Corriere 30.1.19
il caso Rogoredo
Come aiutare i nostri figli contro la droga
Dovremmo
aiutare madri e padri ad agire, con il sostegno dei tribunali minorili,
portando presto i ragazzi nelle comunità. Invece c’è troppa burocrazia
20
mila (per la precisione 22.446) sono i minori e i giovani adulti (dai
18 ai 25 anni) in carico ai SerD, di cui oltre 7mila nuovi arrivisolo
nell’ultimo anno
25 le vittimedi droga nell’ultimo mese: 11 di
eroina, 11 di sostanze non determinate, una di speedball, una di
cocaina, una di metadone non prescritto (dati geoverdose.it)
di Antonio Polito
Ci
vorrebbe un poeta per scrivere la Spoon River dei ragazzi morti per
droga. A guardare le foto che sta pubblicando il Corriere nell’inchiesta
partita dal bosco di Rogoredo, tutti quei volti di adolescenti che non
ci sono più, vengono a mancare le parole. Ti ammutolisce un misto di
rabbia per tanta bellezza sprecata, angoscia per quello che può accadere
ai tuoi ragazzi, sconcerto quando senti dire che il problema è la
proibizione, mentre invece è la nuova disponibilità, sotto casa e per
tutti, di sostanze molto più letali di quando eravamo giovani noi.
Le
storie di chi non ce l’ha fatta, ed è morto nei bagni di una stazione a
Udine o sulla barella di un ospedale dismesso a Roma, non si possono
più ascoltare da chi le ha vissute. Di loro resta solo lo strazio dei
parenti. Ma ogni tanto dal bosco spunta una voce che può ancora narrarsi
in prima persona, perché ne è uscita, come la ragazza milanese che si è
confessata l’altro giorno a Elisabetta Andreis e Gianni Santucci sul
Corriere . E allora, da questi rari documenti provenienti dal fronte,
capisci che il problema fondamentale è il tempo: quanto ce n’è tra
quando un ragazzo prova la droga per la prima volta e quando non c’è più
niente da fare?
Lasciamo stare tutto quello che viene prima e
dopo, e la solita sterile polemica tra chi vuole reprimere di più e chi
vuole permettere di più. Tanto ormai nei fatti seguiamo tutti la stessa
politica: quella dello struzzo, che insegna a mettere la testa sotto la
sabbia e a non guardare, quasi come se ci fossimo rassegnati a questa
tragedia generazionale, che suscita ormai meno allarme del bullismo sui
social e delle slot machine, e convive con i negozi che vendono marjuana
light agli angoli delle strade come fossero sigarette aromatiche.
Proviamo
invece a concentrarci su quell’attimo cruciale tra il primo buco e
l’ultimo libero arbitrio, quando «hai ancora un piede dentro la realtà»,
come dice la ragazza del bosco, e puoi ancora ascoltare, se ti parlano.
«Avrei voluto qualcuno che mi entrava in testa... Nessuno ci riusciva,
da sola non potevo uscirne, però».
Lei alla fine l’ha trovato, un
angelo che le ha parlato. Un «operatore di strada» che non si è limitato
a fornire siringhe sterili, che lavora in una comunità, conosce il
cuore degli adolescenti e si è aperto una piccola breccia nella sua
mente semplicemente con la parola. Ma quanti giovani hanno questa
fortuna? E, se non ce l’hanno, che cosa possono fare i genitori in
quell’attimo fuggente, tra quando sospettano che il figlio si droghi e
quando è troppo tardi?
Forse il dibattito dovrebbe umilmente
ripartire da qui. Perché oggi le cose sono messe in modo tale che anche i
più determinati e coraggiosi dei padri e delle madri rischiano di dover
aspettare mesi, forse un anno, anche più, prima di riuscire a trovare
un posto per il figlio in una comunità, la casa fuori dal bosco dove i
ragazzi si salvano. Si passa per una lunga e complessa trafila, che
parte dai servizi sociali o dai SerD (servizi per le dipendenze
patologiche), e inizia sempre con la risposta di prammatica: niente si
può fare senza la volontà del ragazzo. Ma il ragazzo non vuole, mai. È
ancora convinto di potersi «gestire», ha una fiducia illimitata e
infondata nella sua ancora acerba neurobiologia. Mente, si nasconde, si
ribella. E allora comincia il calvario ben noto a tanti genitori: le
prime analisi delle urine, la battaglia del controllo (con chi vai? dove
vai?), gli accertamenti tossicologici prescritti dalla legge, la scelta
di un avvocato, il tribunale dei minori. Passano mesi. E se il giovane
non ha ancora fatto danni ad altri, ma solo a se stesso, non è affatto
detto che il giudice disponga l’invio in comunità. Per Desirée, la
ragazza orrendamente predata e uccisa a Roma, il ricovero venne negato
tre giorni prima che morisse. E se non vanno in comunità, dove vanno la
sera? Nella piazza dello spaccio, tra le immondizie di un palazzo
abbandonato, di nuovo nel bosco.
Così si ritarda, oltre il limite,
l’incontro con una presenza, con una persona, l’unica cura per le
tossicodipendenze (e anche per altro). A giudicare da quello che
leggiamo e vediamo, il sistema non funziona. È come se si fosse tarato
su una progressiva riduzione del fenomeno, sperando di renderlo
marginale. E oggi non riesce a reggere la improvvisa e nuova emergenza:
nell’ultimo mese sono morte 25 persone, quasi una al giorno, 11 di
eroina, 11 di sostanze non determinate, una di speedball, un’altra di
cocaina, un’altra ancora di metadone non prescritto (sono i dati in
tempo reale che fornisce il sito geoverdose.it ).
«Se aiutassimo i
genitori ad agire prima, anche con il sostegno dei tribunali minorili,
prendendo direttamente l’iniziativa di portare questi ragazzi nella
comunità che dà loro più affidamento, saltando il filtro della
burocrazia, forse qualche vita la salveremmo», dice Giuseppe Mammana,
psichiatra e presidente di Acudipa, un’associazione per la cura delle
dipendenze patologiche.
C’è insomma chi vorrebbe liberalizzare le
droghe e chi vorrebbe liberalizzare le cure. Forse varrebbe la pena di
discuterne. Ma dove? La conferenza nazionale sulle droghe, che una legge
del ’90 stabiliva si dovesse tenere ogni tre anni per verificare
l’efficacia delle norme ed eventualmente correggerle, non si riunisce da
dieci anni. Importa ancora a qualcuno quel che succede nel bosco?