Corriere 30.1.19
La sinistra e le europee
il motto «uniti si vince» ormai non funziona più
di Paolo Franchi
La strategia Occorrerebbe differenziare e articolare l’offerta politica
Ha
detto qualche giorno fa Romano Prodi, intervistato dalla Stampa, che le
elezioni del 26 maggio «sono destinate a richiamare, in un contesto più
ampio, quelle del 1948 in Italia»: perché, come allora, sarebbe «in
causa il nostro destino». Richiami al 1948 erano echeggiati anche in
occasione del varo dell’appello di Carlo Calenda. Magari, chissà, ne
sentiremo ancora. Le buone intenzioni di chi sollecita l’unità degli
europeisti contro il dilagare dei populismi e dei nazionalismi si vedono
a occhio nudo. Non è altrettanto chiaro, invece, che cosa c’entri il
1948. E soprattutto se, ad evocarne in qualche modo lo spirito, quel che
resta del centrosinistra non rischi di farsi ulteriormente del male. Di
buone intenzioni, purtroppo, è lastricata la via dell’inferno.
Intanto.
Il 18 aprile del 1948, la Dc di Alcide De Gasperi, sorretta in Italia
dalla Chiesa di papa Pacelli e dai Comitati civici di Luigi Gedda, e
dall’esterno dagli Stati Uniti, sconfisse duramente il Fronte popolare
di Palmiro Togliatti e di Pietro Nenni. Che Prodi pensi a De Gasperi, è
giusto, ma, con la sua biografia, anche scontato. Per chi a sinistra, è
figlio, nipote o pronipote della storia opposta, lo è meno. Da un pezzo
molti post comunisti italiani (il primo fu, già nel fatidico 1989,
Massimo Cacciari) hanno riconosciuto che l’esito di quelle elezioni fu
una fortuna per il Paese. Nel suo Diario in pubblico, pubblicato postumo
per Marsilio a cura del figlio Duccio e del sottoscritto, Antonello
Trombadori riferì di una cena in quei giorni alla Carbonara, in cui i
commensali (Paolo Bufalini, Rosario Villari e Trombadori medesimo)
ragionarono a lungo su chi, tra loro e i loro compagni, in caso di
vittoria del Fronte, sarebbe stato sbirro e chi prigioniero. Ma «18
aprile» restò ugualmente, per i comunisti e ancor più per i socialisti,
sinonimo di sciagura. Generazioni intere impararono a utilizzare parole
come «Fronte» e «frontismo» solo per indicare delle strade da non
percorrere per nessun motivo. Anche se Giuseppe Stalin era morto da un
pezzo, e l’Italia non dipendeva più, per mangiare, dal grano inviato
dagli americani.
Queste, si dirà, sono storie vecchie, la progenie
dei loro protagonisti, dei loro comprimari e delle loro comparse ha ben
altro di cui occuparsi. Chi vuole l’Europa, e un’Italia europea, ha già
preso troppo tempo dilaniandosi in lotte intestine feroci e
inconcludenti. Adesso deve unirsi, «fare fronte», appunto contro quelli
che non vogliono né l’una né l’altra, e pretendere dagli elettori un
responso chiaro: o di qua o di là. A primavera, però, non ci sarà un
referendum, ma delle elezioni in cui si voterà con il sistema
proporzionale. E in elezioni di questo tipo l’antico motto «uniti si
vince» non funziona. Per vincere o, più realisticamente, per contenere
la sconfitta entro limiti ragionevoli, occorre al contrario
differenziare e articolare l’offerta politica, pur tenendo nel massimo
conto, una soglia di sbarramento che limita non poco le possibili
opzioni.
A cercare di contrastare il populismo e il sovranismo ci
sono forze (e potenziali elettori) europeiste sans phrase, ma ce ne sono
pure altre non anti europee, certo, che però sull’Europa così come ha
funzionato e funziona hanno parecchio da ridire, e si sono convinte
anche autocriticamente che un eccesso di subalternità alle sue logiche
abbia contribuito non poco a far sì che i Cinque Stelle, ma pure la
Lega, mietessero consensi nell’elettorato, popolare e non solo, di
centrosinistra. Si può decidere, naturalmente, di tenere fuori queste
ultime, ma così il fronte in questione sarà in partenza molto meno
ampio. Sarà possibile, allora, tenerle assieme ugualmente nella lotta
contro il nemico comune? Forse sì, ma senza dimenticare che gli
avversari, che rappresentano a tutt’oggi la maggioranza degli italiani,
sono due, e in aspra concorrenza tra di loro. Magari sarebbe meglio, si
sarebbe detto una volta, provarsi a incidere sulle loro contraddizioni,
piuttosto che metterli nella condizione (ancora un linguaggio d’antan
...) di marciare divisi e colpire uniti quello che entrambi
rappresenterebbero, probabilmente con successo, come il fronte unito
delle élite e dei vinti della Seconda Repubblica.
La storia non è
magistra vitae, ma attenti lo stesso agli amari risvegli. Chissà perché
in questi giorni mi sono tornati alla mente i versi di Vittorio Sereni
su Umberto Saba: «E un giorno o due dopo il 18 Aprile/ lo vidi errare da
una piazza all’altra/ dall’uno all’altro caffè di Milano/ inseguito
dalla radio. / Porca — vociferando — porca. Lo guardava/stupefatta la
gente./ Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna/che ignara o
no a morte ci ha ferito».