Corriere 28.1.19
Ieri e oggi
Esce giovedì dal Saggiatore la nuova edizione de «Il sovversivo» di Corrado Stajano
Solo, giovane, anarchico
Franco Serantini: storia di vita e di morte
Pestato dalla polizia nel 1972. Una vicenda ancora attuale
Vittima dei pugni e dei manganelli durante disordini a Pisa, in carcere fu lasciato senza cure
Morì dopo due giorni
di Corrado Stajano
Sembra
l’immagine di un giovane uomo in attesa della morte, quella di Franco
Serantini, il 5 maggio 1972, immobile sull’angolo di via delle Belle
donne che dà sul Lungarno Gambacorti di Pisa. Non fa un gesto, potrebbe
facilmente scappare nei vicoli della Nunziatina, il quartiere
proletario, pochi passi alle sue spalle, salvarsi dalla violenza dei
poliziotti, una decina, che coi calci dei moschetti, i manganelli, gli
scarponi, i pugni lo massacrano. Con ferocia, con crudeltà riversano su
quel povero ragazzo tutta la loro furia, le loro frustrazioni.
Quando
uscì questo libro, nel 1975, lo presentò con altri Dario Fo: in un
silenzio di ghiaccio, davanti a un migliaio di persone dentro e fuori
dalla Palazzina Liberty di Milano, l’attore lesse con voce grave, senza
una parola di commento, le due pagine che riportano i dati dell’esame
necroscopico. Una stazione del Calvario, il vento della morte su un
ragazzo colpevole soltanto di avere gridato qualche insulto contro i
fascisti raggruppati per un comizio in una piazza non lontana, e forse
contro quei maramaldi imbestiati del 1° Raggruppamento Celere di Roma,
coetanei ventenni della vittima.
La breve esistenza di Franco
Serantini sembra una storia ottocentesca ai limiti dell’invenzione
settaria, colma com’è di miseria, di violenza, d’ingiustizia. Il destino
di sofferenza e di dolore che tocca in sorte ai poveri.
Serantini
nasce a Cagliari il 16 luglio 1951, figlio di nessuno. N.N. — nomen
nescio, non noto — un marchio rovente che fino al 1975 pesò anche sui
documenti dei bambini e poi degli adulti senza madre e senza padre.
All’orfanotrofio
per due anni, viene dato in affidamento a due coniugi siciliani. La
coppia vive quietamente con il bambino, poi la donna si ammala e nel
1955 muore. L’Amministrazione provinciale di Cagliari ordina allora che
Franco venga affidato all’Istituto del Buon Pastore della città, in un
quartiere chiamato «Il Giorgino», simile al ghetto di un paese
nordafricano.
È un bambino e poi un ragazzino chiuso, taciturno,
infelice. Non è un bravo scolaro e neppure un bravo studente, in perenne
conflitto con le suore che un certo giorno si appellano al Tribunale
dei minori. «Per rimediare alla lunga istituzionalizzazione», scrivono i
giudici nella loro ordinanza, Serantini viene destinato al riformatorio
di Pisa, il San Silvestro, il rimedio più ragionevole davvero per un
giovane fragile, incensurato, tra l’altro.
Accade che la città lo
affascini, per lui è la scoperta della vita. Com’è diversa Pisa dai
posti dove è vissuto, con quel verde tenero del Campo, il bianco della
Cattedrale e del Battistero, la Torre, le piccole strade dei vecchi
quartieri, l’Arno. Sono gli anni — il ’68 — della ribellione studentesca
e operaia. In mezzo a quelle migliaia di ragazzi di ogni regione che
riempiono vie e piazze, Franco, introverso com’è, ferito, si sente
uguale agli altri, non più il figlio di nessuno.
Ha voglia di
fare. Studia, prende la licenza media, si iscrive a un Istituto
professionale. Legge tutto quel che trova, Magnati e popolani in Firenze
dal 1280 al 1295, di Gaetano Salvemini, chissà come, chissà perché.
Parla, discute, conosce ogni giorno persone nuove.
Sono i pochi
anni sereni della sua esistenza. La passione della politica prende anche
lui. Non ama la violenza, si avvicina con naturalezza agli anarchici,
diventa l’anima del gruppo Giuseppe Pinelli, l’anarchico fermato a
Milano il 12 dicembre 1969, dopo la strage di piazza Fontana, entrato
vivo e uscito morto dalla Questura. Si dà da fare come se volesse
recuperare un tempo perduto, donatore di sangue, cameriere a Viareggio.
Capisce l’importanza del leggere, del sapere, costruisce la sua cultura.
Su un quadernetto dalla copertina nera scrive tutto quello che gli
salta in testa, appiccica articoli di giornale, fotografie, non si
stanca mai di parlare di Pinelli, di Valpreda. Lavora in un ufficio di
perforazione schede e con i suoi guadagni compra un motorino, un Ciao
usato di color blu. La felicità.
Il 7 e l’8 maggio 1972 si
svolgono le elezioni politiche nazionali. La campagna elettorale è
aspra. Pisa è una roccaforte della sinistra extraparlamentare. Alla
vigilia del voto, il 5 di maggio, il venerdì, è in programma un comizio
fascista. Lotta continua si oppone con durezza. Carabinieri e polizia
sono giunti in città in gran numero. Il conflitto esplode, tre ore di
guerriglia.
Rinchiuso nel carcere «Don Bosco» Serantini sta
visibilmente male. Nessuno interviene. Il giorno dopo, il sabato a
mezzogiorno, viene interrogato dal magistrato che non si accorge di
nulla, anche se il ragazzo non riesce neppure a tenere la testa levata.
Non
si parla di una radiografia — nel carcere funziona un attrezzato centro
medico specialistico —, non gli viene misurata neppure la pressione
arteriosa e la frequenza cardiaca. Il medico gli prescrive
Sympatol-Cortigen e una borsa di ghiaccio da mettere sul capo, «in
permanenza».
Anche un profano capirebbe che il ragazzo è alla
fine, in coma. Muore a mezzanotte e 45 minuti del 7 maggio, la domenica
delle elezioni. Si tenta di seppellirlo in fretta, di nascosto.
Franco
Serantini è vittima di una doppia morte, quella selvaggia a opera della
polizia e quella dello Stato che rifiuta di processare se stesso. Il
tempo della giustizia mancata è segnato poi da infiniti conflitti
giudiziari, da reticenze, bugie, avocazioni decretate dal procuratore
generale di Firenze, Mario Calamari, da processi fasulli che finiscono
nel nulla.
Il coraggio di un giudice istruttore, Paolo Funaioli, e
il gesto di un commissario di polizia, Giuseppe Pironomonte, che si
dimette per la vergogna, rappresentano il Paese civile, rispettoso
dell’animo umano.
Quasi mezzo secolo dopo l’altra Italia non è
ancora riuscita a far ascoltare la lezione di dignità dettata dalla
legge e dalla Costituzione della Repubblica (art. 2; art. 3; art. 13).
Il calendario delle violenze dura da decenni. Qualche esempio di fatti fuorilegge del XXI secolo.
Genova,
luglio 2001, il G8, una mattanza. È impressionante l’attacco poliziesco
contro inermi, giovani e vecchi, già colpiti, a terra. Amnesty
International aprì un’inchiesta e in una lettera pubblica 700 professori
delle università italiane si appellarono al presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi, con domande e proteste circonstanziate sui fatti
accaduti. E poi il vergognoso assalto alla scuola Diaz, presenti alte
autorità di polizia venute da Roma, e l’indecente pestaggio alla
caserma-lager di Bolzaneto, sangue, violenza, tortura, con il sottofondo
musicale di inni fascisti.
Ferrara, settembre 2005. In corso
Ercole I d’Este, la strada dove Giorgio Bassani fa vivere nel suo
Giardino dei Finzi-Contini i protagonisti del romanzo, Micòl e Alberto,
quattro poliziotti aggrediscono con ferocia Federico Aldrovandi, un
ragazzo di 18 anni — tornava da una festa —, lo calpestano
schiacciandolo con gli scarponi, lo colpiscono, dalla testa ai piedi;
con i manganelli che si spaccano. 54 lesioni grandi e piccole. La morte.
Roma,
ottobre 2009. Stefano Cucchi, un giovane di 31 anni «trovato morto»
all’ospedale Sandro Pertini. Arrestato, deteneva una piccola quantità di
droga, massacrato. Le fotografie rese pubbliche sono impressionanti. Il
viso di Stefano è un mascherone sanguinante. Sono necessari nove anni
perché un carabiniere pentito racconti quel che accadde nella prima
caserma dove fu rinchiuso. (Qual è l’educazione civile, politica,
militare che viene impartita nelle caserme? La Costituzione non è andata
al di là delle garitte delle sentinelle e dei corpi di guardia?).
Nel
ricordare queste storie di vita e di morte — in Italia esistono anche
tante energie positive troppo spesso non viste e non integrate nella
comunità — viene in mente Nuto Revelli quando ricordava le donne della
montagna piemontese che, durante la Resistenza, a rischio della vita,
aiutavano i partigiani, nel nome e nel ricordo dei figli e dei fratelli
scomparsi o morti in Russia. Nelle tragiche vicende di Federico
Aldrovandi e di Stefano Cucchi rifulge proprio l’appassionato ruolo
delle donne, Patrizia Moretti, la madre coraggio di Federico, e Ilaria
Cucchi, la sorella di Stefano, con il suo luminoso non mollare.
Questa
nuova edizione del Sovversivo, 44 anni dopo l’uscita del libro, è
arricchita dagli straordinari disegni di un grande artista, Costantino
Nivola.
Sardo come Serantini, con la sua stessa passione umana e
politica, vide il libro a Roma in casa dello scrittore Antonio Cederna.
Si incuriosì, se lo fece prestare. Viveva negli Stati Uniti, a Roma era
ospite dell’Accademia americana. Amico di Antonio e della sua famiglia,
frequentava spesso, durante i viaggi in Italia, la sua casa. Si
appassionò al libro. Si identificò, forse, nel ragazzo Serantini. Lui,
figlio di un muratore, era nato nel 1911 a Orani (Nuoro). Aveva lasciato
l’Italia nel 1938 in seguito alle leggi razziali del fascismo, la
moglie era di origine ebraica. Visse dapprima a Parigi e poi, per
decenni, negli Stati Uniti. Si fece subito conoscere come disegnatore e
come scultore. Usava la sabbia, la terracotta, il marmo, fu attratto dal
fervore dell’ambiente nuovo, vicino alla cultura dell’arte informale,
autore di graffiti murali, di monumenti di granito esposti in molte
città in America e in Italia.
Lavorò nello studio di Le Corbusier,
fu stilisticamente vicino a Saul Steinberg, insegnò alla Columbia
University, alle università di Harward e di Berkeley. A Orani il Museo
Nivola ospita una grande collezione delle sue opere. È morto nel 1988 a
Long Island. Vicino a Boston vive l’amata figlia Chiaretta.
Si
appassionò dunque alla storia di Franco Serantini e negli spazi bianchi
del libro, prima dell’inizio dei capitoli e ai margini delle pagine, ne
raccontò coi suoi disegni la vita e la morte. Un unicum editoriale.
I
disegni di Costantino Nivola sono l’ultimo dei doni che Franco
Serantini ha avuto, dopo quell’indimenticabile funerale, partecipe e
commossa tutta la città di Pisa.
Ha ricevuto altri doni, il
ragazzo sardo. Il monumento dei cavatori di marmo di Carrara, a lui
dedicato in piazza San Silvestro dove una volta aveva sede il
riformatorio; la Biblioteca che porta il suo nome, 50.000 libri, 6.000
periodici, 500 metri di documenti; il concerto, N.N. di Francesco
Filidei, musicista che vive a Parigi, conosciuto e stimato in tutta
Europa.
La memoria del ragazzo sardo non si è smarrita.