giovedì 31 gennaio 2019

Corriere 31.1.19
Malala diventa cronista
«Vi racconto le storie di ragazze coraggiose»
intervista di Lisa Allardice


La Premio Nobel per la Pace pachistana ha raccolto in un libro che esce oggi in Italia le voci delle giovani rifugiate incontrate nei campi profughi in giro per il mondo: «Non sono solo vittime, ma persone straordinarie che hanno un sogno da realizzare» In questa intervista parla della sua vita da studentessa (e di Trump e dei tacchi a spillo)

«La mia storia la conoscono tutti», ammette Malala Yousafzai, il premio Nobel più giovane di sempre. «È venuto il momento di ascoltare le storie di altre ragazze». Il suo nuovo libro, «Siamo tutti profughi», è una raccolta di resoconti che Malala ha raccolto nei campi dei rifugiati in giro per il mondo. «Ne sentiamo parlare, spesso con connotazioni negative. Ma non sentiamo mai le loro voci, specie quando si tratta di bambine e ragazze. Per questo ho scritto il libro».
La storia di Malala Yousafzai — colpita da un proiettile dei talebani a Peshawar nel 2012, quando aveva 15 anni, per aver sostenuto il diritto delle ragazze all’istruzione — è nota in tutto il mondo. Dopo la guarigione, ha accettato di assumere il ruolo di ambasciatrice globale per la scolarizzazione delle ragazze. Nel 2014 è stata insignita del premio Nobel per la pace. Oggi è una ventunenne studentessa di Oxford, con il capo avvolto da un velo e vestita di una tunica rosa brillante, un paio di scarpe con i tacchi a spillo. L’unico segno esterno delle ferite riportate nell’attentato è un sorriso leggermente storto. Ma non smette mai di sorridere.
«Il 90% dei rifugiati» sono ospitati nei Paesi in via di sviluppo. Cerchiamo di capire su chi ricade effettivamente il peso delle migrazioni», dice Malala. La prima stesura del libro risale a oltre cinque anni fa, negli accampamenti dei profughi siriani in Giordania, da lei visitati per avviare gli interventi della Fondazione Malala per l’istruzione delle ragazze. Mentre siamo al corrente delle catastrofi umanitarie in corso in Siria e in Iraq, Malala ha voluto attirare l’attenzione sul fatto che «questo accade in ogni angolo del pianeta. Accade in America Latina come nel sud-est asiatico, in India, e in gran parte del continente africano».
«Noi non riusciamo a immaginare di salire in macchina e andare da Birmingham a Londra da sole, a 14 o 15 anni», dice Malala. «I nostri genitori sarebbero preoccupati per noi. Mentre ci sono ragazze che camminano giorno e notte da sole, talvolta salgono sugli autobus in compagnia di estranei, attraversano confini, senza sapere se arriveranno dall’altra parte sane e salve. Rischiano ogni giorno la vita. E questo è segno di grande coraggio». Osserva Malala che «spesso ci dimentichiamo che anche i rifugiati vorrebbero tornare a casa loro. Ogni ragazza ha questo sogno, vuole tornare a vedere casa sua. Quando diventi un rifugiato, ti senti un estraneo nel nuovo Paese. Ma non appena senti di appartenere alla nuova realtà, anche tu hai diritto di viverci, come tutti gli altri. Quel Paese diventa casa tua. E ognuno di noi può avere casa in molti luoghi».
Pur sentendosi «molto orgogliosa di Birmingham», che è diventata la sua seconda casa, Malala ha ancora nostalgia dei suoni, profumi e sapori di Peshawar: il tè dolce che bolle sulla stufa, il pollo con il riso preparato dalla mamma. Non si abituerà mai al clima inglese (anche se è disposta a concedere, con un pizzico di tristezza, che «l’estate non è più così male, forse per il riscaldamento globale»), o al fatto che gli automobilisti non suonano il clàcson in continuazione. Prima del suo arrivo nel Regno Unito, «non avevo mai visto automobili che rispettavano il codice della strada».
Lo scorso marzo con la sua famiglia è tornata in Pakistan per la prima volta dall’attentato, con il padre perennemente in ansia che le elezioni o altri avvenimenti politici potessero mettere in pericolo la loro incolumità. Hanno riabbracciato centinaia di amici e parenti — «tanti selfie, tanti abbracci, baci e preghiere» — compresa la sua migliore amica d’infanzia e oggi rivale negli studi, Moniba, iscritta a medicina. Hanno visitato la valle di Swat, «il tempo era bello», e sono tornati nella loro vecchia casa, dove la famiglia che oggi la abita ha conservato inalterata la sua vecchia stanza: «C’erano i miei libri, i disegni, i premi ricevuti a scuola, l’armadio e il letto e tutto il resto. È stato bellissimo».
Su chi ricade davvero il peso delle migrazioni? Il 90% dei rifugiati sono ospitati nei Paesi in via di sviluppo
Oggi Malala frequenta il secondo anno di università e studia filosofia, politica ed economia a Oxford, come sognava da bambina in Pakistan. Il suo collegio è il Lady Margaret Hall, uno dei primi collegi femminili, dove la sua eroina, Benazir Bhutto, già primo ministro pachistano, assassinata nel 2007, aveva studiato nella medesima facoltà. La vita universitaria le piace: «A Oxford ci sono già diverse persone famose, perciò nessuno fa caso a me». Ha stretto amicizia con diversi studenti come lei: «Non mi trattano come “la Malala,” ma semplicemente come la loro amica Malala». Le sono piovute addosso non poche critiche quando qualcuno ha messo in Rete una foto di lei con indosso un paio di jeans attillati: «Sono solo jeans, che c’è di male?» chiede allegramente. «Di cose come queste non mi preoccupo minimamente».
È rimasta «sorpresa» nel constatare che il sessismo sopravvive ancora, persino nel Regno Unito. «Noi consideriamo l’Occidente come un mondo perfetto dove regnano uguaglianza e democrazia». È ancora intenzionata a diventare il prossimo primo ministro del Pakistan? «La gente pensa sempre alla politica, ma c’è anche la filosofia e l’economia». No, non ha progetti né interesse in politica, in questo momento, dice. Ma tra quindici o vent’anni, chi lo sa? Sta leggendo il libro di Michelle Obama. E sebbene non abbia mai incontrato Trump, si augura che vorrà leggere il suo libro. «È di facile lettura. Potrebbe anche ritwittarlo», ride. Tornando seria, Malala dice che lo inviterebbe volentieri a visitare un campo profughi. «Magari potrei aiutarlo a organizzare la visita».
«Talvolta pensiamo ai rifugiati come a delle vittime, cariche di storie lacrimose. Ovviamente sono persone tristi, ma sanno anche mostrarci quanto sanno essere coraggiose». Malgrado tutti gli orrori, il libro di Malala è ricco di speranza: molte delle ragazze le cui storie vi sono raccontate oggi studiano all’università. «Sono diventate attiviste, e vogliono realizzare i loro sogni». Come dice giustamente la più famosa di tutte: «Se una ragazza istruita può cambiare il mondo, che cosa sapranno fare 130 milioni di ragazze?».
(traduzione di Rita Baldassarre)
© The Guardian