Corriere 22.1.19
In Corea vinse la Cina
Con il suo intervento Mao fermò gli usa e pose le premesse del distacco da Mosca
Un
saggio di Gastone Breccia (il Mulino) sul conflitto che devastò la
penisola asiatica dal 1950 al 1953. Stalin autorizzò Kim Il-sung ad
attaccare il Sud ma chiarì che in caso di reazione occidentale toccava a
Pechino farsi avanti
di Paolo Mieli
La guerra
di Corea si concluse, dopo tre anni di combattimenti, con un armistizio
firmato a Panmunjom il 27 luglio del 1953. Apparentemente fu una
conclusione senza vincitori né vinti. Ma in realtà la divisione tra Nord
e Sud al 38° parallelo fu considerata dal campo statunitense una quasi
sconfitta e da quello comunista una sostanziale vittoria. Mao la definì
addirittura «una vittoria di enorme significato» per essere riuscito a
non farsi piegare da 33 mesi di scontro in armi con le forze americane.
Ora sul continente Mao «poteva utilizzare al meglio la propria forza
militare, quantitativamente senza rivali», scrive Gastone Breccia in
Corea, la guerra dimenticata, in libreria il 31 gennaio per i tipi del
Mulino. Il leader cinese giunto al potere nel 1949 avvertiva che presto —
occupato il Tibet nel 1951 — avrebbe avuto l’occasione di consolidare
il proprio controllo sull’estesissima regione asiatica «senza dover
temere reazioni decise da parte della comunità internazionale». Ai tempi
era già chiaro che «il caotico processo di decolonizzazione» in
Vietnam, Cambogia e Laos avrebbe offerto «ulteriori opportunità
all’espansione dell’influenza cinese». E le cose andarono proprio così,
effettivamente, nei trent’anni successivi.
Che valutazione si può
dare oggi a quei combattimenti tra il 1950 e il 1953? La guerra di Corea
fu un «gioco di specchi», scrive Breccia: ogni azione rimandava a
qualcosa accaduto prima, o altrove; ogni obiettivo politico e strategico
si rifletteva parzialmente distorto in quelli delle altre potenze in
gioco. Sia Kim Il-sung al Nord sia Syngman Rhee al Sud volevano una sola
Corea; sia Stalin sia Truman volevano evitare la terza guerra mondiale;
sia Mao sia Stalin volevano un’espansione della sfera d’influenza
comunista in Estremo Oriente. Si può dire che sia stata ad un tempo una
«guerra civile», una «guerra limitata» e una «guerra per procura».
L’ultimo conflitto con mischie corpo a corpo alla baionetta e il primo
con duelli aerei tra caccia a reazione; una «tragica ma provvidenziale
alternativa alla terza guerra mondiale», una semi world war, una guerra
per la supremazia in Asia nordorientale.
I giapponesi erano dal 22
agosto 1910 «padroni» della Corea, che nel corso della Seconda guerra
mondiale era stata una retrovia delle loro truppe, retrovia costretta a
«fornire» ben 200 mila «donne di conforto» per i soldati del Sol
Levante. L’Unione Sovietica era entrata in guerra contro il Giappone
alla mezzanotte dell’8 agosto 1945 — due giorni dopo l’atomica su
Hiroshima — e le truppe dell’Armata rossa avevano invaso la Manciuria
con l’evidente proposito di penetrare anche in Corea. Gli Stati Uniti
compresero all’istante che rischiavano di trovarsi di fronte al fatto
compiuto (un Paese occupato per intero dalle truppe dell’Urss) e si
precipitarono a proporre un accordo per la «temporanea spartizione»
della penisola. Proposta che fu accettata da Stalin il 15 agosto: agli
Usa sarebbe andato il controllo di un territorio vasto circa 95 mila
chilometri quadrati (in gran parte coltivabile) a sud del 38° parallelo,
i cui abitanti erano 21 milioni, due terzi del totale; all’Urss veniva
attribuita un’area molto più grande (quasi 125 mila chilometri
quadrati), ricca di risorse del sottosuolo, con la maggior parte delle
installazioni industriali e tutte le centrali idroelettriche del Paese,
ma con una popolazione di soli nove milioni di abitanti. I giapponesi —
che erano in procinto di firmare la resa incondizionata — lasciarono
entrare i russi senza opporre alcuna resistenza.
I sovietici
potevano contare su una figura di prestigio: Kim Il-sung aveva
combattuto i giapponesi negli anni Trenta, poi, all’inizio del decennio
successivo, si era rifugiato in Urss e adesso poteva ripresentarsi in
patria con una notevole credibilità. Nonostante ciò, nell’estate del
1945 gli uomini di Stalin lo accantonarono per tentare «brevemente e
inutilmente» di «collaborare con elementi di orientamento politico
diverso, compresi i nazionalisti». Fu solo all’inizio del 1946 che,
fallito questo tentativo soprattutto per la diffidenza degli
interlocutori, Kim venne ripescato e posto alla guida della Corea del
Nord. All’epoca Kim aveva 33 anni (era nato nel 1912) e, alle spalle,
una lunga esperienza politica: arrestato già nel 1929 dai giapponesi per
«attività sovversiva» (all’epoca aveva solo 17 anni), a partire dal
1932 aveva organizzato la resistenza armata in Manciuria.
C’è
un’amara ironia, ha scritto Callum MacDonald, «nel constatare il diverso
atteggiamento tenuto dagli americani in Giappone e in Corea»: per i
giapponesi — i quali nella Seconda guerra mondiale erano stati
implacabili nemici — gli Usa vollero riforme sociali ed economiche che
avrebbero fatto del loro Paese un caposaldo della modernità in Asia; per
gli incolpevoli coreani scelsero invece di ripristinare in larga misura
le strutture repressive dell’impero nipponico, «utilizzandole senza
alcuna remora per schiacciare la sinistra». Tutto ciò perché in Corea
gli Stati Uniti non riuscirono a trovare il loro Kim, un interlocutore
adatto a svolgere una complicata missione politica.
L’odio diffuso
per i giapponesi e «il discredito caduto su buona parte dei moderati e
dei conservatori, colpevoli di aver collaborato con l’occupante» rendeva
assai probabile che, in caso di elezioni su base nazionale, i comunisti
avrebbero conosciuto una grande affermazione. L’unica forza capace di
sostenere l’azione di contenimento dei comunisti stessi potevano essere i
nazionalisti reazionari del cosiddetto governo provvisorio coreano
creatosi a Shanghai nel 1919 sotto la presidenza di Syngman Rhee. Talché
il generale Hodge lo fece rapidamente rientrare affinché assumesse un
ruolo politico in funzione specificamente anticomunista. E Syngman Rhee
operò alla sua maniera: repressione, repressione, repressione. Il vero
potere nella Corea del Sud, si legge in un rapporto dell’epoca di un
diplomatico australiano, «è nelle mani di una polizia spietata che opera
agli ordini e sotto la direzione del quartier generale statunitense e
di Syngman Rhee… Le prigioni sono più affollate oggi che all’epoca dei
giapponesi, la tortura e l’assassinio degli avversari politici sono una
prassi comune e accertata».
In ogni caso, per dare una parvenza di
legalità alla loro impresa, gli Stati Uniti — sotto l’egida dell’Onu —
organizzarono nella zona da loro controllata elezioni costituenti che si
tennero il 10 maggio del 1948. Nel corso della campagna elettorale
comunisti e anticomunisti provocarono un numero considerevole di morti
ma il voto riuscì a dare una qualche stabilità al regime di Syngman
Rhee. Dopodiché gli americani iniziarono a discutere della possibilità
di un proprio disimpegno. Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949 i
dipartimenti di Stato e della Difesa, per paradossale che possa
apparire, si trovarono su posizioni opposte: i civili premevano per
tenere in Corea reparti combattenti, mentre i generali sostenevano la
necessità di «rischierarli rapidamente altrove». Il 23 marzo del 1949 il
presidente Truman approvò un documento in cui si metteva in evidenza
l’eventualità che le truppe statunitensi fossero costrette ad
abbandonare la penisola in caso di attacco nemico e si perorava la causa
del ritiro dei contingenti. Entro il 30 giugno. «Meglio nessuno che
pochi uomini destinati ad essere sopraffatti», riassume Breccia: «La
paura di una sconfitta sul campo diventava il motivo per abbandonare un
alleato ancora senza difesa, per di più schierato in prima linea,
praticamente a contatto con il nuovo nemico globale», la Cina.
Fu a
quel punto che i sudcoreani provocarono un incidente. Il 4 maggio
inviarono loro truppe a Kaesong oltre il 38° parallelo. La battaglia,
racconta Breccia, durò quattro giorni; alla fine si contarono — secondo
fonti ufficiali del Sud, «ovviamente sospette» — circa quattrocento
caduti tra i soldati di Pyongyang e solo ventidue tra gli attaccanti.
Gli Usa furono turbati dall’iniziativa. Il segretario di Stato Dean
Acheson mandò un telegramma al rappresentante degli Stati Uniti in Corea
dicendogli di avvertire il leader sudcoreano che, nel caso altre
intemperanze del genere avessero messo a rischio i rapporti tra i due
Paesi, «doveva abbandonare l’illusione che gli Stati Uniti fossero
disposti a pagare un prezzo anche minimo per conservare la sua
amicizia». Washington, documenta Breccia, continuò a non prendere troppo
sul serio la minaccia di una invasione comunista della Corea del Sud. E
Stalin «non sembrava propenso a rischiare una guerra su vasta scala per
riunificare un Paese di cui controllava già quel che poteva
convenirgli». Nel settembre del 1949 il Politburo del Pcus respinse
alcune richieste di aiuto di Pyongyang, lasciando chiaramente intendere
che considerava «secondaria» quella parte del mondo.
Cos’è che
provocò un cambiamento tale da far esplodere pochi mesi dopo la guerra
di Corea? All’inizio dell’autunno del 1949 trovò conferma la notizia che
il 29 agosto gli scienziati sovietici erano riusciti a far esplodere il
loro primo ordigno atomico, ponendo fine al monopolio statunitense di
quel tipo di armi. Poco più di un mese dopo, il 1° ottobre di quello
stesso anno, Mao Zedong proclamò a Pechino la nascita della Repubblica
popolare cinese mentre il leader nazionalista Jiang Jieshi (noto anche
come Chiang Kai-shek) si accingeva a riparare a Taiwan (10 dicembre). Il
12 gennaio del 1950, Acheson pronunciò un breve discorso al National
Press Club di Washington in cui prospettò, nel caso di un attacco
comunista in Corea, l’impegno «dell’intero mondo civilizzato» e un
coinvolgimento dell’Onu. Stalin per parte sua cercava un’affermazione
che ristabilisse il primato russo sulla Cina appena approdata al
comunismo. Convocò Mao a Mosca e lo fece attendere 17 giorni prima di
concedergli udienza; alla fine — dopo averlo incontrato — lo costrinse a
firmare un trattato di alleanza che nei fatti riconosceva al dittatore
georgiano l’indiscutibile supremazia del cosiddetto schieramento
anticapitalista.
E fu per rendere evidente tale supremazia che il
30 gennaio del 1950 da Mosca partì un dispaccio cifrato per
l’ambasciatore sovietico a Pyongyang, il colonnello Terentij Stykov, per
esortarlo a prendere in considerazione l’eventualità di un attacco
attraverso il 38° parallelo. Pur esortandolo poi a non accelerare i
tempi dal momento che «una simile grande impresa» avrebbe richiesto
un’accurata preparazione. Nell’aprile del 1950 Kim Il-sung fu convocato a
Mosca dove concordò i dettagli della «grande impresa». Ma Stalin —
nell’errata previsione che gli Stati Uniti non si sarebbero fatti
coinvolgere nel conflitto — aggiunse che in Corea non avrebbe mandato
uomini, solo materiale militare: «se vi prenderanno a calci nei denti»,
specificò, «non alzerò un dito, dovrete chiedere aiuto a Mao». Con
questa mossa otteneva un «doppio vantaggio»: «avrebbe creato non pochi
problemi agli strateghi americani al prezzo, per Mosca, di qualche
migliaio di tonnellate di materiale bellico ormai invecchiato, senza
rischiare direttamente un solo uomo»; in più, «dimostrava a tutti gli
interessati che era e restava il solo in grado di dettar legge nel mondo
comunista, relegando Mao Zedong nel ruolo di comprimario». Meglio
ancora al ruolo di «esecutore di ordini non graditi», visto che il
«grande timoniere» avrebbe preferito non doversi occupare dei problemi
di Kim Il-sung, per concentrarsi invece sulla difficile impresa di
eliminare l’ultima roccaforte del Kuomintang, «la cui esistenza
continuava a gettare un’ombra sulla sua vittoria nella guerra civile».
Nell’estate
del 1950 Kim attaccò la Corea del Sud: tra luglio e agosto occupò gran
parte del Paese. A settembre Douglas MacArthur con l’operazione Chromite
conquistò Inchon, riprese le terre perdute e successivamente avanzò a
Nord. Allora l’esercito di Mao intervenne in Corea. MacArthur avrebbe
voluto attaccare anche la Cina, ma si scontrò con il presidente Truman,
che nel 1951 disse di non poter «più tollerare la sua insubordinazione» e
lo destituì. Dopodiché la guerra proseguì per altri due anni
sanguinosamente per concludersi lì da dove era partita: sul 38°
parallelo. Mao, come si è detto all’inizio, uscì sostanzialmente
vincitore da quel conflitto, consapevole di non dover temere l’esercito
più forte del mondo (quello americano), ma soprattutto di non essere più
costretto ad avere un ruolo subalterno all’Unione Sovietica. Se ne può
dedurre che il conflitto tra Urss e Cina risale in qualche modo ai
primissimi anni Cinquanta, gli ultimi della vita di Stalin. Al quale —
come concordarono Henry Kissinger e Zhou Enlai in un colloquio segreto
il 10 luglio del 1971 — andavano ricondotte molte responsabilità di quel
che accadde tra il 1950 e il ’53. E di ciò che ne seguì.