso di "disobbedienza" alla legge Salvini. E così si sono limitati a rispondergli: «Torni lunedì ». Come lui, sono centinaia i giovanissimi immigrati che, nelle prossime settimane, dopo aver cominciato un percorso di accoglienza ed integrazione, al compimento dei 18 anni, rischiano l’espulsione non potendo più contare sul permesso umanitario. Solo una delle emergenze alle quali i sindaci dovranno far fronte con le loro scarse risorse.
Nei Comuni gli assessorati ai Servizi sociali, in contatto con le prefetture, ipotizzano numeri e compilano liste: quelle degli immigrati, titolari di protezione umanitaria, che dovranno lasciare i Cas, i centri di accoglienza dove sono ospitati in attesa di un posto in quegli Sprar che adesso la legge Salvini nega loro: 400 a Palermo, 900 a Milano, 5.000 in tutto il Piemonte, tanto per fare qualche numero. E non è solo un problema di risorse e umanità. A preoccupare i sindaci è anche la sicurezza delle città. Migliaia di invisibili (senza documenti, senza tetto e senza alcun mezzo di sussistenza) condannati ad entrare nell’esercito degli irregolari che, secondo le stime dell’Ispi, aumenteranno di 120.000 unità da qui al 2020, passando dai 480.000 " ereditati" da Salvini a più di 600.000.
Basta andare in giro per le città italiane per vedere già i primi effetti. A Milano, attorno alla stazione centrale, nei sottopassi, in via Sammartini, gli accampati in strada sono notevolmente aumentati. A centinaia sono andati a bussare alle porte delle strutture messe a disposizione dal Comune per il piano freddo, 2.700 posti che serviranno a coprire l’emergenza. Ma è una soluzione temporanea con finanziamenti limitati così come le poche centinaia di migliaia di euro che il Comune di Palermo è andato a scovare nelle pieghe del bilancio per garantire una sistemazione a chi rimarrà senza un tetto, famiglie palermitane e immigrate senza distinzione, per evitare una pericolosa guerra tra poveri capace di innescare una nuova bomba sociale.
A Firenze, dove parrocchie e associazioni di volontari aprono le porte a chi viene messo fuori dai Cas, il sindaco Nardella non ci gira attorno e chiama l’emergenza con il suo vero nome, la paura di non riuscire più a garantire la sicurezza delle città: «Questo è un decreto pericoloso, perché consegna nelle mani della criminalità, comune e organizzata, centinaia di migranti espulsi dai centri di accoglienza che non vengono rimpatriati, perché sappiamo bene che le espulsioni procedono estremamente a rilento, ma abbandonati in mezzo alla strada. Si mettono a rischio le vite dei migranti, aumentando il potenziale di insicurezza e criminalità. Noi comunque non ci faremo intimorire da Salvini e andremo avanti con le nostre forze».

Il Fatto 4.1.19
“Il ministro non ha armi, la soluzione è solo politica”
Scontro istituzionale tra Salvini e  sindaci
Parla Gianluigi Pellegrino, avvocato ed esperto di diritto amministrativo
intervista di Antonio Massari


I sindaci di Palermo e Napoli, ai quali se ne stanno accodando altri e l’Anci, hanno annunciato di non voler applicare l’articolo 13 del decreto sicurezza che prevede l’esclusione dei richiedenti asilo dal registro dell’anagrafe e – ne consegue – dai diritti legati alla residenza. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Gianluigi Pellegrino, esperto in diritto pubblico e amministrativo.
Professore, quali sono gli scenari possibili: il ministro dell’Interno cosa può fare per obbligare i sindaci a rispettare il decreto?
Siamo nel territorio del diritto amministrativo. E il ministro dell’Interno non ha legittimazione per ricorrere di volta in volta a un Tribunale amministrativo regionale. Salvini ha una sola possibilità di reagire: attivare i prefetti affinché diffidino i sindaci a non disattendere la legge.
E i prefetti possono obbligarli a rispettarla?
Ovviamente no.
E a quel punto il ministro cosa può fare?
Se i sindaci restano nella loro posizione, Salvini può alzare il tiro minacciando il commissariamento del comune. Per farlo deve evocare un suo grave malfunzionamento, ammesso che possa davvero essere evocato. Se Salvini lo facesse sarebbe evidentemente gravissimo perché la mancata violazione di una singola norma che riguarda singoli individui non può mai essere considerata come un mal funzionamento dell’intera amministrazione comunale. Sarebbe una dichiarazione di guerra senza precedenti. Mettiamola così: le sole armi che ha sono anche le più fragorose.
E quindi Salvini o dichiara guerra o tratta: non ci sono alternative?
Se i sindaci decidono di non applicare alcune norme del decreto siamo nell’ambito di un gesto di disobbedienza politica, che porta in sé un’istanza ovvia: la modifica della norma. La trattativa politica a mio avviso sarebbe il percorso più ovvio. Del resto i sindaci possono richiamare il discorso di capodanno del Presidente della Repubblica che ha invitato a maggiore solidarietà e coesione sociale.
Il ministro ha anche ventilato la revoca dei fondi legati al decreto per i sindaci disobbedienti.
Il taglio dei fondi sarebbe un modo illegale di rispondere a una presunta illegittimità. Un vero e proprio ricatto istituzionale. L’erogazione dei fondi è regolata dalla legge, non da Salvini. Il ministro non può rispondere a una ritenuta illegittimità con un’altra – questa volta sicura e più grave – illegalità.
Se dal campo amministrativo ci spostiamo a quello penale, invece, che succede: i sindaci possono essere accusati di aver commesso un reato?
La magistratura potrebbe intervenire nel caso ravvisasse, in questa disapplicazione del decreto lecce, gli estremi del reato di abuso d’ufficio. Ma anche in questo caso i margini sono molto ristretti. Il reato si realizza se il sindaco procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio o arreca ad altri un danno ingiusto. Quale sarebbe il danno per gli altri, con l’iscrizione del richiedente asilo all’anagrafe, e quale sarebbe il vantaggio ingiusto per il sindaco? La magistratura potrebbe immaginare di configurare una sorta di profitto politico, per il primo cittadino che non applica il decreto, ma è evidente che saremmo di fronte a figure estreme dell’ipotesi di reato.
Il ricorso alla Corte Costituzionale?
Nel nostro sistema non può essere diretto essendo poco configurabile un conflitto di attribuzione. Quindi alla Corte se mai potrebbero giungere le cause eventualmente avanzate negli altri comuni dai migranti ai quali viene negato il diritto all’iscrizione nel registro dell’anagrafe. Oppure possono rivolgersi alla Corte sempre in via incidentale i sindaci che si trovino a processo per l’eventuale abuso d’ufficio. Potrebbe ripetersi lo schema del suicidio assistito: i sindaci nel difendersi dall’abuso d’ufficio potrebbero riprodurre lo stesso schema logico giuridico. Resta il fatto che i tempi della Consulta sono lunghi. Il che ancora una volta impone a Salvini di risolvere il nodo autenticamene politico che la sua norma sta provocando.
In sintesi: lo scontro è politico ed è giusto che rimanga confinato nell’ambito politico.
Ritengo sia la strada più logica. Di fronte a una disobbedienza diffusa, il governo dovrà prendere atto della situazione, tenerne conto e modificare le norme con una trattativa. E anche per la magistratura sarebbe complicato ipotizzare un abuso d’ufficio esteso a una moltitudine di sindaci. Se invece la disobbedienza resta confinata a pochi comuni, la magistratura valuterà l’esistenza di profili penali e il governo deciderà se e come trattare.
Si torna così al punto di partenza: posto che l’iter per giungere a una decisione della Consulta richiede anni e che, dal punto di vista amministrativo, Salvini può solo dichiarare guerra minacciando il commissariamento dei comuni ribelli, non resta che trattare una modifica della norma?
A mio avviso è l’unica vera strada percorribile.

Repubblica 4.1.18
I sindaci e la via maestra della Consulta
di Stefano Folli


La ribellione dei sindaci è durata ventiquattr’ore, almeno nella sua forma più esplicita e discutibile.
Come dice il sindaco di Firenze Nardella, «non intendiamo violare la legge. Poniamo dei problemi in relazione al decreto Salvini e alla sua applicazione». Il che cambia la prospettiva rispetto all’enfasi della prima ora. La disobbedienza civile ha senza dubbio un alto valore morale, se a metterla in pratica è un singolo individuo o un gruppo di uomini e donne privi di responsabilità pubbliche e alle prese con un potere dispotico. Ha tutt’altro significato, se a rivendicarla sono i sindaci, ossia dei funzionari eletti per applicare le leggi. E in Italia lo Stato rimane ovviamente democratico, al di là dei comportamenti talvolta deplorevoli di chi si trova a governare. È democratico perché esistono una Costituzione e un presidente della Repubblica che la garantisce. Così come esiste — e non fu semplice istituirla — una Corte costituzionale che valuta le leggi e le norme.
I sindaci — dal palermitano Orlando al milanese Sala — hanno posto in forme diverse una questione che tocca le incongruenze del decreto Salvini, da poco controfirmato dal Quirinale. Hanno il diritto politico di farlo, mentre non hanno il diritto di ignorare la legge. E infatti il buonsenso si è affacciato, sia pure con un giorno di ritardo. Si è tradotto in una richiesta al ministro dell’Interno affinché ascolti le voci dei primi cittadini, coloro che sono chiamati a gestire gli immigrati sul territorio e a fronteggiare gli psicodrammi quotidiani. Il sindaco di Milano arriva a chiedere a Salvini di ritirare il decreto, il che è legittimo, ma altamente improbabile.
Molto più realistico sarebbe creare le premesse per un ricorso alla Consulta. È la strada principale, subito indicata come tale da autorevoli giuristi: sarà la Corte a stabilire se la legge va stracciata in tutto o in parte ovvero se è compatibile con la Carta fondamentale.
Ogni altra scorciatoia ha il sapore della manovra politica in sfregio alle istituzioni, quali che siano le buone intenzioni di partenza. Quelle buone intenzioni, meglio non dimenticarlo, che spesso lastricano la strada verso l’inferno: ossia producono risultati opposti a quelli immaginati. Non a caso Salvini ha di che rallegrarsi. L’iniziativa ribelle di Orlando, subito sostenuto dal napoletano de Magistris, ha il sapore del populismo antico, precedente l’ondata giallo-verde. Sembra il tentativo di ricalcare i metodi di chi è al governo, ma in una chiave di sinistra radicale.
Difficile credere che sia questo il sentiero giusto per restituire i consensi perduti a un centrosinistra riformista che deve imparare a misurarsi con la realtà.
Semmai l’immagine dei sindaci pronti a disattendere la legge in polemica con il governo centrale offre nuove frecce all’arco della Lega, alla sua predicazione "legge e ordine". Viene da pensare che certe mosse del ministro-poliziotto siano pensate non per promuovere la sicurezza dei cittadini, bensì per aizzare il riflesso condizionato degli avversari. I quali puntualmente cadono nella trappola. Certo, Orlando e de Magistris possono vincere la battaglia mediatica e accreditarsi presso un certo segmento di opinione pubblica. Tuttavia, creano un danno alla prospettiva di un centrosinistra allargato che voglia risalire la china. Infatti, il Pd ha preso in parte le distanze, salvo alcuni esponenti della sinistra come Cuperlo che vedono soprattutto il valore della testimonianza morale. Ma la battaglia è politica e non sembra questo il modo migliore per tagliare le unghie a Salvini.

Corriere 4.1.18
Il Quirinale e le polemiche
Quelle parole di Mattarella: conta la Carta non le mie idee
di Marzio Breda


Protestare contro una legge rifiutando di applicarla non è una mancanza di rispetto anche verso il presidente della Repubblica, che l’ha promulgata? Non diventa un modo, quello scelto da alcuni sindaci, per contestare indirettamente pure lui? Ruotava intorno a questa domanda la coda polemica che ieri sera veniva rinfocolata da esponenti del governo, dopo la ribellione contro il decreto sicurezza annunciata dal primo cittadino di Palermo, Orlando, imitato da parecchi colleghi. Una sfida nella quale il vicepremier Salvini ha evocato il capo dello Stato, quasi per farsene scudo a difesa della propria legge-bandiera con un «traditori degli italiani, rispettino la firma di Mattarella…».
Il Quirinale, chiamato in causa, ha scelto il silenzio. Ed era scontato, vista la piega presa della questione, che potrà esser risolta dalla Corte costituzionale, se qualcuno vi ricorrerà. Del resto, è capitato molte volte, sotto diversi presidenti, che una legge avallata dal Colle sia stata poi bocciata dalla Consulta senza che nessuno ne fosse delegittimato. L’unico indizio per capire l’atteggiamento di Mattarella viene dalla citazione di quanto disse nell’incontro con un gruppo di studenti il 26 ottobre 2017. Un ragazzo gli chiese: «Quando le capita di firmare atti che non le piacciono come si comporta?». Risposta: «Quando mi arriva qualche provvedimento, una legge del Parlamento o un decreto del governo, io, anche se non lo condivido appieno, ho il dovere di firmarlo. Anche se la penso diversamente, devo accantonare le mie convinzioni perché devo rispettare quello che dice la Costituzione: che la scelta delle leggi spetta al Parlamento e la scelta dei decreti che guidano l’amministrazione dello Stato spetta al governo. E se non firmassi andrei contro la Costituzione. C’è un caso in cui posso, anzi devo non firmare: quando arrivano leggi o atti amministrativi che contrastano palesemente con la Costituzione. Ma in tutti gli altri casi non contano le mie idee, perché non è a me che la Costituzione affida quel compito, ma ad altri, al Parlamento e al governo. E io ho l’obbligo di firmare, perché guai se ognuno pensasse che le proprie idee prevalgono sulle regole dettate dalla Costituzione. La Repubblica non funzionerebbe più».

Il Fatto 4.1.18
Stranieri e reddito: Di Maio deve decidersi
il reddito di cittadinanza lo devono prendere anche gli stranieri?
Secondo varie sentenze si
di Stefano Feltri


Luigi Di Maio è uno di solide certezze tranne che su un punto: il reddito di cittadinanza lo devono prendere anche gli stranieri? Secondo varie sentenze della Corte costituzionale sì e anche secondo le bozze del decreto legge che il Fatto ha raccontato ieri: il sussidio spetta a 197.000 famiglie di stranieri in Italia, il requisito è un “permesso di soggiorno di lungo periodo” (costo: 1,2 miliardi). Di Maio ieri ha detto prima che il reddito di cittadinanza andrà soltanto “a coloro che sono cittadini italiani”. Poi un ulteriore cambio di linea: “L’obiettivo è darlo agli italiani e ai lungo soggiornanti che abbiano dato un grande contributo al nostro Paese. Non stiamo dunque parlando dei cinque anni che ci sono nella bozza del Decreto, che va cambiato. L’obiettivo è darlo agli italiani”. Nessuno sa cosa voglia dire. Forse che uno straniero ha diritto al reddito di cittadinanza solo se è un calciatore famoso o se salva una bambina dall’annegamento in mare?
La povertà assoluta che i Cinque Stelle vogliono combattere riguarda in modo drammatico gli immigrati. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2017 l’incidenza della povertà assoluta era al 5,1 per cento tra le famiglie di soli italiani mentre è al 29,2 per cento tra le famiglie con componenti stranieri, nel Mezzogiorno si tocca il 40 per cento. Non ci può essere vera integrazione con queste disuguaglianze.
È una scelta legittima quella di Di Maio di limitare il sussidio ai soli italiani: tra un paio d’anni la Corte costituzionale boccerà sicuramente il provvedimento e magari chi governerà allora dovrà farsi carico dei danni, ma le scelte politiche si fanno con un orizzonte di mesi, non di anni. Però il leader dei Cinque Stelle deve decidersi: se vuole davvero abolire la povertà, il reddito di cittdinanza deve andare soprattutto agli stranieri residenti. Anche se questo significa perdere qualche voto a favore di Salvini. Altrimenti la più importante delle misure promosse dai Cinque Stelle rischia di trasformarsi solo in un costosissimo spot elettorale.

La Stampa 4.1.19
Di Maio: “Il reddito di cittadinanza va solo agli italiani”
“La norma sul soggiorno da 5 anni verrà cambiata” Smentito Tridico, asse ancora più forte con la Lega
di Nicola Lillo

La legge sul reddito di cittadinanza «riguarda coloro che sono cittadini italiani». A parlare non è un leghista, ma il leader dei Cinque Stelle Luigi Di Maio che sposa a parole la linea del Carroccio, contrario a concedere l’aiuto agli stranieri. Nella bozza che circola sulla misura infatti si prevede che il reddito vada ai cittadini italiani e anche agli stranieri residenti da almeno cinque anni. Ora Di Maio però fa mezzo passo indietro e ammette che la norma cambierà, smentendo anche il suo consigliere economico Pasquale Tridico, il quale aveva spiegato a La Stampa che la platea dei beneficiari avrebbe incluso anche chi non è italiano seppur residente da cinque anni.
«La lungo soggiornanza di cinque anni sarà cambiata e il nostro obiettivo è dare il reddito di cittadinanza agli italiani e ai lungo soggiornanti che abbiano dato un grande contributo al nostro Paese», spiega ora Di Maio. Impedire a chi non è italiano di accedere al reddito però va contro la legislazione europea. Per questo ora la «volontà politica» sarebbe di alzare l’asticella e dare il beneficio ai residenti da dieci anni, il tempo peraltro che serve per ottenere la cittadinanza. È ancora da capire però se questo limite particolarmente stringente sia conforme alle norme europee e alla Costituzione.
Il pressing della Lega
Fatto sta che il vicepremier ha dovuto cedere alle pressioni della Lega. E non è la prima volta. Il Carroccio ha infatti chiesto sia di limitare la platea ed escludere gli immigrati, sia di impedire che il reddito diventi puro assistenzialismo. Nel primo caso hanno imposto di alzare l’asticella, nel secondo di introdurre sgravi a favore delle aziende che assumono i beneficiari: in pratica chi fa un contratto a tempo indeterminato può incassare le mensilità rimanenti, fino a un massimo di sei. Provvedimenti che ora rendono un poco più digeribile questa riforma all’ala leghista del governo.
Per il resto la misura - che dovrebbe esser pronta per la prossima settimana - è in gran parte già scritta, con l’individuazione della platea (1,4 milioni di nuclei familiari e 5 milioni di individui, di cui solo un quinto cercherà attivamente lavoro), aiuti da 780 euro al single fino a 1330 euro per i nuclei più numerosi (498 euro in media a soggetto) e gli accordi obbligatori da sottoscrivere nei centri per l’impiego con l’obiettivo di trovare un’occupazione: il tutto finanziato da 7,1 miliardi già stanziati.
Il 47% degli aiuti al Nord
L’aiuto dovrebbe andare per il 53% nelle regioni del Sud e per il 47% al Nord. «La Lombardia sarà la terza regione per volumi di importo relativi al reddito - spiega Di Maio - quindi dobbiamo sfatare questo luogo comune per cui al nord va tutto bene». Le prime due invece sono Campania e Sicilia. A seguire ci sono Lazio, Puglia e Piemonte.
L’aiuto, che parte dal primo aprile, andrà a cittadini con Isee inferiore a 9360 euro, ma ci sono anche altri limiti che vanno dal patrimonio mobiliare al reddito: in questo modo la misura si avvicina molto al Reddito di inclusione del precedente governo ma con assegni più alti. Per quel che riguarda le offerte di lavoro, si prevede che possano arrivare fino a 100 km di distanza dalla residenza e, dopo un rifiuto, fino a 250 km. Al secondo «no» è possibile anche ancor più lontano da casa.

Il Fatto 4.1.19
Fine primo tempo: i gialloverdi ora dimostrino che sanno fare
di Antonio Padellaro


In fondo, la politica è semplice. Normalmente, se prometti e poi mantieni gli elettori ti concedono il voto. In genere, se prometti e poi non mantieni, il voto gli elettori te lo tolgono (e comunque, puoi fregarli per un po’ ma non per sempre). Quindi, come nel calcio, anche per il governo SalviMaio, la partita prevede due fasi.
Nel primo tempo si sono dette molte parole e si sono approvate alcune leggi. Consenso del pubblico, soprattutto dalle curve popolari (e populiste). Nel secondo tempo, che comincia adesso, parole e leggi dovranno tradursi in fatti concreti che ciascuno potrà verificare nella vita reale: per esempio, più sicurezza nelle strade, immigrazione sotto controllo ma gestita con umanità, il reddito di cittadinanza che qualcuno comincerà a percepire, la possibilità di andare in pensione in anticipo (quota 100), e così via. Ma, ci sono 161 ma. Si chiamano decreti attuativi. Riguardano l’attuazione dei 1.143 commi di cui si compone la manovra 2019. Il Sole 24 Ore ha calcolato che “nei prossimi mesi dovranno vedere il via libera 161 misure attuative tra decreti ministeriali, provvedimenti e regolamenti di diversi enti”. Nell’articolo, Andrea Marini e Marta Paris scrivono di “conto alla rovescia” poiché “quasi la metà dei provvedimenti attuativi necessari (77) ha una scadenza ben precisa per l’adozione”. Dai contributi per la messa in sicurezza di scuole, strade, edifici pubblici (10 gennaio), alla definizione delle modalità di presentazione delle domande di indennizzo ai risparmiatori coinvolti nei crac bancari, agli incentivi all’acquisto di auto e moto non inquinanti (entro il 20 marzo), e molto, molto altro ancora. C’è un tempo per ogni cosa, soprattutto in politica. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, dice l’Ecclesiaste la cui saggezza dovrebbe essere raccolta e interpretata da chi governa. Quando Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, riuniti sulle nevi di Moena, annunciano il taglio degli stipendi dei parlamentari, sono davvero convinti che lo spirito del tempo, dominato dalla “democrazia dell’indignazione” (Juan Luis Cebrián), possa ancora accontentarsi di atti simbolici o immaginifici (tipo l’abolizione della povertà annunciata da un balcone)? Quella bandiera che giusto dieci anni fa furono i Cinque stelle a sventolare nelle piazze contro i privilegi della casta dei politici, rappresentazione simbolica di un’ingiustizia dominante che toglieva ai poveri per dare ai ricchi, non è più sufficiente. Con il M5S alla guida del paese il taglio dei vitalizi di deputati e senatori non ha certo rimpinguato le casse statali ma ha rappresentato un segno del primo cambiamento che si voleva affermare: quello che cerca di mantenere gli impegni presi.
Però, da oggi, per vincere anche il secondo tempo della partita (e le successive elezioni europee) quelle battaglie simboliche appaiono di retroguardia. Più spesa sociale e meno disuguaglianze chiede la protesta che attraversa l’Europa. Ne sa qualcosa il Di Maio ministro del Lavoro e dello Sviluppo alle prese con 138 tavoli di crisi che coinvolgono 210mila dipendenti. Se poi restano a piedi quanto li potrà consolare la notizia che gli onorevoli guadagneranno di meno? Dopo sei mesi di contratto gialloverde, l’Italia ha evitato i Gilets jaunes con un ardito compromesso tra Bruxelles e il governo del popolo. Atteso alla prova dei fatti e senza tempi supplementari.

La Stampa 4.1.19
I pericoli del governo del popolo
di Sofia Ventura


Un fantasma si aggira per l’Italia; come il comunismo che aleggiava sull’Europa del XIX secolo, non promette nulla di buono. La democrazia diretta. La democrazia dei moderni non è la democrazia degli antichi. Non è autogoverno, non può esserlo. Le democrazie moderne sono troppo grandi per potersi reggere sulla partecipazione di tutti alle decisioni pubbliche. Sappiamo che sono infatti democrazie rappresentative.
Quelle che hanno consentito a milioni di fortunati di vivere nel peggior regime possibile, ad eccezione di tutti gli altri. E di godere di diritti e libertà. Che oggi a tanti paiono compromessi, ma che rimangono incommensurabilmente superiori a quelli di cui si gode, se se ne gode, fuori dal perimetro delle (vere) democrazie.
Ma la vague contemporanea è quella di attuare la parola letteralmente (come avrebbe detto Giovanni Sartori): la democrazia come governo del popolo. E come governa il popolo? Come forma le sue opinioni, le traduce in decisioni collettive? Appunto, sono le domande alle quali nei secoli si è trovato risposta attraverso il costituzionalismo, che ha portato alla democrazia rappresentativa. Che oggi, però, sembra poco «democratica». Inconsapevoli che essa è l’unica soluzione trovata negli ultimi secoli al «governo del popolo», i nuovi governanti vogliono più democrazia, più popolo sovrano, più partecipazione. E così ecco che, nella forma di proposta di iniziativa parlamentare, ma su input dell’esecutivo, appare il referendum propositivo. Simbolo del mito della democrazia diretta del partito dei Casaleggio. Un referendum propositivo che nella sua forma è concepito come una sfida alla democrazia rappresentativa. Non è previsto un quorum: minoranze organizzate possono mantenere il Paese in continua fibrillazione costringendo al voto continuo per non rimanere vittima della tirannia delle minoranze. Nel caso in cui il Parlamento intervenga sul tema di un referendum proposto, ma non in modo identico, allora è possibile sottoporre a referendum le due proposte, incentivando l’appello al popolo contro il parlamento, la ricerca della sua delegittimazione. È possibile sottoporre a referendum proposte che implichino nuove spese, se vengono indicate le coperture. Diventerebbe così possibile intervenire sulle linee di politica economica di un governo. Dietro, la grande illusione della partecipazione. Ma in realtà si sta costruendo uno strumento di mobilitazione al servizio di piccoli e grandi demagoghi, non uno strumento che possa integrare la democrazia rappresentativa senza alterarla. Il Partito democratico e Forza Italia lavorano a emendamenti per arginare questa deriva. Poiché è la stessa concezione della democrazia che è in gioco, una visione tanto utopica quanto pericolosa, la battaglia non può limitarsi ad essere circoscritta agli addetti ai lavori. L’opposizione può trovare qui l’occasione per manifestare il senso della propria esistenza, uscendo dalle sue piccole e incomprensibili lotte interne. Saprà uscire con questa battaglia dalle aule parlamentari e parlare agli italiani?

Corriere 4.1.19
La selezione dell’élite
Perché sappiamo così poco dei «poteri forti»
di Sabino Cassese


Il ministro dell’Interno ha dichiarato il 31 dicembre scorso al Corriere della Sera : «Per me, il grande nemico è la cosiddetta sinistra, che negli ultimi anni ha difeso soltanto le élite , i poteri forti, banche e finanza. L’obiettivo è far uscire la sinistra dalla stanza dei bottoni». Dunque, per Salvini c’è una «stanza dei bottoni» nella quale sono asserragliati élite , «poteri forti», banche e finanza, difesi dalla sinistra.
Stupisce che un politico avvertito (qualcuno direbbe oggi «scafato») sia prigioniero di tanto rozze mitologie e luoghi comuni.
Già quando il leader socialista Pietro Nenni adoperò per la prima volta l’espressione «stanza dei bottoni», il suo collega di partito Lelio Basso gli fece osservare che quella stanza non esiste. Più tardi molti studiosi, tra cui il maggiore storico del fascismo, Guido Melis, hanno osservato che l’espressione è frutto di una concezione semplicistica dei meccanismi decisionali del potere. Aggiungo che, se quella stanza c’è, vi è ora seduto Salvini, al Viminale, con il controllo dei servizi segreti.
Quanto all’ élite e ai «poteri forti», se Salvini si riferisce al vertice dello Stato, si autoaccusa, perché ora ci sta lui (salvo non voler abbandonare la forma statale e ritornare alle forme prestatali di potere pubblico, la tribù e il clan). Se, invece, si riferisce a quel migliaio di persone che vengono chiamate «servitori dello Stato» e che collaborano alla guida della complessa macchina della nostra società (per intenderci, quella élite alla quale hanno dedicato studi Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Richard Wright Mills), Salvini dovrebbe non criticarla «tout court» (infatti, è indispensabile, come un ministro dell’Interno dovrebbe aver capito), ma chiedersi piuttosto se essa è chiusa, invecchiata, sclerotica, al servizio della nazione o dei propri interessi, animata dallo spirito di corpo o dall’interesse comune.
Allora, prendiamoli uno per uno questi «poteri forti», queste élite (per tradizione, Consiglio di Stato, prefetti, grandi banche) e chiediamoci se sono aperti, come vi si accede, quanti sono i giovani e quante le donne, quale è la loro dedizione al servizio pubblico.
Il Consiglio di Stato, un corpo di un centinaio di giuristi, è tutt’altro che chiuso. Ha tre porte di accesso, dai tribunali amministrativi, da un concorso diretto, da nomina governativa. In ogni caso, occorre aver superato un concorso per merito, aperto a tutti; in alcuni casi, due concorsi. A seconda delle porte di accesso, vi si entra, in media, a meno di 40 o di 50 anni. Quasi il 20 per cento è composto da donne. Il ministro dell’Interno non dovrebbe dubitare della dedizione dei consiglieri di Stato al servizio pubblico, visto che l’attuale governo è ricorso, molto più di quello precedente di sinistra, al loro ausilio come capi di gabinetto e degli uffici legislativi.
Il corpo prefettizio è composto di circa duecento persone, anch’esse provenienti da concorsi aperti a tutti, nei quali si è selezionati sulla base delle conoscenze e delle qualità personali, e si arriva al vertice dopo aver salito i gradini della carriera di consigliere di prefettura. La metà dei prefetti sono oggi donne. Un terzo dei questori promossi nel 2018 era anch’esso costituito da donne. Ogni volta che c’è un grande problema, una situazione di crisi, si fa ricorso ai prefetti: non è questo il segno che lo Stato riconosce in essi fedeli e motivati servitori dell’interesse collettivo?
Al vertice delle due più grandi banche sono oggi due cinquantenni, uno dei quali proviene dalle due più prestigiose ed egualitarie scuole francesi; l’altro, dopo ottimi studi e aver «fatto la gavetta», ha al suo attivo molte esperienze professionali e ha salito tutti gli scalini dell’azienda. Insomma, il contrario di una élite sclerotica; l’esempio, invece, di una forte mobilità. Poi, al vertice di quei grandi istituti vi sono due personalità insigni, che ci invidiano all’estero, uno proveniente da quella grande «pépinière de grands commis» (vivaio di grandi amministratori) che è la Banca d’Italia, l’altro dall’università, ambedue arrivati ai vertici dopo aver fatto mille esperienze, in Italia e all’estero.
Ritengo che il ministro dell’Interno farebbe bene a non agitare il drappo rosso fuori dalla finestra e a porsi altre domande. Ad esempio, dove la società italiana è chiusa e settoriale (come in alcune professioni), o svantaggiata (come nel Mezzogiorno), perché l’«ascensore sociale» è tanto lento, perché non riusciamo ad avere altre élite , come si potrebbe assicurare maggiore circolazione tra di loro, che altro può farsi per assicurare l’eguaglianza dei punti di partenza.
Per contribuire a questa sua ricerca — che temo non lo arrovellerà nei prossimi giorni — gli vorrei segnalare che un modo per evitare sclerosi burocratiche è quello di consentire l’accesso solo mediante prove aperte a tutti, in competizione: la nostra Costituzione dispone che agli uffici pubblici si accede mediante concorso. Ora, il ministro dell’Interno ha appena firmato una legge di bilancio nella quale per ben sei volte ricorre la parola «riservato». Significa che si fanno concorsi, ma che una parte dei posti è «riservata» a particolari categorie, che sono quindi favorite rispetto agli altri concorrenti, i quali si vedono precluso l’accesso a quei posti.
Se il ministro dell’Interno vuole sollevare un problema di organizzazione della nostra vita collettiva, deve farlo non agitando slogan sbagliati, che non fanno parte della tradizione della parte politica di cui è esponente e che non contribuiscono a negoziare il patto tra governo, forze politiche, istituzioni, associazioni del lavoro e dell’impresa, necessario a rimettere in moto il Paese, auspicato l’altro ieri dal direttore di questo giornale.

Corriere 4.1.19
Il sondaggio
L’economia non va per 3 italiani su 4
Il lavoro resta priorità
di Nando Pagnoncelli

Cresce la percentuale di italiani che ritengono che il nostro Paese stia andando nella giusta direzione. Ma solo il 10% della popolazione pensa che la propria qualità della vita sia migliorata. Tanto che l’economia resta la preoccupazione più grande per il 75% degli italiani (e il 47% non intravede segnali di ripresa). E se il tema migranti — di sicuro il più mediatizzato del 2018 — è tra quelli urgenti a livello nazionale, preoccupa poco quando si considera la zona in cui si vive.

L’anno che si è concluso ha fatto segnare cambiamenti di rilievo nel clima sociale ed economico del Paese, come spesso accade in concomitanza con l’apertura di una nuova stagione politica. Le opinioni dei cittadini si mescolano alle loro aspettative e spesso sono influenzate da una percezione errata della realtà che induce a enfatizzare gli allarmi sociali e a sottovalutare gli aspetti positivi, che pure non mancano. Ne consegue che gli atteggiamenti prevalenti tra gli italiani non siano privi di contraddizioni e di ambivalenze, talora eclatanti.
Iniziamo con le opinioni sull’andamento del Paese, indicatore che fa segnare il cambiamento più vistoso da un anno a oggi: il 39% ritiene che l’Italia stia andando nella direzione sbagliata, mentre il 35% è del parere che si sia imboccata la giusta strada. Gli italiani si mostrano divisi, ma un anno fa i pessimisti prevalevano sugli ottimisti di 53 punti. L’insediamento del nuovo governo ha indotto più fiducia, come è sempre avvenuto dal 1994 in poi. A maggior ragione, dopo la sequenza di esecutivi di centrodestra, centrosinistra, tecnici, larghe intese, rottamatori, il «governo del cambiamento» assume un ruolo palingenetico, non foss’altro perché è oggettivamente formato da una maggioranza inedita.
Quali sono le priorità del Paese? Invitati a indicare le principali aree di intervento, tre italiani su quattro indicano spontaneamente il lavoro e l’economia (75%, in flessione del 5% rispetto a un anno fa), seguiti da welfare (38%, + 9%) e immigrazione (37%, +5%), quindi da funzionamento delle istituzioni (33%) e sicurezza (24%). Chiudono la graduatoria, assai distanziati, ambiente (8%) e mobilità (5%).
Ma il quadro delle priorità nella propria zona di residenza è assai diverso: lavoro ed economia vengono citati solo dal 42% (33% in meno dell’ambito nazionale), poi mobilità e infrastrutture (39%), ambiente (30%), welfare (26%), sicurezza (24%), funzionamento delle istituzioni locali (15%) e tema migratorio (13%), all’ultimo posto.
Appare evidente lo strabismo con cui si guardano i temi nazionali e quelli locali: ciò che preoccupa a livello generale, inquieta molto meno nella zona in cui si vive e viceversa. A questo proposito fanno riflettere i dati relativi ad ambiente e mobilità, strettamente legati alla qualità della vita locale ma pressoché ignorati in ambito nazionale, per non parlare del tema dei migranti, di sicuro il tema più mediatizzato del 2018, durante la campagna elettorale e nei primi mesi di attività di governo (vicenda Diciotti, chiusura porti, decreto sicurezza, ecc.): sembra un’emergenza nazionale, mentre non lo è nella zona di residenza, dove lo straniero viene associato alla badante, ai bambini che frequentano le scuole con i propri figli o nipoti oppure ad altre figure rassicuranti. D’altra parte, secondo l’annuale ricerca Ipsos sulle percezioni dei cittadini, gli stranieri rappresenterebbero il 28% dei residenti in Italia (contro il 10% reale) e secondo Eurobarometro solo il 16% degli italiani ritiene che gli stranieri regolarmente presenti nel nostro Paese siano più numerosi degli irregolari, mentre il 47% è erroneamente convinto che questi ultimi prevalgano sui regolari e il 25% che i due gruppi si equivalgano.
Il tema migranti è tra quelli urgenti a livello nazionale, ma preoccupa poco quando si considera la zona in cui si vive
E a proposito di qualità della vita nella propria zona di residenza, nel complesso oltre due italiani su tre (68%) esprimono un giudizio positivo, mentre il 29% è di parere opposto, sia pure in presenza di un divario territoriale molto evidente, dato che nelle regioni del Nordest l’indice è pari a 70, nel Nordovest e del Centronord a 67, mentre nel Centrosud e nel Sud e isole scende rispettivamente a 47 e 51.
Pur prevalendo le valutazioni positive quasi ovunque, solo il 10% è del parere che la qualità della vita sia migliorata rispetto al passato, per il 38% è peggiorata e quasi uno su due (47%) ritiene che non sia cambiato nulla. Prevale la nostalgia del passato, la «retrotopia» come è stata definita nel saggio postumo di Zygmunt Bauman. Una nostalgia che prescinde dalla situazione oggettiva, dato che il presente, pur in presenza di diseguaglianze crescenti, è decisamente migliore del passato quanto a condizioni economiche, durata della vita, progressi scientifici e tecnologici, sicurezza (gli omicidi sono meno della metà di vent’anni fa, il terrorismo politico è stato sconfitto, la malavita organizzata è più debole). Eppure, siamo convinti che il meglio sia alle nostre spalle, perché il futuro ci preoccupa e l’ascensore sociale si è arrestato, rendendo incerte le prospettive delle generazioni future.
Ai dati positivi sulla qualità della vita locale fa da contraltare il giudizio severo sull’economia dell’Italia, solo il 18% infatti esprime una valutazione positiva, mentre il 75% ne dà un voto negativo. Vi sono Paesi nei quali alla stessa domanda la popolazione residente si mostra più ottimista, e non si tratta solo delle maggiori economie mondiali, ma di Paesi i cui fondamentali economici e il livello di ricchezza sono assai distanti da quelli italiani. Inoltre, solamente il 2% ritiene che la ripresa economica sia evidente, il 35% coglie le prime avvisaglie, mentre quasi un italiano su due (47%) non intravede alcun segnale di crescita.
Riguardo alle prospettive economiche personali, prevalgono di poco coloro che si aspettano un miglioramento (25%), su quanti prevedono un peggioramento (22%) e il 45% pensa che la propria situazione rimarrà immutata.
L’analisi del clima sociale ci offre il ritratto di un Paese in bilico tra speranza e disillusione, e conferma la divaricazione profonda tra la dimensione locale e quella nazionale: il legame con il territorio e il rapporto diretto con la realtà quotidiana restituiscono un quadro nel complesso positivo, sebbene disomogeneo. La realtà nazionale viceversa è caratterizzata dall’attitudine ad amplificare la portata di alcuni problemi e a svalutare le condizioni di un Paese nel quale permangono sicuramente diverse criticità, ma rappresenta pur sempre la seconda realtà manifatturiera d’Europa, anche se solo una minoranza ne è a conoscenza. Alla base di questo atteggiamento svalutativo c’è sicuramente la propensione a raccontare il Paese quasi esclusivamente nei suoi aspetti più deteriori sebbene ci siano anche molti aspetti positivi che dovrebbero inorgoglirci, a prescindere da chi si è succeduto al governo. Basterebbe riflettere sui «10 selfie» dell’Italia che la fondazione Symbola aggiorna annualmente: il Paese si colloca nei primi tre posti al mondo, con 905 prodotti sui 5.206 censiti nel commercio mondiale, per saldo commerciale con l’estero; primeggia nella green economy, nell’economia circolare e in interi settori, dal farmaceutico al make up, dalla moda alla cultura. Per non parlare del capitale sociale, ricchezza del nostro Paese: volontariato, mondi associativi, donazioni a favore di cause benefiche. Ma il racconto negativo del Paese sovrasta il bisogno di specchiarsi nell’Italia che funziona. E in epoca di sovranismo, appare davvero paradossale non riconoscere i meriti del Paese.

Il Fatto 4.1.19
Freccero ribalta l’editto: “Rivoglio Luttazzi su Rai2”
Il neo-direttore lancia un nuovo talk sullo stile di Biagi e chiama il satirista: “È finita l’epoca di Berlusconi e Renzi”
di Lorenzo Giarelli


È il contro-editto bulgaro. Diciassette anni dopo la scomunica berlusconiana e diciotto dopo l’ultima puntata di Satyricon, Daniele Luttazzi potrebbe tornare in Rai. Parola di Carlo Freccero, neo-direttore della seconda rete della tv pubblica che ieri ha presentato a Roma la sua idea di Rai Due, togliendosi anche qualche macigno dalla scarpa: “Capisco esser stato fatto fuori da Berlusconi, ma che il Pd mi abbia spedito sul satellite a Rai4 è stato vergognoso”. La rivincita in salsa gialloverde di Freccero è fatta di nuovi programmi, meno anglicismi, più informazione e di un ritorno alla satira.
A partire, appunto, da Luttazzi: “Voglio riportarlo in Rai. Che servizio pubblico sarebbe altrimenti? È finita l’era di Berlusconi e di Renzi, ci mancherebbe che questa nuova epoca proibisse la satira”. Ancora nessun accordo definitivo né dettagli sull’impegno da parte di Luttazzi, ma l’intento di Freccero è chiaro: “Escludo che vada in onda a breve, ma è essenziale che torni in Rai, magari in autunno”. Anche perché, ricorda il direttore di Rai Due citando un’intervista rilasciata al Fatto, “persino Pier Luigi Celli, direttore generale Rai ai tempi della chiusura di Satyricon, ha ormai ammesso di aver sbagliato su Luttazzi” (che fu chiuso dopo l’intervista a Marco Travaglio su Berlusconi e L’odore dei soldi). E come a voler tornare ancora sull’editto bulgaro, Freccero cita un altro degli storici epurati del 2002. Enzo Biagi, con il suo Il Fatto, dovrà essere il modello del nuovo approfondimento serale in coda al Tg2: “È una vergogna che sia mancato un programma del genere in tutti questi anni. La Rai lo aveva con Biagi e lo ha perso, favorendo i concorrenti. È ora di colmare questa lacuna gravissima, facendo partire a fine gennaio un talk politico che commenti la notizia del giorno fino all’inizio della prima serata”. A metterci la faccia – e a prendersi la responsabilità del prodotto – sarà anche l’amministratore delegato Fabrizio Salini, chiamato in causa dallo stesso Freccero per la definizione “dell’estetica del programma e dei conduttori”, che comunque dovrebbero restare interni alla redazione del Tg2. Il nome di Salini torna spesso nel discorso di Freccero, così come quello del nuovo direttore del tg Gennaro Sangiuliano, con cui “il confronto è continuo”. La rivoluzione televisiva, dice Freccero, passa dall’intesa con i vertici aziendali: “Se Salini è il Don Chisciotte della Rai, io sarò il suo Sancho Panza”.
La comunione di intenti servirà anche per rivedere l’intero assetto del canale. Repliche e costo zero nel day time, con largo uso di sport e fiction, per concentrare le energie – si legga: i soldi – nella fascia dalle 19 alle 24 e portare in tv “il cigno nero”, le notizie fuori dal coro e dal pensiero dominante.
Per l’intrattenimento ecco Simona Ventura, in attesa di trovare studi televisivi per The Voice. Per le news, avrà vita nuova Nemo, che cambierà nome e sarà condotto da Alessandro Sortino, uno degli autori del programma, con il compito di curare inchieste politiche. Enrico Lucci invece con Realiti Scio metterà in scena “l’Italia del selfie, del narcisismo dei poveri, senza però cadere nel moralismo sprezzante”. A sostituire Night Tabloid sarà poi Povera Patria, che il mercoledì sera si occuperà di economia e politica: “Dovrà rispondere a domande importanti. È giusto che governi eletti non possano attuare i loro programmi economici? Cosa significano i trattati firmati a Bruxelles?”. Sembra un manifesto sovranista, come quando il direttore bolla come “odiosa” la serie tv Ncis e promette di depennare tutte quelle fiction dell’America di provincia che tolgono spazio alle produzioni italiane. Ma guai parlargli di “tv dei 5 Stelle”: “Macché. La tv generalista è nazional-popolare per definizione, non c’è nessuna ideologia”.

Il Fatto 4.1.19
“È un primo passo per ritornare un Paese normale”
Sabina Guzzanti - “Una tivù libera serve alla democrazia”
di Silvia D’Onghia


“Non torneremo a essere un Paese normale, ma il fatto che ci possa essere una televisione libera e che la cultura possa tornare a respirare aiuta tutto il resto”. Sabina Guzzanti è al lavoro su un film, ma accoglie positivamente l’apertura del direttore di Rai2, Carlo Freccero, che ha annunciato il ritorno in tv di Luttazzi.
Sabina Guzzanti, possiamo sperare che sia un nuovo inizio, ameno per la satira?
Penso di sì. Mi è parso che anche dentro Rai3 l’aria stia cambiando. Questo governo ha tanti difetti, ma censura televisiva ancora non c’è stata. Censurano le vite umane magari, hanno tagliato i fondi al Manifesto, a Radio Radicale e ad Avvenire, ma per ora sembra che in Rai ci siano delle aperture almeno per la satira.
Nel novembre scorso, a 30 anni di distanza, proprio su Rai3 è tornata “La tv delle ragazze”. Che Rai era quella degli anni Ottanta?
Che mondo era, vorrà dire? La Rai è il riflesso di ciò che ci sta intorno. Era un mondo che aveva un’etica condivisa, per cui la censura era considerata indecente, impossibile. E quando dico censura, non parlo di una normale discussione in un qualsiasi gruppo: parlo di quanto accaduto in questi ultimi anni alla satira, ma anche al giornalismo. Non mettevo piede in Rai dal 2003, da quando fu censurato il mio programma Raiot.
Com’è stato tornarci?
Ero terrorizzata, perché le poche volte in cui ero andata ospite in qualche trasmissione avevo trovato un’azienda distrutta, anche fisicamente, con i cavi elettrici penzolanti, le crepe alle pareti, reparti costumi deserti… Ma ero anche emozionata, perché ho risentito l’odore dei corridoi e degli armadi in alluminio con su scritto “occhiali da sole”, “stivaletti da ballo”, ho rivisto gli asciugamani che tiri e non scendono mai. E soprattutto ho ritrovato l’entusiasmo dei dipendenti, che portano avanti l’azienda pur tra mille difficoltà e una burocrazia feroce: ai nostri tempi bastava ci venisse un’idea, chiamavi gli scenografi e il giorno dopo era fatta. Adesso è molto difficile anche spostare un tavolino.
Possiamo nutrire la speranza di tornare a essere un Paese normale?
Non so quali siano i Paesi normali in questo momento, il mondo intero sta correndo verso l’apocalisse. E comunque no, non siamo un Paese normale neanche rispetto all’Europa, non mi pare che le questioni etiche o di merito siano superate. Sicuramente una televisione libera e una cultura che respiri possono aiutare tutto il resto. Se scompare la cultura scompare anche la democrazia.
Su Rai3 ha portato l’imitazione della sindaca Virginia Raggi, che ha avuto un grande successo. Pensa sia difficile fare satira su questa nuova Repubblica?
La risposta è già nella domanda: no, nessuna fatica neanche con questo governo. Non è l’eccesso di stimoli a ostacolare gli artisti, è solo la censura. Anche perché la satira è una forma di ragionamento, umoristico ma sempre un ragionamento.
Tornerà Luttazzi, dunque. Tornerà anche lei?
Adesso sto scrivendo un film. ma questo non è incompatibile con un eventuale rientro in televisione.

il manifesto 4.1.19
Bolsonaro, guerra lampo contro i «nemici»
Brasile. In due giorni ridotto il salario minimo, eliminato il ministero della cultura, gli indigeni nelle mani della potente lobby dell’agribusiness
di Claudia Fanti


In Brasile, c’è chi l’ha definita come la «guerra lampo» di Bolsonaro. E in effetti, nei primi due giorni del suo governo, sono stati sferrati attacchi decisivi contro i «nemici della patria, dell’ordine e della libertà» evocati nel suo discorso al Congresso. Chi siano questi nemici lo ha chiarito subito, riducendo, qualche ora dopo il grottesco show del suo insediamento, il valore del salario minimo già approvato dal Congresso nazionale da 1006 a 998 reais e, di seguito, prendendo di mira le fasce più povere e vulnerabili.
UN COLPO MORTALE è stato inferto ai popoli indigeni, mandati direttamente in pasto ai leoni. Con un provvedimento provvisorio relativo alla riorganizzazione dei ministeri, Bolsonaro ha infatti sottratto alla Funai, la Fondazione nazionale per gli indigeni, la responsabilità dell’identificazione e della demarcazione delle aree indigene, affidandola al Ministero dell’Agricoltura e, dunque, di fatto, alla potente lobby dell’agribusiness.
Sarà allora la ministra Tereza Cristina, la «musa dei pesticidi» già a capo della bancada ruralista al Congresso, a occuparsi – è superfluo dire in che modo – delle terre indigene e quilombolas, assumendo inoltre il comando del Servizio forestale brasiliano responsabile della gestione delle riserve naturali e delle foreste. Un requiem per i popoli originari e afrodiscententi e per l’ambiente.
«CHE L’ATTACCO SIA INIZIATO con i popoli indigeni ha una valenza simbolica», ha commentato la sociologa e leader indigena Avelin Buniaca, del popolo Kambiwá, «poiché noi siamo tutto ciò che loro non vogliono per il nostro paese».
Un attacco, peraltro, ampiamente previsto, considerando le dichiarazioni rilasciate da Bolsonaro non solo in campagna elettorale – «Nemmeno un centimetro quadrato in più agli indios» – ma anche pochi giorni prima dell’inaugurazione del suo mandato, quando l’ex capitano ha preso di mira nientedimeno che la madre di tutte le demarcazioni, quella dell’area indigena Raposa Serra do Sol (omologata nel 2005 dal presidente Lula dopo una lotta di oltre trent’anni), auspicando un suo «sfruttamento razionale». Non è stato risparmiato, nel provvedimento provvisorio, neppure il Ministero del Lavoro, le cui funzioni sono state suddivise tra quello della Giustizia e della Pubblica Sicurezza – come se il lavoro fosse una questione di polizia – e quelli dell’Economia e della Cittadinanza, mentre è stato semplicemente eliminato quello della Cultura, verso cui il nuovo regime rivela un’evidente allergia.
Né si è salvato il Consiglio nazionale di sicurezza alimentare e nutrizionale, impegnato nella difesa di un’alimentazione sana, non industrializzata e libera da veleni chimici, del resto chiaramente incompatibile con la politica agricola della «musa dei pesticidi». Con il Ministero dei Diritti umani accorpato a quello della Donna e della Famiglia sotto la guida della pastora evangelica Damares Alves (la stessa che ha detto di aver visto Gesù ai piedi di un albero di goiaba), la popolazione Lgbt è scomparsa per incanto dalle politiche di promozione dei diritti umani, in «un paese che uccide più Lgbt al mondo», come ha ricordato la leader del PCdoB Manuela D’Avila.
E LO STESSO DESTINO, all’interno del Ministero dell’Educazione, è stato riservato alla Segreteria dell’educazione continua, dell’alfabetizzazione, della diversità e dell’inclusione, con cui scompaiono dall’agenda scolastica i temi dei diritti umani, dell’educazione interculturale e del concetto stesso di diversità. Ad annunciarlo è stato il ministro Ricardo Vélez Rodriguez, paladino dei «valori tradizionali della società», indicato espressamente da Olavo de Carvalho, guru de Bolsonaro, nella sua personale crociata contro il «sacerdozio delle tenebre»: marxismo, psicoanalisi, esistenzialismo, teologia della liberazione, relativismo morale, culturale ed etico. «Formare cittadini per il mercato del lavoro – ha commentato Bolsonaro su Twitter -: la prospettiva opposta a quella dei governi precedenti, i quali miravano consapevolmente alla formazione di menti schiave delle idee di dominazione socialista».
E MENTRE IL NUOVO PRESIDENTE ha ammesso di essere arrivato alla presidenza con l’aiuto del comandante dell’esercito, il generale Eduardo Villas Bôas non senza un’inquietante allusione a un accordo segreto tra i due («Generale, ciò di cui abbiamo parlato resterà tra noi»), il regime neofascista ora al potere dà il via alla sua caccia alle streghe, a cominciare dai lavoratori precari della pubblica amministrazione sospettati di essere del Pt: come ha rivelato su O Globo l’editorialista Ascânio Seleme, chiunque abbia postato sulle reti sociali qualcosa che abbia a che vedere con «Ele não», «Fora Temer» e persino “Marielle vive” rischierà il posto.

il manifesto 4.1.19
L’agrobusiness uccide gli indios
Reportage. «Survival international» si rivolge al presidente Bolsonaro per impedire il genocidio dei popoli brasiliani. Per rispettare la loro esistenza, è necessario che la Fondazione nazionale dell’Indio resti al ministero della Giustizia
di Angelo Ferracuti


Norman Lewis, reporter straordinario e tra i maggiori autori inglesi del ’900, viaggiatore dal piglio antropologico e formidabile inviato di guerra, nel 1969 va nella Foresta Amazzonica e scrive per il Sunday Times un pezzo che fa il giro del mondo: «Genocide in Brasil». Chi come me negli ultimi anni è stato più volte nella selva brasiliana, a Catrimani con il popolo Yanomami, ad Arariboia con i guardiani Guajajara, e al confine con il Venezuela, non può prescindere da questo prototipo del giornalismo, una storia che tristemente ripete il suo copione ormai da oltre mezzo secolo.
Il quotidiano inglese aveva commissionato al celebre giornalista un’inchiesta ad ampio raggio, partita da un’indagine dello stesso governo latinoamericano, che aveva messo sotto processo 143 propri funzionari accusati di oltre mille crimini contro gli indigeni sopravvissuti a una strage paragonabile solo all’Olocausto, cioè la morte di 6 milioni di indios brasiliani. «Dei 19.000 Munducuru che si stimava esistessero negli anni Trenta, ne erano rimasti solo 1.200. Il numero totale dei Guaranì si era ridotto da 5.000 a 3.000. Dei 4.000 Caraja ne erano rimasti 400. Dei Cinta larga, che avevano subito attacchi aerei ed erano stati spinti sulle montagne, ne erano forse sopravvissuti 500 su 10.000», scrive l’autore di Un’idea del mondo (Edt), intrecciando dati storici e statistici, e narrando le ignobili ferocie dello sterminio: «Roghi di massa, fustigazioni, sbudellamenti e mutilazioni», e ancora: «Ci sarebbero stati casi di indios prima spalmati di miele su tutto il corpo, e poi lasciati ai morsi delle formiche fino a morirne». I carnefici protagonisti di quelle pagine sono gli stessi di oggi, fazenderos, speculatori dell’agro business, cercatori d’oro, taglialegna abusivi, allora le grandi compagnie della gomma, magari oggi quelle petrolifere, per non parlare della deforestazione prodotta dalle multinazionali della soia, Archer Daniels Midland, Buge e Cargill, che utilizzano i raccolti della distruzione della foresta per fare mangimi animali, destinati soprattutto al mercato europeo.
Se uno s’imbatte nell’opera monumentale di una delle figure più rappresentative e carismatiche della cultura amazzonica, lo sciamano Yanomami Davi Kopenawa, La caduta del cielo (Nottetempo), si rende conto della ricchezza spirituale, del valore cosmologico e insieme ecologico dei popoli nativi, patrimoni di conoscenze e credenze cancellati dall’orda capitalistica in nome di una presunta supremazia costruita su un preconcetto razziale.
A seguito di quel celebre reportage di Lewis che scosse le coscienze britanniche, nacque «Survival international, movimento mondiale per i popoli indigeni» (www.survival.it), che definì egli stesso «il più grande successo della mia vita professionale», il quale proprio in questi giorni lancia un grande appello affinché la Funai (Fondazione nazionale dell’indio), l’ente statale preposto a difendere i territori e i popoli, non sia esautorata e resti nel Ministero della giustizia invece che in quello dell’Agricoltura, attraverso una lettera indirizzata al nuovo Presidente Jair Bolsonaro, al Ministro straordinario Onyz Lorenzoni e al Giudice Sergio Moro.
Nella stessa si legge: «In Brasile vive il maggior numero di popoli incontattati. Per anni il mondo ha guardato al Brasile come a un punto di riferimento per il suo lavoro e le sue politiche tese a rispettare il loro diritto di scegliere liberamente come vivere. Ci aspettiamo che il vostro governo sia d’esempio nel proteggere la terra di queste tribù per impedirne il genocidio, permettendo loro di sopravvivere e prosperare. Anche gli esperti del dipartimento del Funai per gli Indiani incontattati hanno chiesto che l’agenzia rimanga sotto il Ministero della Giustizia, sottolineando l’importante esperienza che il Brasile ha maturato nella protezione delle terre e delle risorse naturali dei popoli incontattati, e la responsabilità dello Stato nella difesa di questi territori. (…) Vi esortiamo a rispettare la costituzione del Brasile e le convenzioni internazionali che il Paese ha ratificato, e ad assicurare che i territori indigeni siano demarcati e protetti da interventi esterni e da invasioni illegali, per garantirne l’uso esclusivo da parte dei popoli indigeni. (…) Per la sopravvivenza dei popoli indigeni del Brasile, per la protezione dei territori a più alta biodiversità del Paese, per la salute del nostro pianeta e per tutta l’umanità».
La parola genocidio è tornata più forte di quando Lewis la pronunciò, perché molti popoli indigeni brasiliani rischiano l’estinzione o sono attaccati nelle terre dove vivono, come i Gamela aggrediti nel loro territorio ancestrale da allevatori spietati, o i Kawahiva incontattati del Mato Grosso, costretti a vivere in fuga per salvarsi nella loro foresta, gli Awà nel Maranhão, la resistenza dei Guaranì, invasi dai coloni, i loro leader vengono brutalmente uccisi e i loro bambini muoiono di fame, l’epidemia di morbillo che ha colpito gli Yanomami isolati al confine tra Brasile e Venezuela, una regione invasa dai cercatori d’oro.
Jair Bolsonaro, «il Trump tropicale», come è stato definito, sostenuto da uno dei gruppi economici più potenti del paese, quello dell’agrobusiness, è stato chiaro in campagna elettorale: «Nemmeno un centimetro quadrato in più agli indios», ha detto. «Il clima politico ostile ai popoli indigeni si è rafforzato negli ultimi anni; il Congresso è, infatti, dominato dalla lobby agro-industriale che fa parte della cosiddetta «BBB» (boi, bala e biblia), un gruppo di politici con forti interessi in agricoltura, nella chiesa evangelica e nella lobby delle armi», mi ha detto Sarah Shenker di Survival quando ci siamo incontrati nel novembre scorso a Imperatriz. «Se i loro diritti territoriali non saranno rispettati sarà una tragedia per la loro sopravvivenza e per quella della foresta Amazzonica – con conseguenze drammatiche per il nostro pianeta e per i tentativi di mitigare i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale».

La Stampa 4.1.18
Per le saudite conquiste e contraddizioni
di Giordano Stabile


Le riforme di Mohammed bin Salman cominciano ad avere i primi effetti, soprattutto nelle relazioni sociali, ma la condizione delle donne in Arabia Saudita resta difficile, con contraddizioni stridenti. Le saudite ora possono guidare, praticare sport, assistere a concerti ed eventi. Molte attiviste, però, restano in carcere per essersi battute a favore di questi diritti.
Le riforme volute da Mbs si scontrano con due cardini dell’islam wahhabita. Sono il «wali», il guardiano di famiglia, e il concetto di «khalwa», la promiscuità illecita fra uomini e donne: anche per questo allo stadio le donne hanno settori riservati. Il principe e Re Salman non possono abolirli in blocco, vista l’opposizione degli ulema, i religiosi che vegliano sull’ortodossia del Regno. Li hanno però indeboliti con una serie di decreti. I più importanti sono quello del settembre 2017, che ha autorizzato le donne a guidare, e dell’aprile del 2017, che ha abolito l’obbligo del consenso da parte del «guardiano» nelle decisioni che riguardano la vita della donna, a meno che non ci sia una «norma di legge esplicita» a imporlo.
L’interpretazione dei decreti è stata ampia, come confermano fonti diplomatiche occidentali: «Oggi le saudite escono da sole, vanno al cinema, possono arruolarsi nell’esercito, sono state nominate a posti importanti nel governo. E hanno di fatto la possibilità di ottenere un passaporto e viaggiare all’estero senza il consenso del guardiano», prima impensabile. «Alla gara di Formula E di metà dicembre si è vista una partecipazione femminile massiccia – continua la fonte -. Questi eventi incoraggiano le aperture e in questo senso anche la partita di Gedda è un fatto positivo, come in fondo i Mondiali in Russia».
La strada è però ancora lunga. Nell’indice 2017 delle pari opportunità del World economic forum l’Arabia Saudita è 138esima su 144 Paesi considerati. Human Rights Watch denuncia forti discriminazioni sul lavoro, perché il consenso del guardiano è decisivo per ottenere posti retribuiti, e nell’educazione, dove vige ancora la separazioni fra sessi, anche all’Università. Mentre Amnesty International sottolinea come siano in carcere molte attiviste, a partire dalla 29enne Loujain al-Hathloul, protagoniste delle battaglie per il diritto alla guida e contro l’obbligo del «guardiano».

Corriere 4.1.19
Un ricordo dello scrittore israeliano scomparso il 28 dicembre. «Contagiava con il suo amore per la letteratura»
Amos Oz scolpiva le fiamme
Ma sempre con delicatezza
Eshkol Nevo rievoca il maestro: spero che avremo il suo stesso coraggio
di Eshkol Nevo


La scomparsa dello scrittore Amos Oz, che era nato a Gerusalemme il 4 maggio 1939 e si è spento lo scorso 28 dicembre a Tel Aviv a causa di un tumore, ha segnato un lutto grave per la letteratura israeliana e mondiale. Tra gli allievi di Oz, la cui opera ha segnato una stagione fondamentale nella vicenda culturale del suo Paese, spicca il romanziere israeliano Eshkol Nevo (nato nel 1971), che a suo tempo frequentò le sue lezioni all’Università Ben Gurion. A Nevo, autore di libri importanti come il romanzo «Nostalgia» (edito in Italia da Mondadori nel 2007 e poi riproposto da Neri Pozza nel 2014) si deve questo ricordo di Oz, che unisce la commozione personale a riflessioni acute sul ruolo svolto dal maestro nella vita sociale dello Stato ebraico.
Amos Oz era il mio maestro. Alla prima lezione del corso di scrittura all’Università Ben Gurion ha esordito con questa frase: «Non posso insegnarvi a scrivere. Però vi posso insegnare a cancellare». Hanno fatto seguito esercizi stimolanti. E riscontri incisivi. Ma più di tutto mi sono rimasti impressi il basilare rispetto con cui si rivolgeva a tutti i presenti e la serietà con cui si dedicava a qualunque testo gli venisse presentato. Anche il più acerbo. A fine seminario mi sono reso conto che da Amos non avevo imparato soltanto come scrivere, avevo imparato anche come insegnare: con riverenza, con dedizione assoluta, con la consapevolezza che il potere nelle mani di un maestro va usato soltanto per giovare.
Il secondo corso che ho seguito con lui era dedicato ai racconti brevi di Shai Agnon. Amos non insegnava Agnon come lo insegnano al liceo, con lo scopo di cavarne interpretazioni, ma da autore che cerca di individuare in che modo la lettura di un grande narratore può diventare motore per la scrittura. Ci leggeva Agnon, riga dopo riga. Delucidava e illuminava. Collegava e spiegava. Più di tutto, ci contagiava con il suo amore per Agnon.
Al termine di una lezione mi sono avvicinato al podio dove si trovava. Volevo raccontargli una cosa. Ho aspettato in fila. C’era sempre una fila di persone che volevano intrattenersi con lui. E a ciascuna dedicava un’attenzione indivisa. Quando è arrivato il mio turno, mi ha chiesto di accompagnarlo all’aula successiva in cui doveva entrare. Mi sono pavoneggiato con lui, mi ero licenziato dal lavoro e adesso «scrivevo e basta». Lui si è fermato, mi ha guardato con il suo sguardo penetrante e ha detto: «Io non ho mai “scritto e basta”». E ha aggiunto: «Non son certo che sia cosa buona, per un uomo, “scrivere e basta”».
Adesso ripenso a quella frase. Contiene un nocciolo di saggezza universale: l’anima dell’uomo ha bisogno di un contatto con il mondo concreto, altrimenti languisce nella sua solitudine. Ma racchiude anche un’ideologia. Non basta scrivere belle storie. O romanzi ben costruiti. Certo, ci si può accontentare di questo, ma un vero intellettuale non può non essere coinvolto nella società in cui vive. Esprimere la sua opinione, anche quando non è popolare. Illuminare con le sue parole gli angoli bui, anche quando nessuno li vuol vedere.
La verità va detta: Amos ha pagato un prezzo alto per il suo coinvolgimento politico e sociale. Mentre per molti riusciva a formulare in modo incisivo quel che provavano, molti altri sentivano che rappresentava tutto quello che avversavano.
«Non ho bisogno che tutti mi amino tutto il tempo» ha detto una volta Amos. Eppure, serve coraggio per rinunciare a questo amore, e serve coraggio per andare controcorrente, e serve coraggio per essere leale solo ed esclusivamente a te stesso e alla tua bussola interiore.
Spero che io e la mia generazione avremo il coraggio che ha avuto Amos: di non tacere al nostro Paese, quando cambia faccia.
Amos è rimasto il mio maestro anche quando ho smesso di studiare con lui.
Dopo ogni nuovo romanzo, ricevevo la sua telefonata. O una lettera. A volte entrambe. Oltre alle cose che del libro gli piacevano, segnalava sempre — con delicatezza, con voce gentile — ciò a cui a suo avviso era possibile aspirare. Anche dopo l’ultimo libro, ha telefonato. Questa volta, per scusarsi. Stava leggendo il mio nuovo romanzo più lentamente del solito, per via delle chemioterapie che lo indebolivano. Perciò non l’aveva ancora terminato. Sperava solo che io non la prendessi male.
Lui sperava che io non la prendessi male? Mentre lo scrivo, sento un brivido. Ma non solo io ricevevo quelle telefonate, e le lettere stilate in una scrittura incredibilmente fitta.
Chiunque abbia avuto il privilegio di avere rapporti con Amos Oz conosceva il segreto: il più grande degli scrittori in lingua ebraica, l’oratore che scolpiva le fiamme, lo stregone della tribù, nella vita privata era una persona di straordinaria delicatezza. E di straordinaria generosità.
Alcuni anni fa, dopo la pubblicazione del suo libro Giuda, l’ho intervistato. Il giornale me l’ha proposto e ho pensato che fosse un’ottima scusa per incontrarci. Ci siamo seduti nel suo studio. Abbiamo bevuto un tè. Poi un altro tè. Si è arrampicato sulla scala per prendere un libro dallo scaffale più alto della sua biblioteca.
Adesso torno a rileggere quell’intervista. E scopro che verso la fine gli avevo chiesto della fine: della prospettiva di cui godiamo quando ci avviciniamo all’ultima parte della nostra vita.
Ecco come ha risposto: «Nella mia vita, ho ottenuto più di quanto sperassi. Ci sono persone che alla mia età sono amareggiate, si comportano come se stessero per essere cacciate fuori da una festa in pieno svolgimento. Io provo gratitudine. Sono grato per un bel libro. Per una buona conversazione. Per i miei figli e nipoti. Per le amicizie».
E ha aggiunto: «Trascorro molto tempo con i morti, ripenso alle persone che ho conosciuto e amato nel corso della vita, ci sono più persone che ho amato e oggi non sono con noi, che non persone che ho amato e sono con noi. Mi mancano. Vivo come fossi gravido. Con i morti nella pancia. Di tanto in tanto converso con loro. Pongo domande, e ricevo risposte».
Alcune settimane fa ci siamo nuovamente incontrati in casa sua. Non immaginavo che sarebbe stato l’ultimo incontro. Amos era malato. Ma come sempre sprizzava acume e racconti. E come sempre lui e sua moglie Nilli non mi hanno permesso di andarmene prima di rifornirmi di provviste letterarie per la strada.
Avessi saputo che era il nostro ultimo incontro, sarei forse stato più generoso nelle parole di congedo.
Forse gli avrei detto che il maestro giusto, al momento giusto, può cambiare la vita a una persona.
Adesso converso con lui nel mio cuore, pongo domande e ricevo risposte, leggo e rileggo i suoi libri. Raccolgo frasi belle con cui consolarmi: «In cuor suo sapeva che la maggior parte delle persone ha bisogno di più amore di quanto ne possa ricevere»; «La mia maestra Zelda… riteneva opportuno richiamarmi garbatamente, se qualche volta smetti di parlare, le cose qualche volta potranno parlare a te»; «Un uomo deve agire per gli altri e non distogliere lo sguardo; se vede un incendio, ha il dovere di cercare di spegnerlo; se non ha un secchio d’acqua, può usare un bicchiere; se non ha il bicchiere, avrà un cucchiaino, l’importante è continuare a provare».
Amos Oz, amato maestro, il tuo ricordo sia di benedizione.
(traduzione di Raffaella Scardi)

Corriere 4.1.19
Alla scoperta della gioia di vivere
La via della saggezza di Andreoli
Esperienze e idee del famoso psichiatra. Il secondo volume in edicola oggi con il quotidiano
di Giangiacomo Schiavi


Sentimenti e coscienza civile: come si può cambiare il mondo in silenzio
Una risposta che va in profondità, oltre le apparenze, senza fare notizia
Pessimisti, delusi, sfiduciati, egoisti, edonisti, malati, arrabbiati, ludopatici, videodipendenti, spaventati e un po’ xenofobi che guardano la vita con gli occhi della paura. Ottimisti, generosi, altruisti, solidali, comprensivi, onesti, e trasparenti che si danno da fare per correggere le storture e migliorare il peggio. Due mondi speculari divisi da confini genetici e ambientali rispecchiano i campi della vita, la durezza e la bellezza, il bicchiere mezzo vuoto e quello mezzo pieno, il buio e la luce, la lotta con il coltello e la forza del sorriso. Vittorino Andreoli non ha dubbi nell’indicare da che parte stare: lo fa con una dedica intima e dolce alla moglie e alla sua gioia di vivere che illumina ogni percorso, anche se la sua visione tragica dell’esistente, da psichiatra che legge il lato oscuro della gente, consiglia prudenza: orientarsi è difficile quando scompaiono i sogni, si smarrisce l’anima, trionfano arroganza, superficialità e potere.
La gioia di vivere, in edicola oggi con il «Corriere», è un antidoto al male profondo dell’uomo di superficie, il viaggio verso una nuova Weltanschauung capace di distinguere la sostanza dall’apparenza: un saggio che offre una visione non convenzionale della mente e dei comportamenti umani. Andreoli mette in chiaro i termini, distingue la gioia dalla felicità, sempre breve ed effimera, giustifica chi parla di fatica, perché la vita, come insegna Camus, è un percorso in salita, e rilegge i classici per aiutarci a capire: da Epicuro («Essere felici è avere dei desideri») a Cicerone («Bisogna vivere in modo che anche da morti si possa rimanere in vita») a Seneca («È importante accogliere serenamente tutto ciò che capita, incluse malattia e morte»). Si arriva poi a Sartre, a Schopenhauer e all’arte di essere felici e qui Andreoli si mette in gioco: non serve più essere psichiatri, scrive, è importante entrare nel campo avverso, sperimentare una percezione del mondo diversa, meno tragica, più positiva. Anche della sua.
«Sono stato definito lo psichiatra dei casi estremi, quando si parla di follia, di delitti, salta fuori immancabilmente il mio nome. Ho sempre ritenuto che la mia visione del mondo rappresentasse la realtà, il dramma dell’esistenza, di un universo che gira senza sapere perché. Ma come Émile Zola, ammetto di sentire il fascino di un’esistenza che, nonostante sia per me impossibile, può diventare per qualcuno desiderio o sogno». Contenendo questa sua visione tragica, Andreoli si immerge nella realtà di chi vive con gioia anche i tempi bui che qualcuno ha definito delle passioni tristi.
No alla sfiducia
Consigli per affrontare
i nostri tempi che qualcuno ha definito delle passioni tristi
Affiora così la gioia, spesso invisibile, di un mondo particolare, «il mondo dei nessuno» lo chiama l’autore, un mondo a lui caro perché non ha ribalta, non cerca telecamere, non viaggia su YouTube, ma cerca semplicemente di dare risposte ai bisogni e va in profondità senza fermarsi all’apparenza. È la società del silenzio, della periferia, di certi luoghi sperduti fuori dalla comunicazione veloce, che dà più valore ai sentimenti che ai mass media e alle banche. Un mondo che, per paradosso, non conta, perché il suo essere fuori dagli schemi che definiscono oggi il successo, lo relega tra chi non c’è. I nessuno, appunto. Ma sono queste persone normali e invisibili che danno un senso alla gioia di vivere: quelle che dicono buongiorno, che assistono un anziano solo, che pagano le tasse, che sanno ascoltare, che non viaggiano a sbafo sul tram, che non gettano rifiuti in strada, che credono in qualcosa e s’impegnano per gli altri, offrendo tempo, amore, emozioni.
Andreoli non crede, come pensano certi idealisti, che un battito d’ali di una farfalla possa causare dall’altra parte del mondo un uragano. Ma si può contraddire pensando a Gandhi, un uomo solo, senza esercito e carri armati, che ha fermato la potente Gran Bretagna colonialista. Gioia di vivere come coscienza civile, dunque. Coerenza. Identità. Soprattutto onestà. Che nasce da un’educazione. Da un insegnamento. Dagli esempi, che molto spesso mancano. Dalla musica, dalla cultura, dall’arte, dal rispetto dell’ambiente. Dalla consapevolezza che nella vita ci si può commuovere, ma si può anche sorridere. «La visione del mondo è una struttura della personalità e non una decorazione, un abito che si può cambiare o che un chirurgo plastico può modificare», spiega.
La gioia di vivere non si trova in farmacia. Ma a piccoli passi ci si può incamminare verso la saggezza, conclude Andreoli. Per poter dire un giorno, come nella canzone di Violeta Parra: «Grazie alla vita/ che mi ha dato tanto…».

Il Fatto 4.1.19
Rapinatori a Firenze: la città set de “La casa di carta”
Ken Loach torna a raccontare (a 82 anni) la nuova povertà dell’Inghilterra
Rapinatori a Firenze: la città set de “La casa di carta”
di Fabrizio Corallo


Soltanto per oggi Firenze ospiterà tra piazza del Duomo e piazzale Michelangelo alcune riprese della nuova stagione de La casa di carta, la serie tv spagnola trasmessa da Netflix con grande successo e vincitrice quest’anno di un Emmy Award, incentrata su un gruppo che tenta di rapinare la zecca di Stato a Madrid. Secondo indiscrezioni le nuove puntate ambientate anche in Italia e nel Sud Est Asiatico vedranno la banda progettare un assalto al grattacielo della società di telecomunicazioni Telefónica.
Dopo l’incantevole Il gioco delle coppie Olivier Assayas dirige Pedro Pascal, Gael García Bernal, Edgar Ramirez e Penélope Cruz in Wasp Network, un thriller di spionaggio basato sul libro The Last Soldiers of the Cold War di Fernando Morais. Racconterà la reale esistenza di una rete di cubani anticastristi infiltrati in Florida che negli anni ’90 aveva progettato e organizzato una serie di attacchi militari a Cuba espandendo i suoi piani terroristici fino all’America centrale con il benestare del Governo Usa.
L’82enne Ken Loach è tornato sul set per dirigere a Newcastle Sorry We Missed You, una coproduzione anglo-franco-belga che lo vedrà raccontare la povertà nell’Inghilterra di oggi attraverso le vicende di un padre di famiglia (Kris Hitchen) che dopo aver perso il lavoro si industria facendo consegne a domicilio in motorino per i ristoranti ma non riesce comunque a mantenere la famiglia.
Fatih Akin sta ultimando il montaggio di The Golden Glove, un thriller frutto di una coproduzione tedesco-francese ispirata al romanzo omonimo di Heinz Strunk basato sulla vera storia di un serial killer che negli anni ‘70 aveva ucciso e smembrato quattro prostitute ad Amburgo.

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