mercoledì 30 gennaio 2019

Corriere 30.1.19
La triste lezione di Kabul
di Paolo Mieli


Ancora non si sa se e quando gli americani (forse preceduti dagli italiani) lasceranno l’Afghanistan ma gli effetti dei preaccordi di Doha si vedono già. Ancora una volta gli Stati Uniti hanno perso una guerra e incoronano vincitori quelli che un tempo additarono come nemici con i quali non sarebbero mai scesi a patti. Accadde in Vietnam a metà degli anni Settanta, dopodiché questo triste esito si è ripetuto in più di un’occasione. I trattati che gli Usa firmeranno con i talebani a garanzia di lunga vita per l’attuale presidente Ashraf Ghani valgono come quelli sottoscritti dai sovietici nel 1989 volti ad assicurare un grande futuro per Mohammed Najibullah che qualche tempo dopo finì ammazzato e appeso ad un lampione. Lo stesso discorso si può fare per le assicurazioni offerte a quella parte di popolo afghano che ha collaborato con gli «occupanti». Triste destino il loro e non sarebbe onesto evitare adesso di parlarne apertamente, ammantando le nostre considerazioni di un ottimismo che non ha ragion d’essere. Il popolo che credette in un Afghanistan in cui, per nostro merito, sarebbe stato concesso alle donne di togliere il velo e di tornare a studiare, pagherà un prezzo altissimo. Nel silenzio dei media occidentali.
Ancor più che un’incoronazione dei talebani, l’esito di questo conflitto - come di quasi tutti i precedenti scontri armati che ebbero come protagonisti militari a stelle e strisce - segna il trionfo di coloro che a quelle guerre si opposero fin dall’inizio.
a i quali, con scarso senso del ridicolo, si aggiungeranno quegli interventisti del 2001 che avvertiranno l’esigenza di dare spiegazioni su perché e per come sia stato giusto, da parte loro, cambiare opinione nell’arco dei successivi diciotto anni. Avremo i pentiti del 2003 (che diranno di essersi accorti di aver sbagliato — anche per l’Afghanistan — a seguito della guerra in Iraq), quelli del 2011 (convertiti al pacifismo dalle primavere arabe), del dopoguerra in Siria, dei tempi successivi alla nascita dell’Isis e via di questo passo. L’unico risultato di questi atti di contrizione sarà che la prossima volta in cui dovesse rendersi necessario un intervento armato (fosse anche il più ragionevole) le resistenze saranno molto maggiori che in passato. E in effetti, se deve sempre andare a finire così, se le «guerre umanitarie» devono necessariamente produrre come risultato intermedio la presenza di truppe straniere su un territorio ad esse estraneo, non si dovrebbe neanche iniziare. Se non si ha un’idea di come riedificare il Paese e se è prevedibile che alla fine ci si ritirerà senza aver costruito nulla, lasciando sul terreno migliaia di morti oltreché un risentimento diffuso da parte delle popolazioni locali, se le cose, dicevamo, devono obbligatoriamente andare così, forse è da ripensare nei modi più radicali la stessa idea che ci siano situazioni in cui sia doveroso impugnare le armi a favore di una causa. Anche quella che sulla carta può apparire la più lodevole.
La seconda guerra mondiale non fu vinta nell’estate del 1944 sulle spiagge della Normandia o in Germania nel 1945, ma negli anni successivi alla fine del conflitto quando gli alleati in metà Europa — e (con ben altri metodi) i sovietici nell’altra metà — diedero prova di avere un’idea di come rimettere in sesto i Paesi del continente. Una guerra la si vince solo quando si ha per il dopo un’idea di come costruire una pace. Anche per quel che riguarda i costi economici dell’impresa. Tre anni fa il «New York Times» calcolò in dettaglio come in Afghanistan si fosse speso già nel 2016 assai più del costo complessivo dell’intero Piano Marshall con cui nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti avevano riedificato l’intera Europa occidentale. Adesso dovremmo essere al doppio. Forse anche più.
Il modo in cui sta «finendo» la guerra in Afghanistan — tra l’altro nei giorni in cui l’amministrazione americana allude (per il momento in maniera ancora vaga) a un possibile intervento in Venezuela a favore dei democratici che si battono inermi contro Maduro — dovrebbe indurci poi a un supplemento di prudenza. Dai diciotto anni trascorsi a Kabul dovremmo apprendere che l’ unica modalità di intervento destinata al successo è quella (all’epoca peraltro assai criticata) di George Bush senior nella prima guerra del Golfo. La missione deve essere motivata in maniera ineccepibile, con prove evidenti di ciò che l’ha provocata. E soprattutto deve essere limitata negli obiettivi e nel tempo. Per dire, la seconda guerra mesopotamica, quella di George Bush junior contro Saddam, apparirebbe, secondo tali criteri, sconsigliabile — al di là della questione delle armi di distruzione di massa — per il fatto che la costruzione di un regime democratico a Bagdad era un obiettivo velleitario e tale da richiedere una presenza di truppe in terra irachena eccessivamente prolungata.
A questo punto la lezione dell’Afghanistan è inequivocabile: qualsiasi intervento preveda che soldati stranieri restino per un lungo periodo nel Paese che si vuole «salvare» — ed è da considerarsi lungo quel lasso di tempo che si protrae per più di qualche settimana — è da ritenersi di per sé potenzialmente dannoso. Anche se originato da ragioni le più nobili. Anzi ormai si può considerare provato che più sono ambiziosi gli obiettivi di affermazione del bene contro il male, più c’è da preoccuparsi che il male alla fine in qualche modo trionfi.
C’è poi un’ultima lezione afghana che si può apprendere dall’Italia. Quando c’è da annunciare il ritiro da una guerra che ha prodotto decine di morti — tra i quali è giusto qui ricordare i parà del sanguinoso attentato a Kabul del 17 settembre 2009 (senza però lasciare all’oblio nessuno degli altri militari e i civili del luogo che hanno perso la vita in quei frangenti) — sarebbe meglio che i ministri si mostrassero all’altezza della circostanza o quantomeno fingessero di aver concordato tempi e modi dell’annuncio. E sarebbe altresì sconsigliabile, nei giorni successivi a tale dichiarazione d’intenti, ricondurre tale iniziativa ad occasione per così dire «di confronto tra le diverse componenti del governo». Dal momento che talvolta le modalità del ritiro possono rivelarsi più disonorevoli del ritiro stesso.